Viaggio nella letteratura sarda leggendo Francesco Alziator, di Maria Michela Deriu

In questa rubrica mi vorrei occupare di un libro a me (nella foto) molto caro e altamente  sottovalutato: “Storia della Letteratura di Sardegna “ di Francesco Alziator.

La prima edizione apparve nel 1954 a cura della casa editrice La Zattera. Non è in commercio da diversi anni ma, fortunatamente, consultando il catalogo dell’OPAC (Online Public Acess Catalogue) Sardegna si può trovare in moltissime biblioteche dell’Isola.

E’ una storia della letteratura che non ha nulla di accademico e, com’è nell’animo dell’autore, persegue un filo originale pur rispettando rigorosamente fonti e ritrovamenti.

A questo punto, per far chiarezza, farei parlare Francesco Alziator che nelle “Avvertenze” della prima pagina del libro, quasi a predisporre il lettore a una poco disciplinata scrittura, scrive:

“ Questo libro più che una vera storia della letteratura vorrebbe essere un invito agli studiosi, un’indicazione di scrittori e di esempi da riprendere a ripensare.

Tenendo presente questi intendimenti si chiariranno anche quelle che possono parere talune sproporzioni nell’economia dell’opera.

Infatti,spesso, più sono ignorati gli autori e maggiore è lo spazio dedicato ad essi; più essi sono noti più è sommaria la trattazione.”

Questo inciso descrive perfettamente la scala di valori di Alziator che, con rara indipendenza di giudizio, fa un escursus storico- letterario altamente originale.

L’opera che, ovviamente, non si compone di quattro paginette in croce, è una lunga narrazione storica, filologica, artistica, narrativa  che l’autore percorre dai primordi della scrittura sarda fino al 1977, anno della morte di Francesco Alziator.

Il primo capitolo ha un titolo poetico:

“L’età del grande silenzio”

 

Come inizia la storia della lingua di un popolo?

Spesso, per ricostruire la storia della letteratura delle varie etnie, si recuperano documenti interessanti da un punto filologico se non artistico. Per la Sardegna mancano pure quelli.

I relitti di una lingua protosarda rivivono nei nomi dei fiumi, di monti, di paesi, di animali e di piante. Ricordo, in uno dei suoi articoli, quanto fu contrariato il professore quando Sa ruga de Is Argiolas venne nominata via Garibaldi,

“Is Argiolas “ uno dei pochi toponimi autenticamente sardo.

Da dove inizia,quindi, ad attingere Alziator a  quel mondo indigeno  per ritrovare gli autentici personaggi del mito?

Secondo l’autore, sicuramente la più importante, vasta e originale forma di creatività silente del pensiero protosardo sono i bronzetti.

Sono circa 400 le immagini di uomini, di donne, che rappresentano la vita di tutti i giorni.

Ma a un popolo che si affacciava alla storia non bastava il quotidiano, aveva bisogno del  mito.

Il mito è la capacità di rappresentare le aspirazioni  di una  comunità o di un epoca, elevandosi a simbolo eroico o religioso.

Tra i circa 400 bronzetti che si trovano in Sardegna  ecco l’uomo toro, fusione della bestia e dell’uomo, che, in simbiosi, dimostrano l’atteggiamento di forza: l’uomo conserva la dignità del guerriero, la bestia la forza della mole e del sesso.

Gli eroi dei quattro occhi sono creature che hanno superato il limite dell’umano.

Il terzo elemento è  la nave : mito, gesta eroiche e realtà si fondono.

A molti vien da pensare come un popolo che non pare sia stato orientato verso il mare abbia una serie di manufatti in bronzo che riproducono navi. Eppure nello studio della figurazione della nave, probabilmente, troviamo un elemento indicatore dei punti oscuri  della preistoria e della protostoria sarda: dal mare vennero i primi abitanti, forse da oriente, forse dall’Africa; dal mare arrivarono nei secoli dominatori e invasori. Il mare, un nemico ma non per i nostri antenati che tra i loro doti votivi raffigurano navi che hanno una vaga somiglianza etrusca come nel bronzo del nuraghe Spiena di Chiaramonti.

Col passare dei secoli anche la nostra isola inizia a passare sotto il controllo di Roma.

