INVIDIA E IMPRENDITORIALITA’. Alcune note sul ruolo delle emozioni nello sviluppo economico, di Sergio Lodde

 

 

 

 

Sergio Lodde (Cagliari, 1950) è professore ordinario di politica economica presso la Facoltà di Scienze Politiche di Cagliari. Ha pubblicato ricerche  sulla struttura produttiva regionale, sulle politiche industriali e sul ruolo dei saperi locali nel processo di sviluppo (A. Sassu, S. Lodde , a cura di, Saperi locali, innovazione e sviluppo economico. L’esperienza del Mezzogiorno”, Milano, Franco Angeli).

Sintesi del saggio: L’ipotesi di questo lavoro è che l’invidia può svolgere un ruolo di qualche rilievo, quantunque difficilmente quantificabile, nella persistenza dell’arretratezza economica. Gli effetti dell’invidia si manifestano in forme di censura sociale nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale e dei comportamenti innovativi in genere che inibiscono la formazione di un tessuto imprenditoriale diffuso. Ciò si verifica con maggiore probabilità nelle società in transizione da un economia agricola allo sviluppo industriale. Nonostante la difficoltà di introdurre variabili psicologiche nell’analisi economica il lavoro si propone di mostrare che tale estensione può essere utile ai fini di una migliore comprensione delle barriere che ostacolano lo sviluppo.

Introduzione*

 

Può esistere qualche connessione, sia pure indiretta, fra un’emozione come l’invidia e la capacità di una società di superare l’arretratezza e avviare un processo di sviluppo economico e sociale? La domanda può apparire azzardata, soprattutto se a formularla è   un economista la cui cassetta è assai povera di attrezzi sul fronte delle emozioni. La questione si complica ulteriormente se si considera che la connessione fra invidia e sviluppo, se esiste, si manifesta probabilmente attraverso gli effetti disincentivanti prodotti dalla prima sulla formazione dell’imprenditorialità. A questo punto l’economista rischia di avere  ben poco da dire poiché entrambi i corni del problema appaiono estranei al  paradigma metodologico più diffuso nella sua disciplina.  L’invidia, in quanto emozione,  è difficilmente quantificabile e mal si presta ad essere inserita all’interno di un approccio che valuta essenzialmente costi e benefici. L’imprenditore paradossalmente è un attore privo di parte, accuratamente relegato dietro le quinte dalla più tradizionale letteratura economica di ispirazione neoclassica. Il motivo di questa incongruenza non differisce sostanzialmente da quello poc’anzi addotto a proposito dell’invidia. Quella dell’imprenditore è, in definitiva, una figura irrazionale e sfuggente che difficilmente si integra nel modello esplicativo della scelta razionale.

In realtà non è del tutto vero che i  fattori sociali e psicologici siano estranei alla letteratura economica. Ad esempio,  Akerlof ha utilizzato  spesso concetti sviluppati da  sociologi, antropologi e psicologi cognitivisti  per spiegare svariati fenomeni economici, come  la disoccupazione o la determinazione del salario (Akerlof 1980, 1982a 1982b). Nei suoi modelli variabili come la reputazione e lo status derivanti dal rispetto delle  norme sociali influenzano, in modo rilevante, i comportamenti di agenti razionali.

Negli anni recenti variabili non economiche che misurano il grado di coesione sociale, la presenza di fiducia e la diffusione fra la popolazione di atteggiamenti cooperativi o, più in generale, quell’insieme di fattori che rientrano nella denominazione di “capitale sociale” hanno assunto maggiore rilievo nella letteratura economica, in particolare nell’analisi dei problemi dello sviluppo. Numerose analisi empiriche hanno posto in evidenza le connessioni fra queste variabili e la crescita economica (Putnam, 1993; Knack e Keefer, 1997; Temple e Johnson, 1998). Un ambiente cooperativo accresce l’efficienza produttiva e stimola l’innovazione tecnologica ma rappresenta anche una condizione favorevole  all’iniziativa imprenditoriale.

Un altro filone di ricerca (Baumol, 1990; Murphy, Vishny e Shleifer, 1991) pone in evidenza come l’allocazione del talento individuale fra attività imprenditoriali e innovative da un lato e rent seeking dall’altro sia influenzata dai payoffs relativi e quindi anche dalla struttura istituzionale che li determina. In questa letteratura i payoffs hanno generalmente una connotazione esclusivamente pecuniaria ma è possibile estendere il concetto fino ad includere aspetti relativi al prestigio e allo status attribuiti a diverse attività economiche (Fershtman, Murphy e Weiss, 1996).

Solo molto raramente, comunque, l’attenzione degli economisti per le variabili sociali e psicologiche si è spinta fino a prendere in considerazione l’influenza delle emozioni sulle decisioni degli agenti economici[1]. Questo disinteresse, quasi ostentato, è stato oggetto di critica da parte di Elster (1998). Egli sostiene che emozioni come il senso di colpa, l’invidia, l’indignazione o la vergogna, combinandosi con altre motivazioni quali l’interesse individuale, svolgono un ruolo non trascurabile nella determinazione del comportamento sociale ed economico. Ritengo che il suggerimento di Elster sia denso di implicazioni interessanti per la teoria economica e che meriti qualche approfondimento sia pure molto ingenuo ed elementare come quello avviato in questa sede.

L’ipotesi che si cercherà di sviluppare nei successivi paragrafi può essere enunciata semplicemente nel modo seguente: l’invidia può rappresentare un ostacolo alla formazione di un tessuto imprenditoriale diffuso e quindi allo sviluppo economico in quanto sanziona  e inibisce l’arricchimento e il successo che costituiscono le principali motivazioni della attività imprenditoriale e i comportamenti innovativi e non convenzionali che ne sono all’origine. Proverò a dar corpo a questa idea analizzando dapprima separatamente i due termini del problema (l’invidia e l’imprenditorialità) e, successivamente, le possibili connessioni fra i due concetti anche  al fine di individuare alcune caratteristiche del tessuto sociale ed economico che possono rafforzarle.

E’ opportuno chiarire fin d’ora che questo lavoro non intende proporre una spiegazione  generale della transizione dall’arretratezza allo sviluppo e degli ostacoli che vi si frappongono basata sull’invidia; l’obiettivo, assai più limitato, che si intende perseguire è un altro: fornire una serie di riflessioni sui  legami tra l’invidia e la diffusione dell’imprenditorialità che  possono essere utili per elaborare una teoria più generale dei fattori dai quali dipende il decollo economico di un’area.

 

 

  1. 1. L’invidia: alcune definizioni.

Il concetto di invidia non è del tutto estraneo agli economisti ma è stato utilizzato in un’accezione molto semplificata e in un contesto analitico assai particolare. Una delle principali preoccupazioni dell’economia del benessere negli anni recenti è stata quella di superare i limiti dell’approccio paretiano, assolutamente neutro sotto il profilo della distribuzione del reddito, mediante l’analisi delle condizioni necessarie per una distribuzione socialmente accettabile. Tali condizioni sono state individuate da alcuni autori  nell’assenza di invidia, intesa come preferenza da parte di un individuo per un paniere di beni appartenente a un altro. Esistono varie distribuzioni in grado di soddisfare questo criterio ma la loro individuazione, benché rilevante per sviluppare una teoria utilitaristica della giustizia economica, non fornisce indicazioni utili  ai nostri fini. Per analizzare in modo articolato  gli effetti dinamici dell’invidia è, dunque, necessario rivolgersi altrove.

Un terreno fertile, a questo riguardo,  è rappresentato dalle analisi di alcuni filosofi e studiosi della razionalità come Rawls, Nozick e Elster.

