Sì, ma poi alla fine perché i giovani sardi non fanno più figli? “Perché non sanno diventare adulti!”. Ecco l’analisi della sociologa Anna Oppo
Questo articolo è stato pubblicato nel sito di VITO BIOLCHINI, il 12 gennaio 2012. Lo ringraziamo e con lui siamo grati alla professoressa ANNA OPPO, della quale riportiamo lo studio qui sopra citato.
Sì, ma poi alla fine perché i sardi non fanno più figli? Non tutto il male viene per nuocere e forse anche la fesseria televisiva di Paolo Villaggio ci può spingere ad affrontare uno dei temi più spinosi che riguardano la nostra isola. Lo ricordava oggi sulla Nuova Sardegna Eugenia Tognotti. Sta di fatto che da anni ormai la Sardegna è la prima regione in Italia in quanto a bassa natalità, e l’Italia è lo stato europeo dove la natalità è più bassa. Insomma, abbiamo questo record e non riusciamo neanche a spiegarcelo.
La domanda dunque riguarda tutti noi. Perché non facciamo figli? Perché “non ne vogliamo”? Perché siamo poveri? Perché abbiamo paura del futuro?
La sociologa dell’Università di Cagliari Anna Oppo, in un articolo dal titolo “Donne senza figli, perché cosi tante in Sardegna?”, pubblicato nel 2007 sul sito insardegna.eu, propone una serie di dati e fornisce un quadro interpretativo interessante. Non conosco altri studi né ho trovato sulla rete analisi più recenti, ma quello della Oppo mi sembra un ottimo punto di partenza (i dati analizzati sono ormai vecchi di otto anni, ma dal 2004 al 2011 la situazione non è per niente cambiata).
Cosa dice la professoressa? Il mio consiglio è quello di leggervi tutto l’articolo (molto comprensibile) ma dovendo sintetizzare vi propongo questi passaggi.
Le ragazze (ma anche le giovani coppie) sarde hanno un calendario di transizione alla vita adulta in qualche misura più rigido delle loro coetanee delle altre circoscrizioni territoriali del paese. Esse, cioè, si attengono con più rigore a quelle scansioni che, poste in successione, hanno contrassegnato l’ingresso nella vita adulta, delle giovani donne dagli anni Settanta in poi: fine della scuola, formazione della coppia mentre si tenta l’ingresso nel mercato del lavoro, il raggiungimento di un’occupazione, il matrimonio, i figli.
Capito? Andiamo avanti.
Se questo è il “modello” che hanno in mente innumerevoli ragazze sarde – negli anni Settanta le sociologhe lo avevano denominato il modello della “doppia presenza”, nel mercato e in famiglia – le difficoltà a realizzarlo incominciano a delinearsi all’uscita della scuola ( diploma o laurea, prevalentemente) quando, invece che un’occupazione esse e i loro partner si trovano di fronte a una sfilza di “lavoretti”, che non promettono, se non raramente, di guardare con ottimismo al compimento delle ulteriori transizioni.
In altre parole, sorgono le prime difficoltà, la vita non va come dovrebbe, e la coppia si arena. E qui arriva il bello, perché
Si insiste in questi lavoretti, così come vi insistono i loro partner, per mancanza di meglio ma anche perché il denaro che così si guadagna può essere utilizzato negli irrinunciabili svaghi e consumi giovanili. Così trascorrono molti anni – i “fidanzamenti” durano talvolta più di dieci anni – proprio quegli anni che i vecchi demografi definivano “ i più favorevoli alla generazione”.
Insomma, dovendo brutalmente sintetizzare giornalisticamente questo studio, diciamo che i giovani sardi non vogliono diventare adulti! E i loro genitori in questa folle aspirazione inconsciamente li sostengono! Non ci credete?
Si può aggiungere che questo modello è condiviso da genitori e parenti, oltre che dal clima culturale prevalente che, pur in presenza di coordinate sociali assai diverse, continuano tenacemente a ritenere che per fare famiglia gli sposi devono avere i loro modi di sostentamento indipendenti, magari una bella e costosa festa di nozze e, possibilmente un’abitazione in proprietà (con il loro sollecito aiuto, naturalmente).
Insomma, tra i venticinque e i trentacinque anni i giovani sardi si autoconfinano in una sorta di limbo, in una terra di nessuno. Lavori saltuari, fidanzati eterni, nessuna progettualità perché tutto quello che si vorrebbe dalla vita è troppo difficile da ottenere. Così passa il tempo e il figlio (unico) arriva quasi fuori tempo massimo. Un disastro.
Certo, poi manca il sostegno alle donne lavoratrici, non ci sono gli asili. Ma sono fattori che si riscontrano anche in altre regioni italiane. Insomma, qui si tratta di prendere il tema di petto. C’è qualcosa che spinge i giovani sardi a non fare figli. Ecco, una politica consapevole del suo ruolo un bello studio su questo tema dovrebbe commissionarlo a tamburo battente.
