“Secondo me la Sardegna è trattata in maniera peggiore rispetto a una regione a statuto ordinario». La Sardegna, secondo Roberto Calderoli, è speciale ma non abbastanza. Intervista a Roberto Calderoli di Giuseppe Meloni.
«Autonomia “extra” anche alle regioni con Statuto speciale». Il ministro per gli affari regionali e le autonomie del Governo Meloni risponde alla domande de L’UNIONE SARDA di domenica scorsa.
La Sardegna, secondo Roberto Calderoli, è speciale ma non abbastanza. I poteri riconosciuti dal suo Statuto sono rimasti molto sulla carta (seppure sia una carta costituzionale): finora, dice il ministro degli Affari regionali, l’Isola «è stata trattata peggio delle regioni ordinarie». Ma col governo Meloni, aggiunge, c’è un clima più favorevole agli enti territoriali. E soprattutto spunta un’ipotesi, finora sempre esclusa, che farà discutere: l’applicazione anche alle regioni speciali dell’autonomia differenziata tanto rivendicata dai governatori del Nord. «Io ci credo davvero», giura Calderoli, «l’ho messo anche nel nuovo disegno di legge di attuazione dell’articolo 116 della Costituzione», quello appunto che apre a maggiori competenze delle regioni ordinarie. Una proposta già presentata a novembre e criticata da molti, anche in maggioranza: ma ora, smussati alcuni spigoli, è stata modificata.
Ministro, a che punto siamo con la legge?
«Ho appena finito di scrivere il testo che recepisce le indicazioni emerse nel tavolo tecnico con i vari ministeri e nel vertice politico dei giorni scorsi. Penso che la prossima settimana il disegno di legge possa andare in Consiglio dei ministri per l’esame preliminare».
Sarà un testo molto diverso da quello circolato finora?
«Sì, assolutamente. Quella era una bozza di lavoro, e credo che tutte le contestazioni sollevate su quel testo siano ampiamente superate».
Ci può anticipare qualche contenuto?
«La cosa cruciale, per me che sono sempre stato il fautore dei costi e dei fabbisogni standard, è che in questo testo si supera il criterio della spesa storica. È una svolta epocale».
Si riteneva che quel criterio avvantaggiasse le regioni del nord.
«E ora non è più sul tavolo. Poi uno può dire che avvantaggia questo o quello, ma la spesa storica non c’è più».
Quindi si passa al criterio dei costi standard?
«E dei fabbisogni standard. Attenzione, perché i costi e fabbisogni non sono la stessa cosa. Però non so se si può spiegare in un’intervista…»
Proviamoci, almeno per sommi capi.
«Il costo standard si riferisce al costo di una funzione. Il fabbisogno standard è il costo per quella funzione, calato in un contesto geografico e demografico. Un esempio banale: se mi serve una siringa, il servizio sanitario deve garantirla a un dato costo. Però un conto è portare quella siringa (o meglio ancora: erogare un certo servizio) nel centro di Milano o di Cagliari, un altro è farlo in un Comune montano sardo o dell’Alta Val Seriana. Il costo di quella siringa o di quel servizio cambia. Ecco, quello è il fabbisogno».
Il nuovo testo tiene conto di questi aspetti?
«Li pone come condizione. Abbiamo messo come presupposto del trasferimento di competenze alle regioni la definizione non solo dei livelli essenziali delle prestazioni, ma anche dei costi e fabbisogni standard. Se non c’è, le funzioni non vengono trasferite».
Questo potrebbe rallentare le autonomie differenziate già in itinere?
«Mi sono portato avanti: nella legge di stabilità ho messo la cabina di regia, tra tutti i ministeri e i soggetti tecnicamente competenti, perché entro un anno si stabiliscano i livelli essenziali delle prestazioni e i relativi costi e fabbisogni standard. Per cui, alla fine dell’anno che prevedo necessario per approvare la legge di attuazione, dovremmo avere contemporaneamente le definizioni di quei requisiti».
Si dice però che sull’autonomia FdI e Forza Italia stiano frenando.
«Non mi interesso di ciò che si dice: io ho predisposto un testo come base di partenza. Abbiamo fatto i confronti tecnici, l’altro giorno abbiamo fatto il tavolo politico, io ho prospettato le possibili soluzioni, abbiamo raggiunto un accordo fra tutti, e ora ho messo per iscritto le soluzioni condivise. Per me non c’è contrasto, io vado avanti».
È comunque un testo aperto a modifiche da parte delle Camere?
«Ora ci saranno tutti i passaggi parlamentari e gli altri costituzionalmente previsti: al di là delle appartenenze politiche, se qualcuno mi chiede di cambiare qualcosa e mi convince, la cambiamo. Poi ovviamente ci sarà chi deve fare la guerra a prescindere».
Però sarebbero autonomie forse più forti di quelle speciali, perché modificabili solo con l’intesa della regione.