Nozick (1981) definisce invidioso colui che, se non può possedere qualcosa che un altro ha, preferisce che nessuno dei due la possieda. L’elemento fondamentale di questa definizione è la stima di sé mentre sono secondarie le motivazioni ridistributive[2]. L’invidioso infatti preferisce  che chi è  più ricco di lui  perda qualcosa anche se questo non accresce la propria ricchezza. Secondo Nozick l’invidia nasce dal fatto che ciò che l’altro ha in più (in termini di ricchezza o di status), riduce la stima di sé perché quest’ultima non può prescindere da un confronto con gli altri.  Per questo motivo l’invidia non dipende dal fatto che la posizione superiore dell’altro sia meritata o meno, al contrario può essere più forte proprio perché è meritata.

Rawls dedica ampio spazio al tema dell’invidia nella sua teoria della giustizia. Lo scopo è dimostrare che i criteri di giustizia da lui proposti non danno luogo a forme generali e estese di invidia che potrebbero seriamente indebolirli. La definizione fornita da Rawls (1972) è più forte di quella di Nozick: l’invidioso è disposto a dare una parte di ciò che ha pur di portare gli altri al suo livello.

 

“Possiamo considerare l’invidia come la tendenza a guardare con ostilità al più elevato benessere degli altri anche qualora la loro maggiore fortuna non ci sottragga alcunché. Invidiamo persone la cui situazione è migliore della nostra […] e aspiriamo a privarli dei loro maggiori benefici anche se ciò ci costringe a rinunciare a qualcosa.”

 

Intesa in questo senso l’invidia è un sentimento che danneggia l’intera collettività perché l’invidioso è pronto a compiere azioni che riducono il benessere proprio e degli altri.

Elster (1991) definisce quella di Rawls come invidia forte in contrapposizione all’invidia debole di Nozick. La distinzione si chiarisce meglio utilizzando il seguente schema proposto dallo stesso Elster, ove i numeri romani denotano situazioni sociali alternative.

I           II         III        IV        V

A possiede                  5          3          4          4          4

B possiede                  5          3          5          4          3

L’invidia forte si ha nel caso in cui A preferisce IV a III e II a III. Si ha invece invidia debole quando A preferisce IV a III ma III a II. In sostanza l’invidia forte è definita come quella situazione in cui si è disposti a perdere qualcosa purché la distanza fra sé e l’altro si riduca. Viceversa si ha invidia debole nel caso in cui, se non posso avere qualcosa, preferisco che nessuno dei due l’abbia, anche se non sono disposto a perdere alcunché affinché ciò accada.

E’ opportuno distinguere inoltre l’invidia dall’emulazione, intesa come una forma di invidia benigna  che spinge a ottenere ciò che gli altri possiedono in più rispetto a noi (‘keep up with the Joneses’), e dal risentimento ovvero l’indignazione per un trattamento ingiusto. La prima distinzione è importante perché gli effetti sono diametralmente opposti sotto il profilo della dinamica sociale: da un lato quelli distruttivi dell’invidia in senso stretto che tendono a ridurre il benessere generale, dall’altro gli stimoli a comportamenti emulativi che possono accelerare il mutamento sociale. Ai fini della nostra analisi è comunque più utile adottare il concetto più esteso di invidia che include entrambe le forme, perché ciò consente di esaminarne meglio gli effetti in diversi contesti sociali. Torneremo più avanti su questo punto.

Un  altro aspetto rilevato da Rawls è che l’invidia non è un sentimento morale, nel senso che non può essere giustificata da alcun principio morale. Lo è invece il risentimento (o indignazione) poiché nasce dalla convinzione che la superiorità degli altri sia il risultato di istituzioni ingiuste, di una condotta riprovevole o scorretta (lui ha qualcosa che io desidero intensamente, probabilmente l’ha ottenuta in qualche modo immorale e a mie spese). Il risentimento più che l’invidia in senso stretto è alla base delle rivendicazioni ugualitarie e tende ad essere pervasivo nelle società in cui la produzione è percepita come un gioco a somma zero. Rawls fa l’esempio delle società contadine in cui le risorse sono date o percepite come tali, in questo contesto l’arricchimento di un individuo o di un gruppo implica l’impoverimento di qualcun altro o di un altro gruppo. Benché utile dal punto di vista filosofico e morale questa distinzione non aiuta molto l’analisi sociale. Nozick (1981) rileva che la motivazione sottostante all’ugualitarismo può, nella gran parte dei casi, essere ricondotta all’invidia.

 

“Benché l’egualitarismo possa essere giustificato secondo alcuni senza ricorrere a questo sentimento riprovevole (l’ugualitario desidera solo che siano realizzati principi corretti) questa affermazione non è provata e l’ipotesi che ci sia dietro l’invidia è plausibile data la difficoltà di giustificare l’uguaglianza e l’ingegnosità della gente nel trovare giustificazioni razionali alle proprie emozioni”. (Nozick, 1981, pag. 254).

 

Pur non condividendo l’idea fortemente conservatrice che i principi di uguaglianza non trovino giustificazioni razionali, ritengo che Nozick colga qui un aspetto sottile e denso di implicazioni. Per andare più a fondo occorre partire dall’idea che l’invidia è un sentimento riprovevole, e che l’invidioso non necessariamente accresce la propria autostima compiendo azioni distruttive. L’invidia suscita  un senso di inferiorità, non solo perché non si possiede qualcosa che un altro ha ma anche perché non si vorrebbe provare un sentimento moralmente riprovevole. Per alleviare questa spiacevole sensazione si cercano  giustificazioni che la rendano più accettabile (Elster, 1998;1999a, cap.V; 1999b, cap.IV). Ad esempio, si cerca  un colpevole per il proprio stato o si prova a ricondurre la superiorità dell’altro all’immoralità delle sue azioni. L’invidia viene quindi mascherata e trasformata in un sentimento più gratificante di indignazione (o risentimento). La distinzione è ardua a livello sociale ma utile ai nostri fini e verrà ripresa in seguito.

L’invidia ha in genere un carattere locale. Nella Retorica Aristotele scrive: “Noi invidiamo coloro che sono vicini a noi nel tempo, spazio, età o reputazione” (si vedano anche Toqueville, 1969; Elster, 1991, 1999a; Choi, 1993). Essa si manifesta soprattutto fra membri della stessa comunità e, al suo interno, fra appartenenti allo stesso strato sociale o a strati contigui. Invidiamo coloro con i quali ci confrontiamo continuamente e rispetto ai quali ci  sentiamo uguali o immediatamente al di sotto nella gerarchia sociale. L’invidia è rafforzata dal fatto che chi ne è oggetto non è molto diverso da noi, dunque avremmo potuto facilmente essere al suo posto[3]. Frank (1984) ha studiato la relazione fra salari e produttività all’interno di gruppi di lavoratori osservando che i differenziali salariali non rispecchiano quelli di produttività. In genere la struttura dei primi è più ugualitaria e lo è tanto di più quanto più forte è l’interazione all’interno del gruppo. E’ una osservazione che contraddice le predizioni della teoria economica ma può essere spiegata ricorrendo al carattere locale dell’invidia. Tanto più stretto è il confronto fra i lavoratori, tanto più le differenze salariali sono percepite come una violazione delle convenzioni di giustizia che regolano il comportamento del gruppo e inducono pertanto una reazione invidiosa che tende a ridurre o annullare i differenziali.