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Donne senza figli. Perché così tante
in Sardegna?
di Anna Oppo
Gli ultimi dati a livello regionale relativi al 2004 assegnano alla Sardegna l’ultimo posto in graduatoria per numero di figli per donna. Ciò è dovuto al fatto che a differenza delle altre regioni in Sardegna sono tante le donne che scelgono di non avere figli. Perché? Difficile dare una risposta visto che di loro sappiamo poco o nulla.
‘ alt=preg class=image-left v:shapes=”_x0000_i1027″> La bassa fecondità delle regioni dell’Europa mediterranea, oltre che un preoccupante fenomeno sociale, è diventato anche un importante caso di studio per molti specialisti di diverse ottiche disciplinari, demografi, economisti, sociologi, antropologi. Le teorie che sono state elaborate al riguardo sono molteplici, ciascuna illuminandone un aspetto, nessuna in grado di dare una spiegazione compiuta. Non ho intenzione di ripercorrere queste teorie ma solo descrivere la vicenda sarda non solo perché ci interessa più direttamente ma soprattutto perché costituisce quasi un caso a sé, una specie di anomalia nel panorama italiano ed europeo.
Il primo dato è quello più noto ma vale la pena di richiamarlo ( Figura 1). Al 1952 l’isola risultava la regione con il tasso di fecondità in assoluto più alto fra tutte le regioni italiane. Benché anche da noi piccoli gruppi di popolazione urbana – borghese e piccolo borghese – avessero iniziato un controllo sistematico della fecondità la grande maggioranza della popolazione continuava ad avere famiglie molto grandi, perché “molte braccia, molto pane”, perché i molti figli erano simbolo di virilità e femminilità pienamente realizzati ( le donne un po’ meno sicure, tuttavia), perché “non si sapeva quel che si sarebbe saputo dopo”. L’Italia nel suo insieme – specificamente le regioni centro-settentrionali, ma parzialmente anche alcune realtà meridionali – avevano iniziato a ridurre il numero dei figli già dalla fine del XIX secolo e avevano continuato a farlo per tutta la prima metà del Novecento così che al 1952 i tassi sardi risultavano di circa il 40% più alti di quelli nazionali e di circa il 30% di quelli del Mezzogiorno.
Figura 1
Figura 2
A partire da questa data inizia la diminuzione, più veloce che nel resto del paese, appena interrotta dal flebile “baby boom” dei primi anni Sessanta, per divenire caduta precipitosa nei decenni successivi. Pur seguendo l’andamento generale del paese nel suo complesso e, in particolare, le curve meridionali, i dati sardi si qualificano per una più rapida e profonda discesa, per l’assenza di periodi di stasi o di quella “ripresina” iniziata nel 2002 nelle regioni centro settentrionali, con l’apporto non secondario della popolazione immigrata. Gli ultimi dati a livello regionale, di fonte anagrafica, del 2004, assegnano alla Sardegna l’ultimo posto in graduatoria per numero di figli per donna: 1,02 contro il pur misero 1,09 della Liguria, regione che da decenni registra i più bassi tassi di fertilità del paese.
Ma la riduzione dei tassi di fecondità avviene nell’isola con caratteristiche per certi versi simili ma per altri assai diversi dal resto delle regioni italiane. In modo simile al resto del paese la riduzione delle nascite avviene in Sardegna a spese delle “alte parità” – così i demografi chiamano le nascite superiori a due. Dalla coorte di donne nate nel 1920 fino alle coorti più giovani la riduzione più vistosa riguarda, appunto, le alte parità. Due figli è stato fino a poco tempo fa il modello che è andato affermandosi nella maggior parte delle coppie meridionali, tendenzialmente un figlio solo il modello delle coppie centro-settentrionali. Anche la Sardegna ha ridotto in maniera veloce e massiccia le alte parità a favore di una famiglia con un numero ridotto di figli. Contemporaneamente, tuttavia, è andato progressivamente crescendo il numero di donne che non ha figli né che avrà speranza di averne. Le stime dei demografi dell’ISTAT per le coorti di donne nate nel 1963 e nel 1966 registra per la Sardegna percentuali di donne senza figli rispettivamente del 25,5% e del 31,3%, circa l’8% in più dei dati complessivi italiani e dell’11% del mezzogiorno rispetto alla coorte del 1963. E per la coorte di nascita successiva ( del 1966) il divario si approfondisce. (figg.. 1, 2, 3, 4.). Analisi condotte con altri dati ( Multiscopo 2003, Famiglia e soggetti sociali) confermano le stime ISTAT contribuendo a disegnare un modello sardo, per così dire “dualistico”: circa 70% di donne con bassa o media fecondità, 30% di donne non feconde. E’ evidente che nei calcoli del numero di figli per donna questo 30% esercita un forte peso, in qualche modo oscurando il peso delle famiglie con due o più di due figli.
