Gianni Filippini, 90 anni e tanto onore. Un compleanno, il mio affetto fra gli innumerevoli attestati di stima. Quanti articoli? Migliaia. Fra essi uno sul bel sardismo d’un tempo… di Gianfranco Murtas
A festeggiare il compleanno giubilare di Gianni Filippini – 90 sono molti e sono dono di provvidenza tanta lucidità e tanta energia che rendono onore e ancora spazi di lavoro a una personalità d’eccellenza della nostra contemporaneità sarda e cagliaritana – mi aggiungo anch’io ripensando a una relazione personale ormai di cinquant’anni. Dai tempi – 1971 – in cui, nella “pagina dei giovani” de L’Unione Sarda, curata da Gian Tarquinio Sini e con amici come i fratelli Lecis – Lucio ed Enrico – e Gigi Dessì e numerosi altri –, infilai i primi dei miei cinquemila articoli venuti poi nei mesi e negli anni. Fu allora per dire e motivare, da adolescente, il mio europeismo mazziniano, sull’onda anche emotiva di un recentissimo incontro cagliaritano con Ugo La Malfa… Nel 1976, lui – Filippini – vice di Fabio Maria Crivelli – impaginò come editoriale una mia riflessione sui risultati delle elezioni politiche svoltesi nel giugno, che asciugarono drammaticamente l’area democratica laica assegnando a democristiani e comunisti i tre quarti dei seggi parlamentari. Condivisero allora, Crivelli e Filippini, Filippini e Crivelli, la tesi sostenuta: nel rammarico per l’avarizia elettorale verso quelle formazioni riformatrici alle quali entrambi i direttori potevano fare ideale riferimento, fra liberalismo e liberalsocialismo, riformismo e sentimento nazionale, lontani ambedue da appartenenze partitiche, sembrava auspicabile una maturazione laico-liberale della DC e uno sviluppo della tensione occidentalista ed europeista (tre anni prima delle elezioni finalmente a suffragio universale per il Parlamento di Strasburgo) del PCI, leale con la NATO e inequivocabilmente amico del diritto di Israele a vivere in pace.
Salto gli anni e i decenni durante i quali non mancò mai l’ospitale accoglienza, in prevalenza da parte sua ma poi anche da altri amici de L’Unione – da Giorgio Melis a Vittorino Fiori, da Carlo Figari ad AntonAngelo Liori, da Giancarlo Ghirra a Maria Paola Masala, da Massimo Crivelli a Lucio Salis… senza dire, naturalmente, nei remoti anni ’70, del direttore Crivelli –, di contributi episodici, ora anche per la pagina culturale o delle recensioni librarie ora del sociale (dramma droga e AIDS).
Trasferito dalla responsabilità di direzione redazionale a quella di direzione editoriale (e alla presidenza di Videolina), nei primissimi anni ’90 – vigilia della sua nuova esperienza come assessore (tecnico) alla Cultura dell’amministrazione Delogu – Filippini fu consulente e delegato alle pubbliche relazioni per conto del CIS allora a direzione generale Di Martino. Con un’agenda nuova e meno pressante potei dunque chiedere a lui una collaborazione che fu nuova e libera anch’essa. Quella di scrivere su certi materiali d’archivio che mi premuravo di fargli avere relativamente ad una stagione politica della Sardegna che segnò evidentemente la nostra storia nel passaggio dalla dittatura fascista alla democrazia e addirittura alla repubblica, e alla repubblica delle autonomie. Così scrisse lunghi e bellissimi articoli nella collana “documenti e testimonianze” dedicati al sardoAzionismo: “Nella trincea di Terrapieno” (in Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano, 1990), “Le geometrie del Brancaccio” (in Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, 1990), “I mali oscuri del Partito d’Azione” (in Bastianina, il sardoAzionismo, Saba, Berlinguer e Mastino, 1991), “Quegli avvocati con l’hobby del giornalismo” (in Titino Melis, il PSd’A mazziniano, Fancello, Siglienti, i gielle, 1992). Di più: gli chiesi anche un contributo per il volume “Con cuore di sardo e d’italiano”… Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana, 1993, ed egli mi offerse le lucidissime pagine di “L’avvocato di un intero popolo” che potei impaginare, unitamente ad un articolo di Lello Puddu, in un capitolo titolato “Per l’unità morale e delle opere”.
Ebbi con me Gianni Filippini anche quando cantierai un volume in onore di Giovanni Spadolini e Bruno Visentini, che poi presentammo (era il 1996) all’auditorium del CIS: Per Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Il suo articolo titolava “Quell’irreale arcobaleno in cielo ed il militante del dovere”. Il giornalista e direttore di giornale che giudicava il collega divenuto presidente del Consiglio dei ministri per prepotente (e santa) volontà del presidente Pertini.