Il carattere locale dell’invidia aiuta a comprenderne alcune peculiarità. La prima si riferisce alla forza con cui essa può manifestarsi in una società egualitaria. Tocqueville (1969) definisce l’invidia come un sentimento democratico in quanto è incoraggiato dalla uguaglianza e dalla mobilità sociale. Tanto maggiore è l’uguaglianza tanto più una piccola differenza emerge e suscita invidia. L’uguaglianza inoltre implica meno privilegi e maggiore mobilità, quest’ultima è un presupposto importante dell’invidia perché stimola il pensiero ‘avrei potuto essere io’.

In secondo luogo l’invidia può manifestarsi con modalità particolarmente acute nelle società in transizione dove sono presenti simultaneamente mobilità e privilegio. Anche il privilegio infatti favorisce l’invidia poiché stimola il pensiero ‘avrei dovuto essere io’ (Elster 1991). Infine è probabile che essa trovi terreno fertile in una comunità chiusa dove l’interazione fra individui è più stretta. L’isolamento riduce i contatti e il confronto con soggetti esterni la cui maggiore ricchezza o status verrebbero meglio accettati proprio per la loro diversità e lontananza.

Nella maggioranza dei casi i comportamenti dell’invidioso non assumono forme apertamente distruttive ma, piuttosto, sottili e nascoste come la stregoneria e il malocchio (Kluckhohn, 1944; Thomas, 1963; Foster, 1972; Schoeck, 1987). Gli antropologi hanno analizzato a fondo queste pratiche fornendo una ricca gamma di esempi riguardanti  società e culture diverse e, sebbene esse non siano sempre riconducibili all’invidia, molto spesso agiscono come deterrente contro il successo e l’arricchimento di alcuni. E’ interessante sottolineare che l’invidia può incidere negativamente sul benessere sociale inibendo comportamenti favorevoli alla crescita economica ed in particolare impedendo la produzione di  nuovi beni. Nella sua analisi dei fattori di coesione della società Elster considera l’invidia come un meccanismo di regolazione della devianza. Commentando le analisi di Kuckhohn sulla stregoneria scrive:

 

“Prescindendo dai suoi eccessi funzionalisti vi è qualcosa di vero in questa analisi. Essa suggerisce che, in un certo senso, l’invidia svolge una funzione di collante della società reprimendo i comportamenti devianti e, soprattutto, l’insorgere stesso del desiderio di deviare. Forme di devianza che potrebbero beneficiare tutti sono spietatamente punite, perché il potenziale innovatore teme che il successo susciterà invidia e che il fallimento lo esporrà al disprezzo.” (Elster, 1989 pag. 262)

Essere  invidiati produce conseguenze ambigue sul piano del comportamento.  Da un lato,  può essere un’emozione piacevole che accresce la propria autostima e induce comportamenti tendenti a stimolare  l’invidia da parte degli altri;  dall’altro, l’invidiato può temere  effetti distruttivi  sulla propria ricchezza e status (Elster, 1991). Questa ambivalenza caratterizza molte cerimonie ridistributive diffuse nelle società tradizionali[4]. La ridistribuzione della ricchezza può essere letta come un tentativo di attenuare l’invidia ristabilendo una maggiore uguaglianza, ma non è detto che questo sia il risultato oggettivo al di là delle intenzioni. L’ostentazione della ricchezza implicita in tali cerimonie può conseguire il risultato opposto rendendo più evidente l’inferiorità di chi ne beneficia. E’ probabile che, in alcuni casi, le intenzioni stesse siano opposte: rimarcare la propria superiorità e accrescere il proprio godimento per l’invidia altrui[5].

In gran parte degli studi antropologici la paura degli effetti distruttivi è considerata prevalente, almeno nelle società tradizionali[6]. Approfondirò pertanto questo aspetto. La paura di subire un danno materiale e il senso di colpa che l’invidia può generare stimolano, come si è detto in precedenza, comportamenti volti ad attenuare l’invidia stessa. Elster (1991) nota che tali comportamenti possono assumere due forme: privarsi della propria ricchezza o nasconderla. La prima è poco frequente, sia perché molto costosa ma anche perché spesso non raggiunge lo scopo. L’invidioso desidera infatti che l’invidiato perda la sua ricchezza per motivi indipendenti dalla sua  volontà. Spogliarsi dei beni è, in definitiva, un’ulteriore ostentazione di superiorità morale.

La seconda forma è invece documentata in diverse società. Simpson (1941) riporta il caso dei contadini haitiani che preferiscono acquistare molti piccoli appezzamenti di terreno, anziché uno solo di maggiore estensione, proprio per celare più facilmente il proprio status economico. Schoeck (1987) descrive l’abitudine dei ricchi ghanesi di lasciare incompiute le parti esterne della casa per occultare la propria ricchezza.

Negli esempi precedenti la disparità di status esiste realmente e i comportamenti descritti tendono a nasconderla ma l’invidia agisce anche come deterrente nei confronti di una disparità potenziale, in questo caso essa induce ad astenersi da azioni e comportamenti che potrebbero suscitarla[7]. Questo aspetto è particolarmente rilevante ai fini del rapporto fra imprenditorialità e invidia perché favorisce atteggiamenti conformisti e rispettosi delle convenzioni vigenti. A questo punto è necessario rivolgere la nostra attenzione al secondo corno del problema: l’imprenditorialità.

 

 

  1. 2. Il ruolo dell’imprenditore.

In un certo senso si potrebbe affermare che la figura dell’imprenditore sta alla teoria economica come la meccanica quantistica sta a quella fisica. Il principio di indeterminazione di Heisenberg ha rappresentato a lungo un puzzle insolubile fra i fisici. Allo stesso modo l’imprenditore appare come qualcosa di indeterminato e sfuggente agli occhi degli economisti. La storia della scienza mostra che un problema insolubile può produrre due risultati: un mutamento di paradigma scientifico o, più semplicemente, l’estromissione del problema stesso dal dibattito corrente. La seconda soluzione sembra avere prevalso nel caso del paradigma neoclassico e le ragioni non sono difficili da spiegare. Nell’approccio della scelta razionale le imprese prendono le loro decisioni scegliendo gli opportuni valori di un numero ristretto di variabili ben definite come il prezzo, la produzione, la combinazione dei fattori. Ciascuna alternativa è associata a un certo valore dei costi e dei ricavi, pertanto ciò che l’impresa deve fare è un semplice calcolo matematico per individuare i valori ottimali che garantiscono la massimizzazione del profitto. Tutto ciò finché forze esogene non introducono mutamenti ai quali l’impresa reagisce adattando le proprie scelte al fine di massimizzare il profitto nelle nuove condizioni. Non vi può essere alcuno spazio per l’immaginazione e l’iniziativa in questo quadro decisionale né, tanto meno, per fattori sociali o psicologici che possano influenzarle. L’impresa reagisce meccanicamente come un calcolatore passivo di fronte ai mutamenti esterni. Perfino la nascita di nuove imprese viene spiegata in termini di maggiori o minori barriere all’entrata in un determinato mercato. Così l’esistenza di sovrapprofitti determina un elevato tasso di ingresso di nuove imprese in una struttura di mercato concorrenziale mentre ciò accade in misura minore, o non accade affatto, in una struttura oligopolistica.

Ciononostante la figura dell’imprenditore è stata al centro dell’attenzione di alcuni grandi economisti come Schumpeter, Knight e Kirzner[8].