Figura 3
Figura 3
Figura 4
Ma perché in Sardegna tante donne non fanno figli? Da escludere immediatamente che si tratti di donne che “non vogliono figli”. Ripetute ricerche hanno mostrato che le donne italiane, comprese le donne sarde, desiderano almeno due figli, possibilmente qualcuno di più (2,1 in Sardegna, sia i maschi che le femmine) . Né si può pensare che ci siano in Sardegna un 30% di donne che hanno trascorso la loro età fertile perseguendo carriere più o meno prestigiose a scapito della maternità. Non ci sono tante “carriere” per le donne in Sardegna, a mala pena si arriva al 35% di occupazione femminile.
Ma di queste donne non si sa nulla. Le periodiche indagine sulle nascite o sulla fecondità ci forniscono centinaia di informazioni su “madri e bambini” fino al peso alla nascita di questi ultimi o il mese in cui sono nati. E da queste indagini troviamo conferma di quel che sappiamo da anni: che fanno meno figli le donne con alta scolarità piuttosto che le poco scolarizzate, che le occupate sono meno feconde delle disoccupate e di coloro che si definiscono “casalinghe” – specie se hanno una bassa istruzione – e che il problema maggiore delle lavoratrici con figli è quello della “conciliazione” fra lavoro e famiglia. Anzi, il tema della conciliazione occupa sempre più spesso il dibattito pubblico, dalle direttive UE ai discorsi delle donne politiche, ai dibattiti, non troppo numerosi, a dire il vero, sui mezzi di comunicazione di massa. Ma delle “madri mancate” non si occupa nessuno, come se la loro assenza non avesse alcun peso sui TFT o, per altri versi, sulla qualità della loro vita. E poiché in Sardegna sono tante vale forse la pena di occuparsi un poco di loro, con le poche informazioni disponibili e alcune preziose indicazioni provenienti da fonti qualitative che hanno indagato la bassa fecondità italiana soffermandosi su “event histories” e “storie di vita” di campioni non troppo piccoli di soggetti raccolti in diverse realtà del paese, Sardegna compresa.
Le risultanze meno controverse disegnano un modello che in termini assai schematici può essere così descritto. In modo più accentuato che nel resto del paese la fase cruciale della fecondità ( o non fecondità) in Sardegna è la transizione al primo figlio. Superato questo scoglio le donne sarde si affrettano, come quasi tutte le altre, a mettere al mondo anche il secondo figlio e, un po’ meno spesso delle altre, il terzo. Ma la transizione al primo figlio appare qui da noi più complicata o più tormentata. Pressoché scomparse le madri in giovanissima età – 1,9% delle donne fino ai 19 anni – le nascite si spostano ad età sempre più avanzate, un po’ dappertutto ma accentuatamente nell’isola: contro il 26% del totale nazionale di madri che mettono al mondo un figlio dai 35 anni in poi in Sardegna la proporzione è del 32%..
Quali particolari difficoltà incontrano le donne sarde a compiere questa transizione? Le determinanti sono, evidentemente molteplici, di tipo strutturale e di tipo culturale. L’ipotesi che qui avanzo, confortata da dati qualitativi e non quantitativi – che non esistono – è che le ragazze ( ma anche le giovani coppie) sarde hanno un calendario di transizione alla vita adulta in qualche misura più rigido delle loro coetanee delle altre circoscrizioni territoriali del paese. Esse, cioè, si attengono con più rigore a quelle scansioni che, poste in successione, hanno contrassegnato l’ingresso nella vita adulta, delle giovani donne dagli anni Settanta in poi: fine della scuola, formazione della coppia mentre si tenta l’ingresso nel mercato del lavoro, il raggiungimento di un’occupazione, il matrimonio, i figli. Se questo è il “modello” che hanno in mente innumerevoli ragazze sarde – negli anni Settanta le sociologhe lo avevano denominato il modello della “doppia presenza”, nel mercato e in famiglia – le difficoltà a realizzarlo incominciano a delinearsi all’uscita della scuola ( diploma o laurea, prevalentemente) quando, invece che un’occupazione esse e i loro partner si trovano di fronte a una sfilza di “lavoretti”, che non promettono, se non raramente, di guardare con ottimismo al compimento delle ulteriori transizioni. Ma si insiste in questi lavoretti, così come vi insistono i loro partner, per mancanza di meglio ma anche perché il denaro che così si guadagna può essere utilizzato negli irrinunciabili svaghi e consumi giovanili. Così trascorrono molti anni – i “fidanzamenti” durano talvolta più di dieci anni – proprio quegli anni che i vecchi demografi definivano “ i più favorevoli alla generazione”. Le più fortunate – o le più determinate a compiere tutte le transizioni previste – appena hanno un lavoro di una qualche stabilità ( anche in assenza di un lavoro altrettanto stabile del partner) affrettano matrimonio e nascita del figlio, con grande disappunto dei datori di lavoro che si trovano una neo-assunta in congedo di maternità dopo tre mesi dall’assunzione. Ma la maggior parte aspetta, proiettando in un futuro indeterminato la realizzazione delle proprie aspirazioni lavorative e materne. E l’attesa si scontra con l’inesorabile “calendario biologico” che spesso suscita ansie, delusioni, stati di apatia o rassegnazione: e la dilazione può essere così lunga che alla fine forse si riesce a mettere su casa ma si rimane senza figli
