UN RICONOSCIMENTO POSSIBILE? Chi ambisce all’eroismo … non ha che da farsi avanti. di Mario Cubeddu
Mario Cubeddu (Seneghe, 1947). Laureato e docente in lettere classiche, nelle superiori e nei Licei. Ha pubblicato una Guida della Sardegna per le edizioni Futuro di Verona nel 1990 e alcuni saggi di storia relativi al Sardofascismo e ad alcune figure di poeti sardi del Settecento, Bonaventura Licheri e Maurizio Carrus. La raccolta del materiale e la cura del testo relativo a Poetas seneghesos ha rappresentato una delle premesse della nascita del festival letterario Cabudanne de sos poetas, organizzato dall’Associazione culturale Perda Sonadora di Seneghe di cui è presidente.
La Fondazione Sardinia ci chiama a confrontarci con le parole di alcuni “padri della patria sarda” del Novecento e a esprimerci su cosa pensiamo oggi dei Sardi e del loro destino. Proviamo a seguire il suggerimento partendo da Satta e dal suo grande “Spirito religioso dei Sardi”. Ma i Sardi esistono davvero?
Anche Satta dubitava di essere ancora Sardo dopo tanti anni di lontananza e un matrimonio forestiero da cui erano nati figli”meticci”.
Per tutta la vita ho sentito gente che negava l’esistenza del popolo sardo, gente che appariva, o si presentava, come la più colta e avanzata tra quelle che vivono in Sardegna. Come Michele Columbu rispondeva a Michelangelo Pira che non riusciva a credere che il comunismo sarebbe stato la salvezza del mondo, e quindi anche della Sardegna, così anch’io non sono mai riuscito a prestare fede a chi negava l’esistenza di una identità sarda. Possibile che la vedessi solo io? Possibile che tante generazioni che l’avevano vissuta come un tormento e un’aspirazione, si sbagliassero? Cos’eravamo, allora? Italiani? Si, certo, ma perché poi eravamo assenti dalla storia degli italiani, perché gli italiani non ti ci volevano, in quella storia?
Ma a quel punto si pongono altre domande. Se esistono, chi saranno mai, i Sardi? E come sono, quale l’aspetto, quali le qualità e i difetti? Ma, soprattutto, a che ci serve essere Sardi?
Benedetto Sechi ha aggiornato ad oggi il punto di vista di Lussu sull’”impossibilità di essere Sardi”. Senza acredine o risentimento, ci pone di fronte all’esperienza di tutti coloro che cercano di praticare un’attività collettiva in Sardegna, sia che si tratti Di politica, di volontariato, di attività culturali. I Sardi si comportano come fratelli costretti a vivere insieme, talmente assuefatti l’uno all’altro da non sopportarsi più. Per questo appare indispensabile liberarsi di quell’ingombro familiare, avere un proprio spazio di vita autonomo. Forse è un riflesso condizionato di un’educazione “italiana”, quello di fare sempre riferimento agli scrittori per trovare le fondamenta della nazione. Sarà, ma per me Salvatore Satta è stato un vero choc. Non proprio Satta, ma una persona che lui dice di aver conosciuto, di aver sentito parlare, tale Pirastru, “uomo piccolo e nero”. E’ stato Pirastru a dare dei Sardi la definizione che mi è arrivata come un pugno nello stomaco: “morto io, morto un cane”. E cane ricorda di essersi sentito Satta in diversi momenti della sua vita. E a chi fra noi non è mai capitato? Una tale idea di sé, “non immune da determinanti patologiche”, sarebbe una conferma della condizione psicologica a cui viene ridotto l’uomo delle colonie, la condizione degli uomini e delle donne private della loro libertà?
Satta scrive queste cose anni prima che FranTz Fanon analizzi l’impatto della mancanza di libertà sui cuori e sulle menti dei “dannati della terra”. “Neanche i cani vengono trattati in questo modo”, sento dire in TV a un ragazzo tunisino rinchiuso nei Centri di identificazione italiani. La conseguenza dell’aver introiettato l’oppressione, sino a farla diventare una legge che ti impedisce di agire, perché non sarai mai all’altezza, è ben espressa in “Spirito religioso dei Sardi”: “in fondo i Sardi – ed è la loro più grande sventura – poco si riconoscono tra di loro”.