Schumpeter affronta il problema sia nella ‘Teoria dello sviluppo economico’ che in ‘Capitalismo, socialismo e democrazia’ ponendo l’accento sul fondamentale ruolo svolto dall’imprenditore nello sviluppo economico. Il processo di sviluppo è visto come un cambiamento discontinuo che disturba e altera le condizioni di equilibrio esistenti nell’economia. Il principale elemento di rottura e di mutamento è l’innovazione di cui l’imprenditore è artefice e demiurgo. Ciò che caratterizza la funzione imprenditoriale non è l’abilità manageriale bensì la capacità di individuare ‘nuove combinazioni’, nuovi prodotti, nuovi mercati, nuovi metodi produttivi. Nella visione di Schumpeter le nuove combinazioni non  rappresentano piccoli cambiamenti incrementali bensì radicali rotture con il passato.

Al di là della profonda influenza della concezione schumpeteriana sulla teoria dell’innovazione tecnologica, ciò che appare rilevante in questa sede è l’enfasi sulla rottura degli equilibri e delle convenzioni esistenti come tratto caratterizzante della funzione imprenditoriale. La legittimazione stessa dell’imprenditore al profitto discende dalla sua capacità di distruzione creativa che implica una violazione o, addirittura, l’abbattimento delle regole vigenti per consentire l’affermazione del nuovo. Comportamenti  devianti come quelli descritti possono suscitare resistenze nell’ambiente circostante.

 

“Questa reazione può manifestarsi innanzitutto nell’esistenza di impedimenti legali o politici. Ma, a parte questo, qualunque condotta deviante da parte di un membro di un gruppo sociale è condannata, quantunque in diverso grado, a seconda che nel gruppo tale condotta sia usuale o meno. […] Questa opposizione è più forte nelle culture primitive che nelle altre ma non è mai assente. Perfino la mera sorpresa di fronte alla devianza, il semplice fatto di notarla esercitano una pressione sull’individuo. Le manifestazioni di condanna possono produrre una catena di conseguenze. Esse possono perfino sfociare nell’ostracismo sociale e, infine, nell’impedimento fisico o nell’attacco diretto.” (Schumpeter, 1936, pag. 87)

 

Schumpeter ha dunque ben presente che le possibilità di successo dell’attività imprenditoriale e, quindi, di sviluppo economico dipendono, in larga misura, dalla presenza di un ambiente sociale favorevole e dall’assenza di barriere alla formazione dell’imprenditorialità. La distanza dalla visione neoclassica di una offerta di imprenditorialità perfettamente elastica rispetto all’ambiente socioculturale e dipendente esclusivamente dalle opportunità di profitto non potrebbe essere più netta. Pur non menzionando esplicitamente il concetto di invidia il brano citato sembra evocarla in alcuni passaggi [9].

La teoria schumpeteriana è stata criticata sotto diversi profili. In particolare la sua visione eroica della figura dell’imprenditore, pur  essendo in grado di spiegare le grandi trasformazioni nelle economie capitalistiche, mal si presta a una analisi delle condizioni che facilitano o ostacolano la formazione di un tessuto imprenditoriale diffuso. Numerosi storici economici hanno sottolineato come il processo di sviluppo sia il risultato soprattutto di piccoli e continui mutamenti nelle tecnologie, nell’organizzazione delle imprese, nell’ampliamento dei mercati (Rosenberg, 1982). In questa concezione la funzione imprenditoriale perde la sua dimensione eroica di rottura radicale ma conserva caratteristiche devianti e non convenzionali capaci di  suscitare reazioni nell’ambiente circostante.

La scuola austriaca, più attenta alla continuità dei processi evolutivi operanti nei mercati, ha sviluppato una teoria dell’imprenditorialità e della legittimazione economica e sociale del profitto particolarmente interessante. Secondo Kirzner  – l’autore che più di ogni altro ha affrontato il problema[10] -  l’aspetto cruciale della funzione imprenditoriale consiste nella percezione e concretizzazione di opportunità di profitto inesplorate. Tale percezione non è il risultato di un calcolo razionale in un quadro di informazione perfetta, ma discende proprio dall’ignoranza che caratterizza i mercati. Nella teoria economica ortodossa, che assume completa informazione e equilibrio nei mercati, non esistono, per definizione, opportunità di profitto inesplorate per il semplice fatto che in equilibrio esse sono già state pienamente sfruttate. La scuola austriaca propone, al contrario, una visione del sistema capitalistico in cui i mercati sono perennemente in disequilibrio  proprio perché prevale l’incertezza e gli agenti non conoscono  tutti gli elementi rilevanti dell’ambiente circostante. In questo quadro l’imprenditore svolge non soltanto funzioni di arbitraggio – che consistono nel vendere un determinato bene a un prezzo superiore a quello al quale è stato acquistato -  ma anche di  scoperta di  nuove opportunità.

 

“Il punto essenziale è che la funzione imprenditoriale pura si esercita solo in assenza di una proprietà iniziale… Il puro imprenditore intravede l’opportunità di vendere qualcosa a un prezzo superiore a quello al quale può comprarla.” (Kirzner, 1973, pag. 16)

Kirzner non intende affermare che l’imprenditore sia un puro speculatore ma, piuttosto, che la sua specificità sta nella capacità di percepire nuove opportunità di profitto (nelle sue parole ‘alertness to profit opportunities’) rompendo il velo di ignoranza su nuovi possibili usi di risorse o beni già esistenti. La  legittimità del profitto deriva proprio da questa particolare abilità o talento, piuttosto che dal lavoro svolto in qualità di coordinatore e manager dell’impresa. Non vi è dunque alcuna relazione fra profitto e sforzo erogato dall’imprenditore. “Profit is something obtainable for nothing at all” (Kirzner, 1973, pag. 48).

 

 

  1. 3. Invidia e imprenditorialità: alcune connessioni.

Due aspetti dell’analisi di Kirzner aiutano a capire perché il successo imprenditoriale possa essere oggetto di invidia in determinati contesti sociali. Il primo è che il successo dipende da fattori che i non imprenditori difficilmente sono in grado di individuare perché, in particolare, non  derivano da uno  sforzo lavorativo identificabile e misurabile. Esso viene quindi percepito come indipendente da uno specifico comportamento meritorio e, in definitiva, come ingiustificato o dovuto a circostanze accidentali e fortunate. Ciò, da un lato giustifica reazioni di indignazione  e può favorire quel processo di trasmutazione dell’invidia in risentimento di cui si è parlato in precedenza;  dall’altro, può stimolare il pensiero: ‘avrei potuto essere io’.

Il secondo ha a che fare con il fatto che il profitto emerge da uno scambio che può essere  considerato  ineguale. Secondo la dottrina medioevale del giusto prezzo, la giustizia nello scambio richiede che ciascuno dei contraenti paghi o riceva un prezzo esattamente uguale al costo di produzione del bene oggetto di scambio. In queste condizioni il profitto non può esistere e, comunque, non può avere alcuna giustificazione morale. Esso infatti nasce necessariamente da uno scambio nel quale l’imprenditore spunta un prezzo superiore al costo di produzione sfruttando l’ignoranza quindi, in qualche modo, ingannando i contraenti[11]. Al contrario, secondo Kirzner, l’imprenditore si appropria di un valore prima inesistente che emerge solo grazie alla sua scoperta di un uso non convenzionale di un bene o risorsa. La capacità  di creare un valore inesistente legittima il profitto.