Si può aggiungere che questo modello è condiviso da genitori e parenti, oltre che dal clima culturale prevalente che, pur in presenza di coordinate sociali assai diverse, continuano tenacemente a ritenere che per fare famiglia gli sposi devono avere i loro modi di sostentamento indipendenti, magari una bella e costosa festa di nozze e, possibilmente un’abitazione in proprietà (con il loro sollecito aiuto, naturalmente). Va sottolineato che, dopo oltre cinquant’anni di intensa mobilità sociale ( spesso solo percepita) di cui sono stati protagonisti i genitori delle attuali “generazioni feconde” vi è una diffusa resistenza ad accettare un possibile declassamento sociale dei propri figli per i quali, specie nei vari ranghi del ceto medio, si è fatto ogni sforzo per garantire loro un’istruzione medio-alta, sia dei maschi che delle femmine.. Ciò può contribuire a spiegare perché non vi siano grandi recriminazioni alle lunghe permanenze in famiglia di figli ormai adulti. Anche qui la Sardegna raggiunge un ben poco lusinghiero primato come mostrano i dati della Tavola 2:
Tav. 2. Persone dai 25 ai 34 anni che vivono in famiglia come figli per grandi circoscrizioni territoriali e sesso ( ns. elaborazioni su Censimento 2001)
Maschi | femmine | |
Sardegna | 64,0 | 45,2 |
Mezzogiorno | 51,3 | 33,8 |
Italia | 49,2 | 32,5 |
Spiegare la secolare caduta della fecondità in Occidente stimola riflessioni e elaborazioni teoriche di grande sofisticazione e grande astrattezza. Alcuni fanno riferimento a categorie così generali come la fine della pressione per la sopravvivenza della specie ( o del proprio gruppo di appartenenza), altri sottolineano lo straordinario cambiamento nella scansione delle età della vita in seguito all’altrettanto straordinario aumento delle speranze di vita; altri ancora richiamano l’affermarsi dell’individualismo e dell’accentramento sul sé che impedirebbe qualunque proiezione nel futuro, specie in termini genealogici. Più modestamente, altri ricercatori, riferendosi in particolare ai paesi dell’Europa Mediterranea – Italia e Spagna in particolare – mettono in rilievo l’iniquità del “patto di genere” vigente in questi paesi a confronto della maggior parte dei paesi dell’Europa centro-settentrionale in cui le donne godono di maggiori diritti nel privato e nel pubblico e mettono al mondo dei figli.
Pur trovando convincente la correlazione fra “patti di genere” differenti e fecondità, la presenza di un gruppo consistente di donne – più del 30% delle coorti interessate – che palesemente aspetta solo una certa stabilità lavorativa per convolare a giuste nozze e mettere al mondo i due figli desiderati ( o almeno uno) ci si potrebbe chiedere se, per caso, un aumento dei tassi di occupazione femminile – occupazione “vera” – non porterebbe ad un certo aumento del TFT. regionale o, almeno, all’arresto della sua rovinosa caduta. Sembrerebbe un rimedio grezzo, nella sua semplicità. Ma meriterebbe almeno una riflessione. Poi, certo, interverrebbero i problemi della conciliazione fra famiglia e lavoro. Ma si tratta di problemi successivi, quando i bambini ci sono. Se i bambini sono molto pochi, o non ci sono, sembra un po’ paradossale limitarsi a fare battaglie per gli asili nido.
Sì, ma poi alla fine perché i giovani sardi non fanno più figli? “Perché non sanno diventare adulti!”. Ecco l’analisi della sociologa Anna Oppo
Pubblicato nel sito di VITO BIOLCHINI, il 12 gennaio 2012. Lo ringraziamo e con lui, siamo grati alla professoressa ANNA OPPO, della quale riportiamo lo studio qui sopra cittato.
Sì, ma poi alla fine perché i sardi non fanno più figli? Non tutto il male viene per nuocere e forse anche la fesseria televisiva di Paolo Villaggio ci può spingere ad affrontare uno dei temi più spinosi che riguardano la nostra isola. Lo ricordava oggi sulla Nuova Sardegna Eugenia Tognotti. Sta di fatto che da anni ormai la Sardegna è la prima regione in Italia in quanto a bassa natalità, e l’Italia è lo stato europeo dove la natalità è più bassa. Insomma, abbiamo questo record e non riusciamo neanche a spiegarcelo.