Non è mia intenzione fare un riassunto del libro di Alziator, mi soffermerò sui personaggi che l’autore, spesso causticamente, ha descritto nella sua opera.

Non si può dire che la storia della letteratura sarda cominci con un grande nome ma, comunque, inizia con un nome famoso: Tigellio.

Quanti di noi passando nei pressi di Palabanda hanno ammirato i ruderi di una antica casa romana? La casa di Tigellio, appunto. Ma chi era Tigellio e cosa faceva nella vita oltre che lasciarci le tracce della sua dimora?

Tigellio era sardo ma molto addentro alla vita politica romana , certo una figura secondaria rispetto ai grandi politici ma abbastanza gradito ad Augusto, a Clepatra, a Cesare e in quelli anni ebbe sicuramente il suo momento di celebrità e di gloria,

Molti nemici, molto onore, per cui, basandosi su questo criterio , Tigellio inviso a Cicerone e Licinio, antipatico ad Orazio, non era uomo da sottovalutare.

Ma che faceva infine questo Tigellio tanto da suscitare tante simpatie e tante ire intorno a se?

Tigellio era un cantore.

Per cantore, nella antica Roma, si intendeva un virtuoso della voce più o meno come i cantanti d’oggi.

A quei tempi, però, i cantori erano qualcosa di più: dovevano sapere di musica per potersi accompagnare con la cetra, spesso componevano loro stessi  i loro versi; con la dovuta distanza temporale erano i precursori dei moderni cantautori.

Che fosse sardo è certo, indicato come tale da Licinio Calvo, il quale gli fu così ostile da lanciargli i feroce giambo: “Venne il sardo Tigellio con il capo putrido”.

Cicerone rincara:”Un uomo più pestilenziale della sua  patria”.

Ma sono i versi di Orazio che destinano Tigellio all’immortalità.

Orazio, in tre esametri, descrive il suo corteo funebre. Con tinte tra il ridicolo e il grottesco riporta la folla degli  addolorati per la morte del cantore: suonatrici di flauto e dalla vita equivoca, ciarlatani, imbroglioni, una schiera di mimi e una triviale caterva di buffoni che chiude la processione dei dolenti.

Si dice che avesse una bella voce ma su suoi testi, ahimè, nessuno si può pronunciare, perché a parte queste autorevoli testimonianze nulla ci resta di lui, non sappiamo se purtroppo o per fortuna.

Certo è che Tigellio ha diritto di cittadinanza nella letteratura sardo-romana.

Non si hanno notizie di una vera vita letteraria a Cagliari se non in periodo imperiale grazie alle epigrafi della tomba cagliaritana di Attilia Pomptilia e Cassio Filippo.

Cassio Filippo era un cavaliere confinato in Sardegna seguito dalla moglie Pontilla.

A Cagliari, il nobile romano si ammalò; allora Pomptilia offrì alle divinità degli inferi la propria vita in cambio di quella dell’adorato Filippo; esaudita la preghiera, la rapirono nell’Ade, ridonando la salute a Filippo.

 

Il sepolcro che si trova in Via Sant’Avendrace è un tempietto noto coma “La grotta della Vipera”.

Di pregio sono le dodici iscrizioni in versi, di cui sette greche e cinque latine.

Una lunga schiera di filologi e studiosi hanno studiato e comparato con altre scritte greche e latine le iscrizioni dedicate alla moglie devota cercandone l’autore e attribuendole allo stesso Cassio Filippo.

Ma, viene in mente ai più, che un gentiluomo romano del II secolo potesse parlare e scrivere in greco, ma che fosse anche poeta e dell’altezza dell’autore di qualcuna delle iscrizioni citate è improbabile, si sarebbe fatto notare anche a Roma.

E’ più probabile che i pochi letterati di un ambiente piccolo e provinciale come Cagliari dei tempi di Cassio Filippo avessero tutti un medesimo gusto ed una medesima scuola.

Francesco Alziator giunge a questa conclusione:

“Non è Filippo, dunque, l’autore delle liriche per Pomptilia, ma piuttosto poeti cagliaritani dell’età imperiale, poeti anonimi ed oscuri la cui produzione, pur risentendo di evidenti motivi di scuola e di maniera, costituisce tuttavia l’unico e non disprezzabile momento di poesia in tanto silenzio.”

 

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