Kirzner non elabora  una teoria dell’offerta di imprenditorialità in senso proprio; infatti,  egli non affronta il problema di quali condizioni economiche e sociali stimolino o inibiscano la formazione di un tessuto imprenditoriale, limitandosi ad analizzare le specificità della funzione dell’imprenditore e le ragioni che legittimano il profitto. Tuttavia la sua analisi  è ricca di spunti. Il diverso grado con il quale l’imprenditorialità si manifesta in società diverse  se – come si può assumere – non dipende dalla distribuzione del talento imprenditoriale, inteso come attenzione (‘alertness’) alle opportunità di profitto, non può che essere ricondotto a due fattori: la differenza nelle opportunità di profitto e la diversa forza inibitoria delle barriere all’imprenditorialità. Una di queste ultime è  indubbiamente la percezione sociale della legittimità del profitto. In una società dinamica, caratterizzata da diffuse opportunità di innovazione e di crescita della ricchezza, l’iniziativa e l’assunzione del rischio sono non solo fattori sufficienti a giustificare l’arricchimento e il successo ma anche modelli di comportamento da imitare. E’ molto probabile che, in questo caso, l’invidia assuma prevalentemente la forma emulativa, contribuendo a stimolare comportamenti imitativi che favoriscono più che ostacolare la diffusione dell’imprenditorialità[12]. In comunità più statiche, in cui lo  sforzo lavorativo è il più riconosciuto titolo di reddito, il valore economico creato dall’imprenditore appare meno comprensibile e si presta ad essere interpretato come il risultato di uno scambio ineguale, di una appropriazione indebita e illegittima.

Questa argomentazione solleva un quesito: se l’invidia implica il desiderio di ciò che l’invidiato possiede come è possibile giustificare la condanna morale di qualcosa che intimamente si vorrebbe per sé?  La domanda ha due risposte. In primo luogo, come si è detto,  l’invidia non implica necessariamente il desiderio di ciò che l’altro possiede quanto, piuttosto, la sofferenza per la propria inferiorità. Quello che l’invidioso desidera non è tanto avere ciò che l’altro ha quanto, piuttosto, ristabilire la parità,  privando l’altro di ciò che possiede in più. In caso contrario non si spiegherebbe perché egli  sia disposto a rinunciare a qualcosa pur di conseguire il suo obiettivo. Anche qualora il desiderio di ciò che l’altro possiede sia presente occorre tenere conto che spesso le emozioni non influenzano il comportamento individuale direttamente ma attraverso la mediazione di complesse razionalizzazioni. Come si è detto in precedenza, l’invidia è un sentimento riprovevole, sanzionato socialmente che è fonte di vergogna per lo stesso invidioso. Deve quindi essere mascherata e giustificata prima di tradursi in un comportamento socialmente rilevante. Nelle sue opere più recenti Elster (1999a, 1999b) si sofferma a lungo su questo punto.

 

“L’esperienza dell’invidia e la vergogna dell’invidia possono suscitare vari tipi di reazioni. L’individuo può semplicemente pensare ad altro e dimenticare l’esperienza. Alternativamente potrebbe disinnescare l’emozione concentrandosi sugli aspetti che rendono meno invidiabile la situazione della persona invidiata. Osservando la rivale una donna potrebbe dire a se stessa:” Sì è bella, ma pensa quanto sarà infelice quando la sua bellezza sfiorirà”. Infine la persona invidiosa potrebbe adottare una strategia cognitiva più aggressiva: rielaborare  i dati di fatto per persuadersi che la persona invidiata ha ottenuto ciò che ha in modo illegittimo e, forse, a spese dell’invidioso. Questo nuovo modo di vedere le cose suscita un sentimento di giustificata indignazione al quale si può indulgere senza alcuna vergogna. La nuova emozione può anche indurre un comportamento tendente a eliminare l’ingiustizia o a punire il rivale immeritevole.” (Elster, 1999b, p. 109-10)

Sebbene distorta questa razionalizzazione dell’invidia deve trovare qualche fondamento in norme sociali comunemente accettate o, almeno, sufficientemente diffuse. Questo spiega, a giudizio di Elster, perché la frequenza e l’intensità con le quali si manifesta l’invidia (o, più precisamente, i suoi effetti inibitori dell’azione) variano a seconda del contesto sociale e sono maggiori nelle società tradizionali rispetto a quelle caratterizzate da anonimato e elevata mobilità.

La condanna “morale” dell’oggetto del desiderio è quindi il risultato di una dissonanza cognitiva ma ciò non impedisce che possa avere effetti sociali rilevanti. La censura sociale nei confronti del successo imprenditoriale è rafforzata dal fatto che essa non suscita in coloro che la praticano alcun senso di disagio. In questo contesto può crearsi un ampio  consenso alla  conservazione dell’esistente e la condanna dei comportamenti innovativi percepiti come devianti e pericolosi per la coesione sociale può risultare molto diffusa.

A questo punto sorge una domanda: perché invocare l’invidia come causa di inibizione dell’innovazione quando basterebbe riferirsi ai rischi che quest’ultima può generare in una società di sussistenza? L’innovazione è per sua natura rischiosa, e lo è tanto di più quanto minore è il surplus produttivo rispetto alle esigenze di sussistenza. Nelle economie povere la scarsa propensione  a innovare può essere interpretata come una manifestazione di avversione al rischio[13], oppure come l’adeguamento a norme sociali non scritte tese a minimizzare il rischio. Hayek (1978) osserva che la giustizia sociale e le obbligazioni connesse sono necessarie per la sopravvivenza di società di sussistenza in cui la produttività è bassa. In questo caso la condivisione forzata delle risorse accresce le possibilità di sopravvivenza e per questo può essere considerata  una sorta di assicurazione contro il rischio. Il comportamento innovativo può produrre effetti negativi sugli altri membri della comunità, in quanto mette a rischio il soddisfacimento delle obbligazioni di reciprocità e deve essere quindi censurato in qualche modo. L’invidia può essere interpretata allora come uno strumento che contribuisce oggettivamente all’esercizio di tale censura. Non la causa principale, quindi, dell’assenza di innovazione ma un fattore concomitante che opera nella stessa direzione, e contribuisce a soddisfare esigenze più profonde di controllo dei comportamenti devianti quando questi ultimi minacciano l’equilibrio di sussistenza.

Questa interpretazione lascia comunque aperto qualche problema. In primo luogo l’intreccio fra invidia e avversione al rischio risulta difficilmente dipanabile, mentre una chiara distinzione sarebbe utile non solo dal punto di vista analitico ma anche a fini di policy. I rimedi sono infatti diversi. Se l’invidia è all’origine della mancata diffusione dell’innovazione la soluzione del problema richiede una profonda trasformazione delle convenzioni sociali; nel secondo caso, invece,  occorre  garantire al potenziale innovatore una qualche forma di assicurazione.

In secondo luogo il concetto assume contorni poco chiari perché l’invidia sarebbe la reazione a una minaccia reale mentre una delle sue caratteristiche essenziali  è quella di prescindere dal danno subito. Si è detto ripetutamente che si prova invidia per un senso di inferiorità rispetto a chi possiede più di noi, anche se la sua ricchezza non comporta alcuna riduzione della nostra[14]. L’elemento rilevante è la posizione relativa, per questo motivo l’invidia non è necessariamente collegata al fatto che il gioco della produzione sia a somma zero, al contrario è perfettamente compatibile con un gioco a somma positiva. Se la ricchezza cresce in modo diseguale l’invidia può prosperare anche in una economia in crescita.

Consideriamo quella che Hirsch (1981) definisce economia posizionale. Hirsch parla di scarsità sociale pura riferendosi a quei beni la cui utilità dipende non tanto da caratteristiche intrinseche quanto dall’esclusività nel consumo. L’utilità deriva dal prestigio sociale che il consumo di questi beni conferisce in quanto limitato a un’élite ristretta. Anche se la torta dei beni normali cresce quella dei beni posizionali non può che rimanere fissa poiché i beni posizionali hanno per definizione un consumo limitato. In una economia di questo genere il gioco è duplice: a somma positiva per quanto riguarda i beni normali, a somma zero per quelli posizionali. L’invidia è compatibile con entrambi i casi quantunque nel secondo possa essere rafforzata.