La domanda dunque riguarda tutti noi. Perché non facciamo figli? Perché “non ne vogliamo”? Perché siamo poveri? Perché abbiamo paura del futuro?
La sociologa dell’Università di Cagliari Anna Oppo, in un articolo dal titolo “Donne senza figli, perché cosi tante in Sardegna?”, pubblicato nel 2007 sul sito insardegna.eu, propone una serie di dati e fornisce un quadro interpretativo interessante. Non conosco altri studi né ho trovato sulla rete analisi più recenti, ma quello della Oppo mi sembra un ottimo punto di partenza (i dati analizzati sono ormai vecchi di otto anni, ma dal 2004 al 2011 la situazione non è per niente cambiata).
Cosa dice la professoressa? Il mio consiglio è quello di leggervi tutto l’articolo (molto comprensibile) ma dovendo sintetizzare vi propongo questi passaggi.
Le ragazze (ma anche le giovani coppie) sarde hanno un calendario di transizione alla vita adulta in qualche misura più rigido delle loro coetanee delle altre circoscrizioni territoriali del paese. Esse, cioè, si attengono con più rigore a quelle scansioni che, poste in successione, hanno contrassegnato l’ingresso nella vita adulta, delle giovani donne dagli anni Settanta in poi: fine della scuola, formazione della coppia mentre si tenta l’ingresso nel mercato del lavoro, il raggiungimento di un’occupazione, il matrimonio, i figli.
Capito? Andiamo avanti.
Se questo è il “modello” che hanno in mente innumerevoli ragazze sarde – negli anni Settanta le sociologhe lo avevano denominato il modello della “doppia presenza”, nel mercato e in famiglia – le difficoltà a realizzarlo incominciano a delinearsi all’uscita della scuola ( diploma o laurea, prevalentemente) quando, invece che un’occupazione esse e i loro partner si trovano di fronte a una sfilza di “lavoretti”, che non promettono, se non raramente, di guardare con ottimismo al compimento delle ulteriori transizioni.
In altre parole, sorgono le prime difficoltà, la vita non va come dovrebbe, e la coppia si arena. E qui arriva il bello, perché
Si insiste in questi lavoretti, così come vi insistono i loro partner, per mancanza di meglio ma anche perché il denaro che così si guadagna può essere utilizzato negli irrinunciabili svaghi e consumi giovanili. Così trascorrono molti anni – i “fidanzamenti” durano talvolta più di dieci anni – proprio quegli anni che i vecchi demografi definivano “ i più favorevoli alla generazione”.
Insomma, dovendo brutalmente sintetizzare giornalisticamente questo studio, diciamo che i giovani sardi non vogliono diventare adulti! E i loro genitori in questa folle aspirazione inconsciamente li sostengono! Non ci credete?
Si può aggiungere che questo modello è condiviso da genitori e parenti, oltre che dal clima culturale prevalente che, pur in presenza di coordinate sociali assai diverse, continuano tenacemente a ritenere che per fare famiglia gli sposi devono avere i loro modi di sostentamento indipendenti, magari una bella e costosa festa di nozze e, possibilmente un’abitazione in proprietà (con il loro sollecito aiuto, naturalmente).
Insomma, tra i venticinque e i trentacinque anni i giovani sardi stanno si autoconfinano in una sorta di limbo, in una terra di nessuno. Lavori saltuari, fidanzati eterni, nessuna progettualità perché tutto quello che si vorrebbe dalla vita è troppo difficile da ottenere. Così passa il tempo e il figlio (unico) arriva quasi fuori tempo massimo. Un disastro.
Certo, poi manca il sostegno alle donne lavoratrici, non ci sono gli asili. Ma sono fattori che si riscontrano anche in altre regioni italiane. Insomma, qui si tratta di prendere il tema di petto. C’è qualcosa che spinge i giovani sardi a non fare figli. Ecco, una politica consapevole del suo ruolo un bello studio su questo tema dovrebbe commissionarlo a tamburo battente.
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di Anna Oppo
Gli ultimi dati a livello regionale relativi al 2004 assegnano alla Sardegna l’ultimo posto in graduatoria per numero di figli per donna. Ciò è dovuto al fatto che a differenza delle altre regioni in Sardegna sono tante le donne che scelgono di non avere figli. Perché? Difficile dare una risposta visto che di loro sappiamo poco o nulla.
