Un’Isola sempre più vecchia, non nascono bambini, di Piera Serusi
Sociologi e demografi sardi a confronto.
Abbiamo 241 anziani ogni 100 ragazzi, un peso più che raddoppiato nell’arco di vent’anni se pensiamo che ancora nel 2002 – quando i nuovi nati furono 13.155, comunque già tremila in meno rispetto alla media annuale del decennio precedente – il rapporto era di 116 over 65 ogni 100 della fascia 0-14 anni. Il crollo delle nascite è un problema che affligge l’Italia e l’Europa (a parte alcuni Paesi), ma ciò che della Sardegna salta all’occhio è l’andamento accelerato dell’invecchiamento della popolazione, con un numero di nati che già nel 2012 è crollato sotto i 13mila, per arrivare nel 2018 sotto quota 10mila, fino ai nemmeno 8mila del 2022.
Un costante calo delle nascite che comincia a presentare il conto, per esempio con una forte erosione della forza lavoro (le fasce anagrafiche più giovani), e soprattutto sul fronte sanitario visto che cresce la popolazione anziana, ovvero le classi d’età che richiedono maggiore assistenza, tanto che – al netto della spesa e dell’impegno per le famiglie – l’80% dei costi della sanità pubblica viene assorbito proprio dalla cura delle malattie croniche della popolazione in età avanzata.
Uno squilibrio che dunque finisce per condizionare il sistema sociale e quel che sta succedendo nell’Isola è facilmente valutabile se si pensa che oggi (ultimo report Istat del 2022) più di un quarto della popolazione è over 65 (il 25,7%) mentre solo il 10,6% è nella fascia 0-14 anni; quando solo vent’anni fa gli ultrasessantacinquenni erano il 16,4% e i bambini e ragazzi il 13,6%.
Quanto può reggere una comunità, un consorzio sociale, in queste condizioni? Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? «Si riscriveranno i rapporti tra le generazioni», dice Sabrina Perra, sociologa dell’Università di Cagliari. «Una popolazione di anziani e di adulti in età più avanzata ha maggiori necessità di cure ed è chiaro che quel carico sta convergendo su una base che si fa sempre più stretta, il che pone un generale problema di sostenibilità». Abbiamo davanti a noi, sottolinea, una fase molto lunga. «I prossimi trent’anni segneranno le forme future della società e in parte ci siamo già».
La solidarietà-macigno «È un processo già avviato, per cui o lo si lascia andare liberamente oppure lo si governa con politiche per i più giovani, per le famiglie e per il mercato del lavoro. Politiche che possano riequilibrare i rapporti di forza in modo che a ciascuno venga data la possibilità di non soccombere sotto le reti della solidarietà familiare che certo è una bella cosa, ma soffoca le aspettative dei giovani».
Gli asili nido? «Bene, ma non bastano», avverte la sociologa. «Si ha bisogno di presidi dello Stato, di servizi, di Rsa, di centri per gli anziani, di strutture territoriali per le malattie croniche». Si deve cominciare da subito a cambiare la rotta. «E bisogna iniziare a dire ad alta voce che la scelta dei giovani di limitare la fecondità non dipende solo da una questione economica, ma è invece molto legata alle aspettative sul futuro. Una società di vecchi ha meno voglia di guardare avanti. E questo incide, perché i giovani avvertono la pressione».
È quel che sottolinea anche Luisa Salaris, demografa dell’ateneo cagliaritano. «Negli ultimi anni, i ragionamenti di tipo economico sulla sostenibilità del sistema pensionistico hanno fatto emergere la denatalità come la causa dei problemi di insostenibilità economica. In realtà la denatalità c’era già, e le motivazioni non sono solo economiche ma anche culturali, e legate al senso di sfiducia che può avere una giovane coppia laddove non ha opportunità di lavoro o non ha una posizione lavorativa stabile».
La tendenza delle culle vuote, sottolinea la demografa, «è cominciata decenni fa, negli anni ‘80 e ‘90, in tutta Europa. Alcuni Paesi, come quelli scandinavi, hanno da subito pensato che era necessario porvi rimedio con interventi che, tra servizi e bonus, indipendentemente dal reddito hanno sollevato le famiglie dai costi che avere uno, due, tre figli comporta». In Italia, invece, «l’errore è stato delegare alle famiglie tutto il peso della mancanza di servizi per i bambini e per gli anziani».
Servono interventi che colmino questo vuoto per liberare le forze più giovani, per liberare le donne. «Sono necessarie misure di lungo periodo per programmare servizi, incentivi sul lavoro, partecipazione delle donne. Il cambiamento della struttura della popolazione non avviene da un anno all’altro ma, appunto, nel lungo periodo». Il tempo di una generazione, «cioè 25,30 anni».
Al netto dell’urgenza (ribadita da tutti gli esperti) di richiamare e integrare immigrati, le opportunità di lavoro che arriveranno grazie al Pnrr convinceranno i giovani (i pochi che abbiamo) a fare figli? Dipende, avvisa Alessio Moro, economista dell’Università di Cagliari. «Sicuramente più opportunità di lavoro permettono a più persone di poter programmare un futuro e quindi fare figli. Quello che osserviamo, però, è che contratti di natura temporanea sono di ostacolo alla decisione di metter su famiglia. Finché non hanno una situazione lavorativa stabile, cioè un contratto a tempo indeterminato, la maggior parte delle persone posticipano la decisione, e posticiparla significa anche aumentare le probabilità che poi i figli non arrivino».
Le politiche per aumentare la natalità, puntualizza il professor Moro, «sono legate al mondo del lavoro, e noi siamo fortemente indietro. Quel che è necessario fare è fornire ai lavoratori le condizioni per raggiungere una stabilità più in fretta, o per poter confidare sull’esistenza di ammortizzatori che li rassicuri sul fatto che, da genitori, saranno sostenuti dallo Stato anche se perdono o non trovano il lavoro. Questo oggi non avviene, il che spiega tutto. Spiega perché non si fanno figli, e perché anche chi ha un lavoro stabile trova grandi difficoltà e magari decide di fare solo un figlio invece di due o tre».
L’Unione Sarda 23 aprile 2023