«Per le speciali intanto bisogna far sì che le funzioni che voi già avete, ce le abbiate veramente. Col principio del coordinamento della finanza pubblica, la Corte costituzionale le ha limitate molto. Io non voglio andare allo scontro con la Corte, ma scrivere bene i principii, per evitare equivoci».
Anche le regioni del Sud temono che l’autonomia differenziata le danneggi.
«Lo ripeto per la centesima volta: se qualcuno trova un articolo, una riga, un comma in cui c’è un danno per una regione del Sud, me lo dica che lo cambio. Lo dico da un mese ma nessuno ha saputo indicarmi dov’è il danno. Anzi c’è un articolo scritto a quattro mani col ministro per il Sud, Raffaele Fitto, sulla perequazione e sugli interventi straordinari».
Ma se più autonomia vuol dire più risorse, dato che le risorse non sono infinite, qualcun altro ne perderebbe.
«No, no, no. Sono sciocchezze. Nella migliore delle ipotesi, alla regione che chiede più autonomia sono garantite le stesse risorse di prima, e a chi non la chiede non viene tolto un euro. Nessuno rischia niente. Anzi, spero che siano le regioni del Sud a scommettere sull’autonomia differenziata».
Perché dovrebbero?
«Perché quelle del Nord hanno già sviluppato le proprie potenzialità intorno all’85%, quelle del sud al 50. Se arrivano al 75-80, vivaddio, significa crescita del Pil e dei servizi, calo delle tasse … è questo che deve entrare nella mentalità delle regioni del Mezzogiorno, non piangere ma proporre. E se non lo fanno ne risponderanno ai cittadini».
È un ritorno alla sussidiarietà, quasi al federalismo.
«Il servizio gestito al livello più vicino al cittadino è migliore, perché si adegua alle necessità del cittadino. Però ritengo imprescindibile avere una fotografia delle risorse che ogni territorio ha ricevuto e di come le ha utilizzate».
Che cosa intende?
«Io voglio che siano definiti i diritti civili e sociali che deve garantire lo Stato, ancorché trasferiti alle regioni. Però c’è chi riceve 10 ed eroga servizi per 5, e chi con le stesse risorse riesce a erogarne per 15. L’Italia è come una locomotiva con tanti vagoni, e un altro locomotore dietro. Se tutti vanno alla stessa velocità, tutta l’Italia viaggia. Se qualcuno non spinge, o carica a bordo chi non paga il biglietto, l’Italia si ferma. Il Nord produce, ma utilizza buona parte del resto del Paese come soggetto consumatore: quindi ha ragione Zaia, siamo gemelli siamesi, non possiamo essere separati».
Finora il regionalismo non è servito ad attenuare le disuguaglianze tra Nord e Sud.
«Perciò dico: per ogni materia, vediamo le singole funzioni e definiamo un diritto civile e sociale, a cui deve corrispondere un servizio».
È il nodo dei livelli essenziali delle prestazioni. In concreto, cosa vuol dire?
«Le faccio un altro esempio semplice, che volutamente non c’entra con le differenze Nord-Sud. La carta d’identità serve a dimostrare di essere cittadini e godere dei vari diritti. Perché non prevedere nei Lep che debba essere rilasciata entro una settimana? Oggi ci sono Comuni che la consegnano al momento della richiesta e altri dopo 8-10 mesi. Per me il livello essenziale delle prestazioni è quello. Sono 22 anni che si aspetta di definirlo: io cerco di farlo e mi contestano il metodo? Io dico: discutiamo pure il metodo, ma alla fine facciamolo».
Da parte dei governatori del Sud ha registrato qualche interesse per l’autonomia differenziata?
«Beh, io ho la richiesta formale della Regione Campania, e discuto ormai settimanalmente col presidente De Luca: da posizioni differenti, magari litigando. In realtà non riusciamo neppure a litigare, perché poi ridiamo insieme. Però così mi ha dato dei contributi per migliorare il testo, e capire meglio le posizioni del Sud».
C’è un confronto utile anche con gli altri presidenti?
«Con tutti, direi. Ciascuno mi rappresenta i suoi problemi, diversi da regione a regione, e questo mi conforta ancor più sul fatto che le risposte debbano essere distinte, con un’autonomia differenziata. Ci confrontiamo su vari temi: le do un dato, negli anni 2000 la media delle leggi regionali impugnate dal governo era dell’87%, calata al 12% dal 2020. Da quando è in carica il nostro governo, abbiamo 105 decisioni di non impugnativa, una sola impugnativa e cinque rinunce di impugnativa».
Com’è stato possibile?
«Non certo perché le regioni abbiano visto accolte tutte le loro richieste, ma perché c’è un’interlocuzione su ogni legge. A volte da parte mia, personalmente. Dicendo magari: questo non regge, se non lo cambiate si va alla Corte costituzionale, con spese per lo Stato e la regione, e soprattutto incertezza normativa per i cittadini. Se io sono un investitore, col cavolo che investo in attesa che decida la Consulta».