‘ alt=preg class=image-left v:shapes=”_x0000_i1027″> La bassa fecondità delle regioni dell’Europa mediterranea, oltre che un preoccupante fenomeno sociale, è diventato anche un importante caso di studio per molti specialisti di diverse ottiche disciplinari, demografi, economisti, sociologi, antropologi. Le teorie che sono state elaborate al riguardo sono molteplici, ciascuna illuminandone un aspetto, nessuna in grado di dare una spiegazione compiuta. Non ho intenzione di ripercorrere queste teorie ma solo descrivere la vicenda sarda non solo perché ci interessa più direttamente ma soprattutto perché costituisce quasi un caso a sé, una specie di anomalia nel panorama italiano ed europeo.
Il primo dato è quello più noto ma vale la pena di richiamarlo ( Figura 1). Al 1952 l’isola risultava la regione con il tasso di fecondità in assoluto più alto fra tutte le regioni italiane. Benché anche da noi piccoli gruppi di popolazione urbana – borghese e piccolo borghese – avessero iniziato un controllo sistematico della fecondità la grande maggioranza della popolazione continuava ad avere famiglie molto grandi, perché “molte braccia, molto pane”, perché i molti figli erano simbolo di virilità e femminilità pienamente realizzati ( le donne un po’ meno sicure, tuttavia), perché “non si sapeva quel che si sarebbe saputo dopo”. L’Italia nel suo insieme – specificamente le regioni centro-settentrionali, ma parzialmente anche alcune realtà meridionali – avevano iniziato a ridurre il numero dei figli già dalla fine del XIX secolo e avevano continuato a farlo per tutta la prima metà del Novecento così che al 1952 i tassi sardi risultavano di circa il 40% più alti di quelli nazionali e di circa il 30% di quelli del Mezzogiorno.
Figura 1
Figura 2
A partire da questa data inizia la diminuzione, più veloce che nel resto del paese, appena interrotta dal flebile “baby boom” dei primi anni Sessanta, per divenire caduta precipitosa nei decenni successivi. Pur seguendo l’andamento generale del paese nel suo complesso e, in particolare, le curve meridionali, i dati sardi si qualificano per una più rapida e profonda discesa, per l’assenza di periodi di stasi o di quella “ripresina” iniziata nel 2002 nelle regioni centro settentrionali, con l’apporto non secondario della popolazione immigrata. Gli ultimi dati a livello regionale, di fonte anagrafica, del 2004, assegnano alla Sardegna l’ultimo posto in graduatoria per numero di figli per donna: 1,02 contro il pur misero 1,09 della Liguria, regione che da decenni registra i più bassi tassi di fertilità del paese.
Ma la riduzione dei tassi di fecondità avviene nell’isola con caratteristiche per certi versi simili ma per altri assai diversi dal resto delle regioni italiane. In modo simile al resto del paese la riduzione delle nascite avviene in Sardegna a spese delle “alte parità” – così i demografi chiamano le nascite superiori a due. Dalla coorte di donne nate nel 1920 fino alle coorti più giovani la riduzione più vistosa riguarda, appunto, le alte parità. Due figli è stato fino a poco tempo fa il modello che è andato affermandosi nella maggior parte delle coppie meridionali, tendenzialmente un figlio solo il modello delle coppie centro-settentrionali. Anche la Sardegna ha ridotto in maniera veloce e massiccia le alte parità a favore di una famiglia con un numero ridotto di figli. Contemporaneamente, tuttavia, è andato progressivamente crescendo il numero di donne che non ha figli né che avrà speranza di averne. Le stime dei demografi dell’ISTAT per le coorti di donne nate nel 1963 e nel 1966 registra per la Sardegna percentuali di donne senza figli rispettivamente del 25,5% e del 31,3%, circa l’8% in più dei dati complessivi italiani e dell’11% del mezzogiorno rispetto alla coorte del 1963. E per la coorte di nascita successiva ( del 1966) il divario si approfondisce. (figg.. 1, 2, 3, 4.). Analisi condotte con altri dati ( Multiscopo 2003, Famiglia e soggetti sociali) confermano le stime ISTAT contribuendo a disegnare un modello sardo, per così dire “dualistico”: circa 70% di donne con bassa o media fecondità, 30% di donne non feconde. E’ evidente che nei calcoli del numero di figli per donna questo 30% esercita un forte peso, in qualche modo oscurando il peso delle famiglie con due o più di due figli.
Figura 3
Figura 3
Figura 4
Ma perché in Sardegna tante donne non fanno figli? Da escludere immediatamente che si tratti di donne che “non vogliono figli”. Ripetute ricerche hanno mostrato che le donne italiane, comprese le donne sarde, desiderano almeno due figli, possibilmente qualcuno di più (2,1 in Sardegna, sia i maschi che le femmine) . Né si può pensare che ci siano in Sardegna un 30% di donne che hanno trascorso la loro età fertile perseguendo carriere più o meno prestigiose a scapito della maternità. Non ci sono tante “carriere” per le donne in Sardegna, a mala pena si arriva al 35% di occupazione femminile.