In definitiva l’invidia può essere diffusa in qualunque società ma i suoi effetti sociali sono molto diversi. Nelle società arretrate di sussistenza, in cui molti antropologi hanno individuato un alta diffusione dell’invidia, il motivo sottostante alla censura dei comportamenti devianti è un motivo sostanziale: la pericolosità di questi comportamenti per l’equilibrio sociale. Qualora i comportamenti rischiosi e innovativi coincidano con quelli che consentono a chi li adotta di arricchirsi rispetto agli altri, l’invidia produce effetti rilevanti poiché opera nella stessa direzione rafforzando la spinta a censurare tali comportamenti. Proprio grazie a questa concordanza, come si è già osservato, essa può più facilmente giustificarsi. Senza voler ricorrere ad  argomentazioni funzionaliste si può affermare che in questo tipo di società l’invidia  risulta meno censurabile, quantomeno nelle sua forma rielaborata.

In realtà,  non esistono fondati motivi per ritenere che l’invidia sia meno diffusa nelle società più dinamiche. Si può, però,  affermare che in tali società essa, da un lato,  incontra maggiori difficoltà a trasformarsi da emozione individuale a comportamento socialmente rilevante e, dall’altro, produce esiti diversi rispetto alle società arretrate. In un ambiente sociale in cui prevalgono valori di affermazione individuale e di competizione, ove la ricchezza è considerata come una misura delle capacità individuali, l’invidia trova minori giustificazioni ed è stigmatizzata, non solo come sentimento moralmente riprovevole, ma come segno di debolezza, incapacità e inerzia, a meno che non si traduca in una spinta alla competizione. Parallelamente essere oggetto  dell’invidia altrui non suscita disagio ma spinge, piuttosto, a differenziarsi dagli altri.

Ciò che spiega i differenti effetti dell’invidia è quindi il fatto che, nel caso delle società arretrate, dove domina una generale sfiducia sulla possibilità di migliorare lo stato delle cose esistente, il  mutamento è percepito come una minaccia alla collettività. In quelle dinamiche la situazione è esattamente rovesciata.

Benché l’invidia sia stata analizzata dagli antropologi soprattutto con riferimento alle società tradizionali, le connessioni con l’imprenditorialità si manifestano soprattutto nelle società in transizione. Albert Hirschman (1973) temeva che la presenza di una invidia diffusa nelle economie in fase di decollo potesse ostacolare il processo di sviluppo ma riteneva che questo pericolo potesse essere almeno temporaneamente mitigato  da una sorta di ‘effetto tunnel’. Nelle prime fasi dello sviluppo si creano disuguaglianze nella distribuzione del reddito ma la mobilità verso l’alto di alcuni individui o gruppi sociali crea negli altri analoghe aspettative di successo in un momento successivo[15].

Mary Douglas (1984) sviluppa una argomentazione opposta e più interessante, proponendo una tassonomia delle società sulla base del tipo di transazioni che intercorrono fra gli individui. La Douglas definisce il concetto di ‘griglia’ come ‘l’ambiente che le reciproche transazioni creano per gli individui’. Le diverse società si collocano all’interno di un continuum che ha ai propri estremi quelle a griglia forte e debole con varie gradazioni intermedie. Le prime sono regolate da norme e tradizioni molto rigide, il controllo sull’invidia è garantito dall’autorità del gruppo che impone valori di uguaglianza prevenendo comportamenti devianti e sanzionando i consumi eccessivi e vistosi attraverso un prelievo di ricchezza o in altro modo. Con il movimento lungo il continuum in direzione di una griglia più debole aumenta l’autonomia individuale nelle transazioni, la distribuzione della ricchezza tende a diventare ineguale e l’invidia si manifesta come un pericolo per la sicurezza della proprietà.

 

“[…] si può dire che in una dimensione graduata che va dalla griglia forte a quella debole non è necessario che l’invidia sia definita e sottoposta a controllo se gli isolanti stessi separano le persone fra loro. Ma quando l’individualismo viene posto universalmente all’ordine del giorno, le energie distruttive dell’invidia possono costituire un grave pericolo per la sicurezza della vita e della proprietà, tanto più perché un libero mercato con transazioni individuali pare produrre sempre una distribuzione ineguale dell’influenza e della ricchezza; di qui la necessità di una teoria della giustizia che sia in grado di far accettare questa situazione” (Douglas, 1984 p.44).

 

L’analisi della Douglas coglie molto bene alcuni aspetti del problema. Nelle società industriali a griglia debole la distribuzione del reddito tende ad essere più ineguale e l’arricchimento di alcuni individui più rapido e vistoso, ma la efficace tutela dei diritti di proprietà e la diffusione di una concezione della giustizia distributiva tendente a legittimare l’ineguaglianza contribuiscono ad attenuare gli effetti dell’invidia. Nelle società in transizione, viceversa, nessuna delle due condizioni è presente. La crescita del reddito e una maggiore mobilità sociale indeboliscono le norme tradizionali. L’ineguaglianza aumenta ma permane, nello stesso tempo, una concezione ugualitaria della giustizia distributiva. In altri termini l’innovazione e l’iniziativa imprenditoriale divengono un fatto sociale via via più rilevante, ma operano all’interno di un quadro di valori e convenzioni che tende a delegittimarle stimolando reazioni di risentimento (nel senso di Rawls) nell’ambiente circostante.

L’insieme di condizioni descritte offre indubbiamente un terreno più favorevole al dispiegamento degli effetti inibitori dell’invidia, ma sarebbe quantomeno incauto andare molto oltre questa affermazione estendendo le argomentazioni precedenti fino a farne una chiave interpretativa del percorso che porta a una società industriale dinamica.

 

  1. 4. Gli effetti dell’invidia

Veniamo ora a un’analisi più precisa degli effetti dell’invidia sull’imprenditorialità. L’iniziativa imprenditoriale può essere scoraggiata per tre motivi:

1)      l’invidia da luogo a pratiche di boicottaggio dell’iniziativa imprenditoriale fino a provocarne l’insuccesso;

2)      spinge a non sfruttare le opportunità che si presentano per timore di reazioni ostili che il successo o la ricchezza possono generare;

3)      impedisce la concentrazione delle risorse necessarie alla creazione di nuove imprese poiché favorisce una distribuzione ugualitaria della ricchezza.

E’ improbabile che il primo caso sia molto frequente se non altro perché raramente l’invidia da luogo a comportamenti apertamente distruttivi. Il boicottaggio può comunque assumere forme più larvate. De Martino (1959) descrive il caso dell’ingegner Melisurgo che dovette abbandonare il progetto di costruzione della ferrovia delle Puglie nel 1856.

 

“Povertà reale delle province e avarizia, diffidenza per i rischi dell’impresa, invidia dei foggiani verso un ingegnere barese salito tanto in alto, non sufficiente concorso del governo che interveniva a titolo di incoraggiamento e non per assicurare gli interessi del capitale, e infine reali deficienze tecniche del progetto nel suo complesso motivarono il fallimento dell’impresa. […] Orbene l’insuccesso di questa impresa fu fatto risalire al potere di quel duca di Ventignano che abbiamo già incontrato in funzione di “jettatore” nazionale – o addirittura internazionale – nella biografia romanzata del Dumas.” (De Martino, 1959)

 

Nel secondo caso l’effetto dell’invidia non è quello di distruggere ricchezza, bensì di impedire che questa venga creata tout court. Il timore delle conseguenze distruttive dell’invidia induce in chi ne è potenzialmente oggetto un comportamento che Elster (1991) definisce di envy-avoidance.