Né soltanto di scritti si trattò: perché per diversi di questi libri ed anche di successivi (fra essi ricordo, agli Amici del libro e insieme con Antonio Romagnino e Giuseppina Cossu Pinna, 1946, l’anno della Repubblica, uscito nella ricorrenza cinquantennale) egli si fece premura non soltanto di assicurare la partecipazione alla presentazione, ma anche un ruolo attivo, come recensore. Cambiavano le sedi, ora associative ora istituzionali, ma egli, generoso sempre, come un generale che non sente disonore nel… condividere il rancio con la truppa, mai si negò alla chiamata: alla Camera di Commercio per il volume Ugo La Malfa e la Sardegna (1989, con Romano Cannas, Giancarlo Ghirra e Filippo Peretti) come in municipio per Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano (1990, con Malio Brigaglia e Paolo De Magistris)…
E’ una storia lunga questa della nostra consuetudine di cagliaritani nati a Stampace e alla Marina e fattisi poi villanovesi, fra sa butanica e San Lucifero… Storia di incontri – quante sono state le conversazioni registrate, per “Sardegna d’autore”, ora negli studi di Videolina ora nella mia biblioteca! – o in convegni all’Universitaria, al Banco di Sardegna e altrove… Di recente ci siamo coinvolti entrambi nel “cantiere” di Ovidio Addis: ho completato la curatela del volume Usciamo dalla solitudine, la leggenda è finita (e presentato in Archivio di Stato) e soltanto il covid ha impedito ad entrambi di sviluppare il programma che prevedeva presentazioni anche agli Amici del libro, in casa massonica e altrove.
Sono righe, queste, strappatemi oggi, sul filo di una memoria (molto molto) riassuntiva e con emozione, dalla ricorrenza del calendario. Per confermare a Gianni Filippini, con la gratitudine per la sua vicinanza sempre cordiale e affettuosa, la stima grande per la sua persona, l’ammirazione per la sua professionalità e il suo galantomismo. E dedicare a lui, idealmente, la prossima fatica che, guardando al nostro Ottone Bacaredda celebrato nel centenario della morte, nuovamente m’accosti, sull’esempio illuminato dei nostri Francesco Alziator ed Antonio Romagnino, alla storia civile della nostra Cagliari rivissuta nelle trasformazioni sociali e moderniste ma sempre ancorata ad un’identità mai smarrita.
Dando ogni onore oggi a Gianni Filippini ho pensato di riproporre un suo scritto fra quelli sopra evocati. SI tratta di un ripasso fra alcune figure dell’eccellenza politica sarda e sardista.
Io sono repubblicano, azionista e mazziniano, ed ho avuto ed ho del sardismo la percezione, e direi l’esperienza morale e ideale come di una traduzione regionale dei postulati della miglior cultura democratica italiana, mazziniana e cattaneana, come la vissero i militanti della vecchia scuola. Dico: i veri sardisti, né nazionalitari né indipendentisti, secondo il sentimento di Camillo Bellieni e anche, pur con tutti i suoi carichi ideologici verso il socialismo classista, di Emilio Lussu. Ho amato figure di altissimo profilo etico-civile oltreché intellettuale, come Titino e Mario Melis, come Anselmo Contu che ventunenne celebrò Mazzini a Cagliari, come Luigi Oggiano professatosi mazziniano sino alla fine e Pietro Mastino… e quanti altri di quella generazione ora quasi (drammaticamente) dimenticata e rimossa da un PSd’A fattosi penosamente paraleghista, rovesciato cioè.