Ma di queste donne non si sa nulla. Le periodiche indagine sulle nascite o sulla fecondità ci forniscono centinaia di informazioni su “madri e bambini” fino al peso alla nascita di questi ultimi o il mese in cui sono nati. E da queste indagini troviamo conferma di quel che sappiamo da anni: che fanno meno figli le donne con alta scolarità piuttosto che le poco scolarizzate, che le occupate sono meno feconde delle disoccupate e di coloro che si definiscono “casalinghe” – specie se hanno una bassa istruzione – e che il problema maggiore delle lavoratrici con figli è quello della “conciliazione” fra lavoro e famiglia. Anzi, il tema della conciliazione occupa sempre più spesso il dibattito pubblico, dalle direttive UE ai discorsi delle donne politiche, ai dibattiti, non troppo numerosi, a dire il vero, sui mezzi di comunicazione di massa. Ma delle “madri mancate” non si occupa nessuno, come se la loro assenza non avesse alcun peso sui TFT o, per altri versi, sulla qualità della loro vita. E poiché in Sardegna sono tante vale forse la pena di occuparsi un poco di loro, con le poche informazioni disponibili e alcune preziose indicazioni provenienti da fonti qualitative che hanno indagato la bassa fecondità italiana soffermandosi su “event histories” e “storie di vita” di campioni non troppo piccoli di soggetti raccolti in diverse realtà del paese, Sardegna compresa.
Le risultanze meno controverse disegnano un modello che in termini assai schematici può essere così descritto. In modo più accentuato che nel resto del paese la fase cruciale della fecondità ( o non fecondità) in Sardegna è la transizione al primo figlio. Superato questo scoglio le donne sarde si affrettano, come quasi tutte le altre, a mettere al mondo anche il secondo figlio e, un po’ meno spesso delle altre, il terzo. Ma la transizione al primo figlio appare qui da noi più complicata o più tormentata. Pressoché scomparse le madri in giovanissima età – 1,9% delle donne fino ai 19 anni – le nascite si spostano ad età sempre più avanzate, un po’ dappertutto ma accentuatamente nell’isola: contro il 26% del totale nazionale di madri che mettono al mondo un figlio dai 35 anni in poi in Sardegna la proporzione è del 32%..
Quali particolari difficoltà incontrano le donne sarde a compiere questa transizione? Le determinanti sono, evidentemente molteplici, di tipo strutturale e di tipo culturale. L’ipotesi che qui avanzo, confortata da dati qualitativi e non quantitativi – che non esistono – è che le ragazze ( ma anche le giovani coppie) sarde hanno un calendario di transizione alla vita adulta in qualche misura più rigido delle loro coetanee delle altre circoscrizioni territoriali del paese. Esse, cioè, si attengono con più rigore a quelle scansioni che, poste in successione, hanno contrassegnato l’ingresso nella vita adulta, delle giovani donne dagli anni Settanta in poi: fine della scuola, formazione della coppia mentre si tenta l’ingresso nel mercato del lavoro, il raggiungimento di un’occupazione, il matrimonio, i figli. Se questo è il “modello” che hanno in mente innumerevoli ragazze sarde – negli anni Settanta le sociologhe lo avevano denominato il modello della “doppia presenza”, nel mercato e in famiglia – le difficoltà a realizzarlo incominciano a delinearsi all’uscita della scuola ( diploma o laurea, prevalentemente) quando, invece che un’occupazione esse e i loro partner si trovano di fronte a una sfilza di “lavoretti”, che non promettono, se non raramente, di guardare con ottimismo al compimento delle ulteriori transizioni. Ma si insiste in questi lavoretti, così come vi insistono i loro partner, per mancanza di meglio ma anche perché il denaro che così si guadagna può essere utilizzato negli irrinunciabili svaghi e consumi giovanili. Così trascorrono molti anni – i “fidanzamenti” durano talvolta più di dieci anni – proprio quegli anni che i vecchi demografi definivano “ i più favorevoli alla generazione”. Le più fortunate – o le più determinate a compiere tutte le transizioni previste – appena hanno un lavoro di una qualche stabilità ( anche in assenza di un lavoro altrettanto stabile del partner) affrettano matrimonio e nascita del figlio, con grande disappunto dei datori di lavoro che si trovano una neo-assunta in congedo di maternità dopo tre mesi dall’assunzione. Ma la maggior parte aspetta, proiettando in un futuro indeterminato la realizzazione delle proprie aspirazioni lavorative e materne. E l’attesa si scontra con l’inesorabile “calendario biologico” che spesso suscita ansie, delusioni, stati di apatia o rassegnazione: e la dilazione può essere così lunga che alla fine forse si riesce a mettere su casa ma si rimane senza figli