Dal non riconoscere l’altro come interlocutore, o compagno, o maestro, nasce l’impossibilità di un confronto schietto e vero tra gli uomini, la reticenza che cerca di evitare uno scontro in realtà solo rimandato, e la suscettibilità, una resistenza alla critica che è l’altra faccia dell’insicurezza del ruolo raggiunto. E allora si danno tutte le colpe all’invidia: tu mi attacchi e mi critichi perché non sopporti che io sia meglio di te, soffri di questo vizio così tipicamente sardo. Dimenticando che come vizio capitale l’invidia ci unisce a tutta l’umanità. Così siamo una terra senza vero confronto culturale e quindi senza vero confronto di idee, di qualsiasi genere esse siano. Allora, diamo retta a Satta, prendiamo per vera l’esistenza dei Sardi, vediamo qual è la situazione. Chi sono i Sardi? La risposta non è semplice. Mi pare che oggi si sia d’accordo sul fatto che sia la Storia ad unirci, non il sangue e il suolo. Ma quanto ci serve Cavalli Sforza e i Sardi inseriti, come un piccolo ramo, nell’albero di famiglia degli uomini? Chi può identificarsi con popolazioni che sembrano avere a che fare più con l’uomo di Neanderthal che con l’uomo della storia? Ci serve a qualcosa l’uomo nuragico?
Comincia qui la querelle sarda relativa all’uso politico dell’archeologia e della storia. Gli archeologi sono accaniti, rabbiosi, contro l’esaltazione della civiltà nuragica. Si tratta forse di uccidere il padre Lilliu, campo in cui Sardi sarebbero specialisti, almeno secondo le fonti classiche?
Ci rimane la gloriosa epopea giudicale. Se di popolo e di “nazione” sarda si può parlare in termini analoghi a quelli che si usano per definire gli altri popoli e nazioni europee, il Medioevo ci mostra indubbiamente sulla scena accanto ad essi. I sardi hanno una lingua e una cultura, delle istituzioni politiche e giuridiche, una peculiare organizzazione sociale. Una nazione pienamente vitale, non “abortiva”. Sconfitta, certo, come tante altre, nel processo di formazione delle grandi monarchie, ma in grado di ripresentarsi sulla scena nell’Ottocento quando ciascuna di esse rivendica di esistere libera e non più soggetta alla volontà altrui.
In questa fase, è vero, la nazione non riesce a nascere. La classe che avrebbe dovuto fare da levatrice, la borghesia sarda, è troppo debole. Anche in questo non c’è niente di eccezionale. Potremmo dire addirittura che è stato meglio così, visti i disastri che stanno succedendo nei paesi che hanno conquistato l’indipendenza liberandosi dal colonialismo. Contro una classe dirigente postcoloniale rivelatasi inetta e corrotta sono insorte nell’anno appena finito le popolazioni del nord Africa. Dai milioni di giovani che hanno avuto accesso all’istruzione verrà fuori una classe dirigente migliore?
Qualcosa di simile possiamo dire per la Sardegna. Quale indipendenza poteva costruire un popolo che nel 1848 aveva il 94% di analfabeti? Ancora nel 1921, quando nasce il Partito Sardo d’Azione, la maggioranza dei Sardi non sa né leggere né scrivere.
Oggi le cose sono diverse, ma la situazione sarda è forse peggiore di quella del nord Africa. E’ difficile nutrire speranze nel crollo dell’economia e nella crisi sociale? Una parte notevole della gioventù sarda è tornata a una condizione di semianalfabetismo, con dispersione scolastica, interruzione degli studi, disoccupazione. La percentuale dei giovani che trovano modo di realizzarsi è bassa e composta soprattutto da chi è costretto di nuovo a emigrare anche contro voglia.
Come sempre il popolo sardo deve far conto sulle energie di cui dispone. Il campo per l’impegno politico, sociale, culturale, è immenso. Chi ambisce all’eroismo, all’impegno della propria vita in una grande causa, non ha che da farsi avanti. Il riconoscimento dei Sardi di oggi dovrebbe avvenire nel lavoro comune, dovrebbe avvenire sul terreno di un nuovo impegno. Quello che la Fondazione Sardinia porta avanti da vent’anni. E’ un piacere dargliene atto.