 

“La prevenzione dell’invidia è la deliberata astensione da comportamenti che provocherebbero l’invidia degli altri. Supponiamo che A debba decidere se compiere un’azione che potrebbe provocare l’invidia di B. A deve confrontare i benefici derivanti dall’azione stessa e dal piacere indotto dall’invidia con i costi diretti che deve sostenere per raggiungere l’obiettivo e il rischio che B possa fare qualcosa per distruggere i beni di A. Il bilancio del confronto potrebbe indurre A a ritenere più opportuno astenersi. […] Qui l’invidia riduce il benessere indirettamente. Anziché distruggere la ricchezza essa assicura che quest’ultima non sia mai prodotta. In molte società tradizionali l’anticipazione dell’invidia è una manomorta che soffoca l’innovazione e il progresso.” (Elster, 1991, p.109-10)

Kluckhohn (1944) cita numerosi casi di accuse di stregoneria nei confronti di persone ricche e di successo, in particolare presso gli indiani Navaho, allo scopo di provocare un senso di colpa e di  prevenire disuguaglianze nella distribuzione del reddito[16].

“La credenza nell’invidia ha, allo stesso modo, molte specifiche funzioni latenti che contribuiscono alla difesa del gruppo e dell’equilibrio sociale. Essa, insieme ad altri meccanismi sociali, tende a prevenire l’eccessiva accumulazione di ricchezza e frena l’aumento troppo rapido della mobilità sociale. Un uomo ricco sa che, se è avaro con i suoi parenti o manca di offrire ospitalità a tutti in diverse occasioni, va incontro al rischio di essere tacciato di stregoneria. Tutti sanno inoltre che se diventeranno ricchi troppo rapidamente si dirà che hanno incominciato derubando i morti dei loro gioielli.”  (Kluckhohn, 1944, p. 63)

Dicerie malevole sulle origini della ricchezza tendenti a compromettere la reputazione dell’arricchito sono frequenti anche nel nostro Mezzogiorno. Ortu (1987) riporta la vicenda dell’avvocato Arangino, personaggio vissuto in un paesino della Sardegna centrale nell’800 e divenuto potente a tal punto da essere soprannominato “Re delle Barbagie”, che venne descritto dalla voce popolare come un usurpatore di terreni e un ladro per aver rubato la cassa della parrocchia insieme con il parroco del paese.

L’idea che la ricchezza abbia spesso una provenienza oscura o perfino illegale è fortemente radicata nella cultura contadina, come si deduce dalle parole di un contadino intervistato da Angioni (1974):

“Chi è ricco è perché ha rubato. O lui o i suoi predecessori che gli hanno lasciato i beni rubati. Non si è mai visto uno che è diventato ricco lavorando col sudore.”

Così come lo è la tendenza a considerare la ricchezza acquisita rapidamente come il risultato di eventi assolutamente fortuiti. Nel suo studio sulla Giara di Gesturi in Sardegna Lai (1994) racconta la storia di Francesco Puddu, imprenditore di riconosciute capacità, la cui accumulazione iniziale fu attribuita nella memoria popolare al ritrovamento di un tesoro.

Infine, Schoeck (1987) cita il caso di un programma di sviluppo agricolo in India che prevedeva l’introduzione di un nuovo tipo di fertilizzante. I consigli degli esperti furono seguiti da un numero molto esiguo di coltivatori. Per spiegare lo scarso successo del programma furono intervistati alcuni personaggi giudicati buoni conoscitori della realtà sociale e della psicologia locali. Un contadino anziano diede la seguente risposta: “Se l’innovazione, come promesso, dovesse dar luogo a un raccolto particolarmente abbondante chi l’ha adottata avrebbe paura del nazar lagna”. Questa parola in lingua Urdu significa atteggiamento malevolo, invidioso e distruttivo. L’intervistato ricorda anche  che un eventuale fallimento  avrebbe suscitato sentimenti di soddisfazione negli  altri membri della comunità.

Gli esempi riportati indicano che l’arricchimento rapido viene “sanzionato” preventivamente in diverse società, come se si trattasse di un comportamento deviante che minaccia di alterare l’equilibrio. Sarebbe azzardato dedurre da tutto ciò che l’invidia costituisca il  principale ostacolo alla formazione di un tessuto imprenditoriale in un’area arretrata. L’invidia è soltanto una delle forme in cui si concretizza la censura sociale all’innovazione. D’altro canto l’insieme dei fattori che ostacolano l’iniziativa imprenditoriale è talmente articolato e complesso da rendere difficile una valutazione precisa del ruolo da essa svolto. E’ probabile però che tale ruolo sia più rilevante in situazioni in cui le scarse opportunità di crescita del reddito diffondono fra gli agenti la  sfiducia in se stessi e nella capacità di migliorare la propria condizione e li inducono a ritenere che non vi siano alternative costruttive a una reazione invidiosa nei confronti dei privilegiati.

Veniamo ora al terzo effetto. In  mercati caratterizzati da forti vincoli dal lato del credito[17], caso molto frequente nelle economie arretrate, la dispersione delle ricchezze  rappresenta un formidabile ostacolo alla formazione di nuove imprese. La dispersione delle risorse opera anche attraverso un altro canale: quello delle successioni. In diverse società tradizionali (tra le quali varie aree del Mezzogiorno d’Italia) la trasmissione del patrimonio avviene secondo modalità che producono nel lungo periodo una elevata frammentazione della proprietà. Non credo esista una spiegazione economica soddisfacente di questo fenomeno. E’ improbabile che tali pratiche rispondano a una logica di diversificazione del rischio; infatti,  oltre una certa soglia dimensionale il rischio tende a crescere piuttosto che a ridursi perché intervengono diseconomie di scala. La polverizzazione del patrimonio familiare, pur temperata da pratiche contrattuali e strategie matrimoniali volte al riaccorpamento delle unità produttive o dalla presenza di diritti d’uso su proprietà comuni, tende ad accrescere la precarietà dell’economia familiare e lo scivolamento verso il lavoro salariato (Manoukian, 1988). L’invidia rappresenta anche in questo caso un possibile fattore esplicativo. Non si può escludere che tra le motivazioni sottostanti sia presente quella di minimizzare l’insorgere di sentimenti di invidia fra gli eredi, o anche di mascherare l’entità del patrimonio familiare agli occhi dei soggetti esterni alla famiglia stessa. In un quadro distributivo di questo genere le possibilità di accumulazione individuale del capitale si riducono fortemente e ciò contribuisce a rendere plausibile l’ipotesi che in società caratterizzate da valori ugualitari e da una profonda avversione verso l’accumulazione individuale le pratiche di cui si è detto  perseguano proprio questo scopo.

 

 

Considerazioni conclusive.

Sulla base delle argomentazioni svolte finora si può forse concludere che la risposta al quesito posto nell’introduzione debba essere positiva, sebbene con molte riserve. La diffusione  di un sentimento come l’invidia nell’ambiente sociale può rappresentare una barriera alla formazione di un esteso  tessuto imprenditoriale e può, quindi, tradursi in un ostacolo allo sviluppo economico. L’utilità di questo concetto per l’analisi delle economie stagnanti deve essere meglio precisata. La domanda cruciale non è tanto se l’invidia possa avere un ruolo nella spiegazione dello sviluppo economico (o meglio dell’assenza di sviluppo) ma, piuttosto, quale sia la sua effettiva rilevanza nell’insieme di concause simultaneamente presenti in un quadro molto complesso. L’ analisi svolta fin qui non è sufficiente a dare una risposta convincente a questo problema.

