La politica allontana i giovani, di Antonello Menne
La situazione è drammatica: dal 40% delle politiche al 60% delle regionali. Il dato dell’astensionismo dovrebbe allarmare chi ha responsabilità pubbliche, invece tutto procede regolarmente, senza scossoni, tra proclami e festeggiamenti dei vincitori. In Lombardia ha votato appena il 41% degli aventi diritto, ancora peggio nel Lazio con il suo 37%. Si profila un’onda crescente. Pare che la fascia del non voto riguardi, in particolare, i giovani. Non è una protesta, ma, a parere degli esperti, sarebbe una dichiarazione di inutilità del voto.
Non serve a nulla, perché -dicono- tanto non sarà in grado di determinare una svolta. Chiunque vinca perpetua una condizione di mantenimento dello status quo, vale a dire una realtà ostile o comunque distante dalle aspettative e dalle domande della galassia giovanile. Sempre più si stanno affermando due realtà parallele, quella protetta del “palazzo” e quella fragile e indecifrabile del mondo giovanile. La politica non parla il linguaggio dei giovani e se ne guarda bene dal mettersi in discussione. Dall’altra parte, i giovani ignorano la politica, la percepiscono come fastidiosa, quasi un impedimento alla loro voglia di cambiamento. Quei pochi giovani che la frequentano parlano con le parole del “sistema” e si comportano da dirigenti affermati. La conseguenza è che il distacco rischia di diventare voragine. Nel frattempo, il futuro delle nuove generazioni passa dalle decisioni, sia in campo economico che sociale, della politica nazionale e regionale, che non sembra avvertire la carenza di legittimazione. Tuttavia, governare senza il sostegno della parte più viva della società pone problemi in termini di coesione della comunità e interroga sulla sua evoluzione. Governare senza comprendere il disagio e la ribellione di coloro che dovranno prendere in mano le redini del Paese significa navigare a vista e, spesso, sprecare risorse finanziarie importanti. Governare con l’ostilità di molti studenti che scelgono di andare all’estero, perché ritengono che sia inutile far valere i propri talenti in un sistema di potere “fortificato”, è pericoloso per la stessa tenuta democratica. I dati del non voto sono un serio campanello di allarme perché dicono che la società italiana, divenuta comunità nazionale dopo il secondo conflitto mondiale, si sta progressivamente disgregando; molti gruppi sociali stanno prendendo le distanze dai valori e dai luoghi condivisi per ricavarsi un proprio, autonomo ruolo da esibire in ambienti inaccessibili, in quel metaverso così osannato ma anche così pericoloso. In questo quadro, c’è spazio per riaprire il dialogo? La risposta non può essere cercata nelle teorie del passato e neppure andando a interrogare gli influencer che imperversano nel web. Credo, piuttosto, che valgano gli esempi virtuosi sperimentati in ambito familiare. Quando si verifica una frattura tra genitori e figli è solo azzerando la paura di far esplodere la libertà che alberga nel cuore dei ragazzi che nasce il confronto che edifica. “Libertà è partecipazione” cantava Gaber quarant’anni fa. Voleva dire che la libertà è far parte di qualcosa, per evitare di vivere nella solitudine triste, come ci ricorda spesso Papa Francesco. Proviamoci prima che sia troppo tardi. Antonello Menne
L’UNIONE SARDA, 21 febbraio 2023
Se scompare la dialettica