Si può aggiungere che questo modello è condiviso da genitori e parenti, oltre che dal clima culturale prevalente che, pur in presenza di coordinate sociali assai diverse, continuano tenacemente a ritenere che per fare famiglia gli sposi devono avere i loro modi di sostentamento indipendenti, magari una bella e costosa festa di nozze e, possibilmente un’abitazione in proprietà (con il loro sollecito aiuto, naturalmente). Va sottolineato che, dopo oltre cinquant’anni di intensa mobilità sociale ( spesso solo percepita) di cui sono stati protagonisti i genitori delle attuali “generazioni feconde” vi è una diffusa resistenza ad accettare un possibile declassamento sociale dei propri figli per i quali, specie nei vari ranghi del ceto medio, si è fatto ogni sforzo per garantire loro un’istruzione medio-alta, sia dei maschi che delle femmine.. Ciò può contribuire a spiegare perché non vi siano grandi recriminazioni alle lunghe permanenze in famiglia di figli ormai adulti. Anche qui la Sardegna raggiunge un ben poco lusinghiero primato come mostrano i dati della Tavola 2:
Tav. 2. Persone dai 25 ai 34 anni che vivono in famiglia come figli per grandi circoscrizioni territoriali e sesso ( ns. elaborazioni su Censimento 2001)
Maschi | femmine | |
Sardegna | 64,0 | 45,2 |
Mezzogiorno | 51,3 | 33,8 |
Italia | 49,2 | 32,5 |
Spiegare la secolare caduta della fecondità in Occidente stimola riflessioni e elaborazioni teoriche di grande sofisticazione e grande astrattezza. Alcuni fanno riferimento a categorie così generali come la fine della pressione per la sopravvivenza della specie ( o del proprio gruppo di appartenenza), altri sottolineano lo straordinario cambiamento nella scansione delle età della vita in seguito all’altrettanto straordinario aumento delle speranze di vita; altri ancora richiamano l’affermarsi dell’individualismo e dell’accentramento sul sé che impedirebbe qualunque proiezione nel futuro, specie in termini genealogici. Più modestamente, altri ricercatori, riferendosi in particolare ai paesi dell’Europa Mediterranea – Italia e Spagna in particolare – mettono in rilievo l’iniquità del “patto di genere” vigente in questi paesi a confronto della maggior parte dei paesi dell’Europa centro-settentrionale in cui le donne godono di maggiori diritti nel privato e nel pubblico e mettono al mondo dei figli.
Pur trovando convincente la correlazione fra “patti di genere” differenti e fecondità, la presenza di un gruppo consistente di donne – più del 30% delle coorti interessate – che palesemente aspetta solo una certa stabilità lavorativa per convolare a giuste nozze e mettere al mondo i due figli desiderati ( o almeno uno) ci si potrebbe chiedere se, per caso, un aumento dei tassi di occupazione femminile – occupazione “vera” – non porterebbe ad un certo aumento del TFT. regionale o, almeno, all’arresto della sua rovinosa caduta. Sembrerebbe un rimedio grezzo, nella sua semplicità. Ma meriterebbe almeno una riflessione. Poi, certo, interverrebbero i problemi della conciliazione fra famiglia e lavoro. Ma si tratta di problemi successivi, quando i bambini ci sono. Se i bambini sono molto pochi, o non ci sono, sembra un po’ paradossale limitarsi a fare battaglie per gli asili nido.
By MARIA ANTONIETTA, 22 gennaio 2012 @ 23:26
Mi dispiace contraddirla carissima sociologa , sarà anche laureata ma della vita umana di noi sardi non ne sa proprio niente, sono un mamma e nonna di 59 anni i figli al mio tempo si facevano anche per ignoranza de sapere come non farli , oggi i nostri giovani son più maturi di noi e ci stanno attenti ,perchè farli per poi morire di fame in un isola bellissima come la mia ,fatta solo esclusivamente per voi che venite a divertirvi e usara la cordialità per poi andare in pubblico e divertirvi alle nostre spalle, ma vergognatevi di dire che i nostri giovani non fanno figli perchè non sono adulti solo perchè non mettono al mondo dei disperati come loro che lottano per un tozzo di pane….questa cara la mia dottoressa e intelligenza e amore per quei figli che non possono avere….questa è la nostra vera motivazione. …una mamma che si vede nonna senza averli accanto a causa di tutto ciò….non c’è bisogno di laurearsi per arrrivarci…oggi vada a cagliari e si renderà conto che non hanno di che sfamarsi altro che figli!!!
By Eleonora, 16 gennaio 2012 @ 15:50
Dare la responsabilità alla ‘rigidità’ che le ragazze sarde hanno nel seguire il modello delle tappe “istruzione -> lavoro -> famiglia” , o ai genitori ,o dire che la fascia che va dai 25 ai 35 anni siano una massa di bamboccioni,credo sia parecchio superficiale e voglia far ricadere tutte le “colpe” di un disastro che sicuramente non sono stati i “giovani -adulti ” a creare.Confido in un’analisi più accurata.