In primo luogo per poter stabilire una connessione fra invidia e imprenditorialità è stato necessario adottare una definizione ampia di invidia che sconfina in quella di giustizia distributiva (in caso contrario, l’invidia pur diffusa, tenderebbe ad essere dissimulata e si tradurrebbe più difficilmente in comportamenti e azioni di censura nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale). Nonostante le argomentazioni sviluppate per giustificare la scelta resta dubbio  che i due concetti siano facilmente sovrapponibili, anche  nello specifico contesto della nostra analisi. Le concezioni ugualitarie hanno basi filosofiche, sociali e anche economiche (si pensi alla funzione assicurativa nelle economie di sussistenza) ben più ampie di quelle dell’invidia e sono da essa indipendenti.

In secondo luogo l’invidia interagisce con altri fattori. Si è avuto modo di rilevare come l’avversione al rischio nelle economie agricole arretrate possa dipendere in qualche misura dalla presenza di un sentimento diffuso di invidia, ma giocano un ruolo cruciale anche altri fattori come la rischiosità intrinseca dell’attività produttiva, l’indebitamento e le strozzature nei mercati creditizi o le stesse forme di organizzazione della produzione (per esempio la mezzadria). Un altro caso può essere il seguente. Dato il suo carattere locale è ipotizzabile che l’invidia tenda a diffondersi maggiormente in comunità caratterizzate da isolamento inibendo l’iniziativa imprenditoriale e intrappolando l’economia nella stagnazione. Una comunità isolata avrebbe presumibilmente scarsi contatti commerciali con altri mercati e limitate opportunità di sviluppare economie di scala statiche e dinamiche, ossia di apprendere nuove conoscenze e tecniche produttive. Anche in questo caso, come nel precedente, invidia e mancanza di interscambio possono produrre effetti simili ma le politiche di intervento sono ovviamente diverse a seconda di quale delle due variabili abbia un ruolo predominante.

In tutti questi casi il problema della quantificazione degli effetti dell’invidia è cruciale, in caso contrario la proposizione che essa influenza negativamente l’imprenditorialità non ci aiuterebbe molto a capire le divergenze nei percorsi di sviluppo delle diverse economie. L’invidia è un sentimento universale, in quanto tale è presente in maggiore o minore misura in tutte le società ed in ogni  periodo storico. Ciononostante società molto simili dal punto di vista economico hanno percorso strade diverse: alcune hanno sperimentato una rapida crescita e sviluppato un tessuto imprenditoriale diffuso mentre altre hanno manifestato difficoltà di decollo molto maggiori. Non esistono fondati motivi per ritenere che l’invidia fosse storicamente meno diffusa nelle società contadine del nord Europa, oggi ricche e industrializzate, che nell’area mediterranea dove esistono ancora sacche di arretratezza. Perché la categoria dell’invidia possa divenire un strumento utile alla comprensione dei processi di sviluppo è necessario individuare pochi e fondamentali fattori che ne favoriscono la diffusione in una società piuttosto che in un’altra, non come emozione in quanto tale ma come meccanismo che da luogo ad azioni socialmente rilevanti. Come si è avuto modo di vedere, l’invidia produce da questo punto di vista effetti ambigui: può inibire così come stimolare l’iniziativa individuale. La nostra conoscenza delle condizioni che favoriscono l’uno o l’altro effetto è molto lacunosa e la strada da percorrere sembra ancora molto lunga, sebbene i contributi della ricerca antropologica siano in grado di offrirci fin d’ora utili indicazioni.

 

 

 

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* Ringrazio Maurizio Franzini per gli utili commenti a una precedente versione di questo lavoro. La responsabilità delle tesi sostenute rimane interamente dell’autore.

[1] Esistono poche eccezioni come Frank (1988) e Hirshleifer (1992). Per quanto riguarda i problemi dello sviluppo Hirschman (1973), nella sua analisi dell’effetto tunnel, cita l’invidia come un sentimento che può creare problemi di coesione sociale nelle prime fasi dello sviluppo di una economia arretrata.

[2] In questo senso anche Elster (1989, pag.253).

[3] Incidentalmente ciò fornisce una spiegazione del perché nelle società tradizionali l’invidia si rivolga raramente verso i gruppi che stanno più in alto nella gerarchia sociale come l’aristocrazia e anche come essa sia meno pervasiva in sistemi sociali fortemente stratificati (si pensi alle caste). Si veda a questo proposito Foster (1972).

[4] Si pensi al potlach o al comportamento dei mayordomos in alcune aree dell’America Latina che giungono a indebitarsi per ottemperare ai propri doveri ridistributivi (Foster, 1972) o, ancora all’istituzione dell’alferéz descritta da Nash (1967) nel suo studio sugli indiani Amatenango.

[5] Questo comportamento è stato oggetto di attenta analisi da parte di Veblen (1899) con riferimento alle società capitalistiche. Egli considera il desiderio di eccellere in ricchezza e di guadagnarsi la stima e l’invidia altrui come uno dei più potenti incentivi alla accumulazione.

[6] Si vedano a questo proposito Foster (1972), Schoeck (1987), Wolf (1955) e Simpson (1941).

[7] Elster distingue a questo proposito fra ‘envy reduction’ e ‘envy avoidance’. Elster (1991).

[8] Più di recente Casson (1982) e Baumol (1993) hanno offerto contributi importanti in questa direzione.

[9] Naturalmente, una limitata attività  imprenditoriale può dipendere da  altri motivi come, ad esempio,  la potenziale minaccia portata dall’innovazione a interessi economici costituiti. Si veda a questo proposito Olson (1982).

[10] Kirzner (1973, 1979, 1986).

[11] Si noti che questa non è l’unica interpretazione possibile del concetto di prezzo giusto nel pensiero medioevale. Alcuni storici del pensiero economico attribuiscono a S. Tommaso d’Aquino una visione più moderna. Nel pensiero dell’Aquinate il prezzo giusto sarebbe quello di mercato inteso come “l’intero set di elementi oggettivi e soggettivi che danno luogo alla stima del valore da parte della comunità” (Hollander, 1965). In questo caso un prezzo ingiusto si ha quando qualcuno sfrutta l’ignoranza del vero prezzo di mercato da parte del contraente, dove per prezzo si intende quello corrente (o di equilibrio). Questa concezione lascia spazio all’emergere del profitto nel senso che esso deriva dallo sfruttamento di conoscenze ignote alla comunità.

[12] Nelle società ad elevata mobilità anche il godimento dell’invidia altrui può rafforzare la propria auto stima piuttosto che creare timori di ritorsioni, generando un effetto attivante dell’iniziativa imprenditoriale tesa ad acquisire la ricchezza oggetto di invidia.

[13] Questa è indubbiamente la spiegazione più diffusa fra gli economisti del sottosviluppo.

[14] L’invidioso è perfino disposto ad accettare un danno pur di eliminare la causa del proprio sentimento di inferiorità.

[15] Hirschman lo chiama ‘effetto tunnel’ perché è analogo a quello che si verifica fra le automobili in fila per attraversare una galleria. Il movimento dell’altra fila suscita l’aspettativa che in breve tempo si muoverà anche la nostra.

[16] Il ricorso al malocchio è un’altra pratica diffusa per sanzionare individui il cui comportamento o status genera invidia. Si veda a questo proposito Migliore (1997, cap.3).

[17] Ciò può dipendere sia dall’insufficiente sviluppo di istituzioni finanziarie sia dalla maggiore rischiosità delle iniziative che provoca strozzature nell’offerta di credito e ne accresce il costo.

 

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