In Sardegna il Piano casa è bloccato per questo.
«È una vicenda che precede il nostro governo. Ma il mio modo di interloquire mi sembra il miglior esempio di leale collaborazione, e riesco ad averla con quasi tutti i governatori. Poi capisco che siamo in un momento di difficoltà per il congresso del Pd …» .
Cioè è più difficile col presidente emiliano Bonaccini?
«Io conosco bene il testo sottoscritto dall’Emilia sull’autonomia. Rispetto quel che ora dice il candidato alla segreteria Pd, però bisogna ricordarsi di quello che uno firma».
Di recente ha incontrato anche il presidente Solinas: cosa vi siete detti?
«Lui lamenta dei limiti, per la propria autonomia, che io ho recepito perché sono autonomista per stirpe: mio nonno fondò nel 1950 il Movimento autonomista bergamasco, voleva creare Bergamo provincia a statuto speciale, mia nonna materna è dell’Alto Adige. Ma posso fare una considerazione non come ministro?»
Certamente.
«Lo scriva, però, che qui non parlo da ministro … Vede, detta fuori dai denti, secondo me la Sardegna è trattata in maniera peggiore rispetto a una regione a statuto ordinario».
Da chi? Dai governi?
«Non mi chieda nello specifico … Però è come se venisse considerata diversamente».
Anche per responsabilità della classe politica sarda?
«Beh, io ho incontrato tanti governatori, anche in passato. Ora Solinas viene e mi chiede: ma perché questa tal cosa non la posso fare? Perché io faccio una legge regionale, fotocopia di quella di una regione a statuto ordinario, e a loro non la impugnano mentre a noi sì?»
E lei cosa ha risposto?
«Che su questi aspetti sono disposto a impegnarmi io. Gli ho dato qualche suggerimento su alcuni problemi. Però non esiste che, tra le cinque regioni a statuto speciale, ci siano le “specialissime” e le altre trattate peggio delle ordinarie. Su questo in me troveranno una sponda assoluta».
Quindi lei si fa garante della piena tutela futura della specialità regionale?
«Le dico di più. L’autonomia differenziata è stata riconosciuta dall’articolo 116 della Costituzione nell’ambito della riforma del Titolo quinto. E la legge costituzionale del 2001 che ha varato la riforma prevede, all’articolo 10, che fino all’adeguamento degli statuti – cito a memoria – le nuove norme si applichino anche alle regioni speciali, laddove riconoscano più ampie forme di autonomia. Mi segue?»
Fin qui, sì.
«Secondo il mio pensiero, se una regione speciale non ha nel suo statuto delle competenze attribuibili a regioni ordinarie, anch’essa potrà richiederle senza modificare lo statuto. Consideri che tra le materie delegabili c’è la tutela di ambiente, ecosistema e beni culturali. Cioè, voi vi liberereste da ogni vincolo che finora ha ammazzato tante leggi regionali».
Quindi l’autonomia differenziata si applicherebbe anche alle regioni speciali?
«Sì, perché quell’articolo 10 non fa riferimento a un singolo articolo ma a tutto il Titolo quinto, compreso l’articolo 116. Significherebbe ottenere ulteriori forme di autonomia senza i quattro passaggi parlamentari delle revisioni costituzionali».
Ne ha parlato con dei costituzionalisti?
«Faremo ulteriori verifiche, però i primi riscontri lo confermano. Ne ho parlato anche con un ex giudice costituzionale ed è d’accordo».
Quale giudice?
«Beh, non le ho fatto nomi apposta. Comunque quel principio l’ho messo nel disegno di legge, io ne sono convinto».
Il principio di insularità in Costituzione può aiutare?
«Aiuta se è riempito di contenuti. La legge di stabilità 2023 crea per la prima volta un fondo apposito».
Molto limitato.
«Minuscolo, sono il primo a dirlo, i problemi finanziari del Paese li conosciamo. Però, simbolicamente, vuol dire che il governo capisce cosa comporta l’insularità in Costituzione. Poi non è solo trasferimento di risorse: si può ragionare di fiscalità di vantaggio, indennità aggiuntive per chi va a lavorare in un’isola, continuità territoriale eccetera».
È davvero ipotizzabile una fiscalità di vantaggio per aree così vaste?
«Sa, io ho la competenza sulle piccole isole, c’è una legge approvata da un ramo del Parlamento che intendo riproporre, con una fiscalità diversa e altre misure. E quando partirà il treno delle isole minori, cosa vieta di estenderlo alle maggiori? Nessuno si è mai preso carico di questi problemi, e mi spiace perché coi senatori sardi ho da sempre ottimi rapporti, indipendentemente dalle appartenenze politiche. Quando mi raccontano i vostri problemi, come l’assenza del metano, non posso che dargli ragione. Ma mi chiedo come mai finora nessuno ci abbia messo su la testa, ci abbia lavorato per davvero».