Da liberale sempre attento alle vicende del mondo ricco ed affascinante della Chiesa, sensibile non di meno – con tutte le cautele del caso – alle tematiche dell’autonomia speciale e delle relazioni Stato-Regione, con Filippini mi incontrai facilmente nelle riflessioni sulla condizione della nostra democrazia, della politica e delle istituzioni troppo spesso scadute di efficienza perché avvelenate di dottrinarismi smodati e, infine, senza sostanza. Non si è mai trattato di perdersi nella retorica del “meglio prima”, ma certo è che, sulla scena nazionale, in uomini come Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi, De Gasperi e Saragat, Spadolini e Parri avvertivi il senso dello stato che oggi disperato cerchi in ogni dove senza trovarlo, e sulla scena regionale, in uomini come i Melis e i Contu o i Soggiu, come Alfredo ed Efisio Corrias, come Asquer e Pirastu, Dessanay e Peppino Catte trovavi quella responsabilità del bene comune che oggi fatichi a individuare in uomini e partiti, in maggioranze e minoranze…
Gianni Filippini: «Quegli avvocati con l’hobby del giornalismo»
Emilio Lussu la buttava giù pesante, però non aveva tutti i torti. Dura polemica a parte, cioè, ad un certo punto della sua storia – e in fin dei conti non soltanto in quel punto – il Partito Sardo d’Azione ha avuto per dirigenti quasi esclusivamente avvocati. E veramente, per riprendere la maliziosa e provocatoria battuta di Lussu, avrebbe potuto «comodamente tenere le sue riunioni in una sala del palazzo di Giustizia». In una sala – avrebbe dovuto aggiungere Lussu – del Palazzo di Giustizia di Nuoro o di Sassari. Magari, forzando un po’ la situazione, di Oristano. Ma non di quello cagliaritano: certo palcoscenico di tanti trionfi professionali ma in fondo estraneo all’ambiente di nascita e di vita della maggior parte dei componenti quella pattuglia di valorosi avvocati e prestigiosi leader sardisti.
Nella sua sortita (tesa a denunciare quella che secondo lui era la perdita di identità del partito) Emilio Lussu ce l’aveva, in particolare, con Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Sebastiano Puligheddu, Gonario Pinna, Piero Soggiu, Anselmo Contu e «la famiglia Melis che da sola vale quattro buoni avvocati». Ma, evidentemente, altri ne sottintendeva quando gridava che «il vecchio Partito Sardo d’Azione è un partito di clientele attorno ad avvocati onesti e celebri, professionalmente valorosi». Perché considerava il grande seguito di questi personaggi – ma era giudizio politico oppure critica contingente? – soltanto una conseguenza dei successi forensi.
Lussu, per dar corpo alla sua polemica, partiva da una constatazione obiettivamente esatta. Era però del tutto soggettiva, e sbagliata, l’interpretazione che ne ricavava. Il prestigio di quegli avvocati non si fondava infatti soltanto sulle loro doti strettamente professionali certamente fuori discussione («… la clientela dell’onorevole Pietro Mastino a Nuoro: 5.000 assoluzioni in Corte d’Assise in quarant’anni di professione lo farebbero riuscire deputato anche da solo»). Molte erano le ragioni – umane, culturali e politiche – del vasto consenso popolare goduto dai personaggi che Emilio Lussu attaccava, pur stimandoli e rispettandoli. Tutti o quasi tutti, per esempio, erano anche dei buoni pubblicisti. Cioè, non soltanto erano robusti, ascoltati oratori (nelle aule di giustizia e altrove) ma, in complesso, anche giornalisti di apprezzabile livello. Le idee, insomma, sapevano farle camminare pure con la penna.
Anche se non è del tutto lecito, i loro scritti si possono forse rileggere oggi in questa chiave particolare: la curiosità di accertare specifiche capacità nel comunicare, nello stabilire un effettivo ed efficace rapporto con i lettori e, quindi, con i seguaci politicamente già conquistati o da conquistare. Una sorta di esercitazione accademica con molti e dichiarati limiti obiettivi (da sommarsi a quelli di chi scrive).
La “ricerca”, intanto, è relativa ai soli Antonio Bua, Anselmo Contu, Luigi Oggiano, Luigi Battista Puggioni, Bartolomeo Sotgiu e Piero Soggiu (qui richiamati in ordine alfabetico con la sola anteposizione di Sotgiu a Soggiu, a motivo della maggiore anzianità del sassarese, che fu con Puggioni il rifondatore del “Solco” e suo redattore-capo nel 1945, mentre la presenza dell’esponente di Oristano si farà più assidua negli anni successivi alla scissione del 1948, anche come “voce radiofonica” del Partito Sardo d’Azione. Di ciascuno di questi personaggi si prendono in considerazione una media di cinque o sei scritti (complessivamente, quindi, poco meno di una quarantina di articoli o brevi saggi): pochi per una valutazione veramente fondata, ma forse sufficienti per estrarne un’indicazione sul “valore giornalistico” di quegli avvocati con clientele così vaste da fare imbufalire Emilio Lussu. Il tempo trascorso dalla pubblicazione – circa cinquant’anni – va ovviamente tenuto presente: anche se alcuni conservano una straordinaria attualità e freschezza, gli articoli – spesso lunghi, come s’usava – hanno nella data un forte condizionamento sostanziale e formale. E tuttavia alcuni anticipano il miglior stile giornalistico d’oggi.
L’antologia consultata ha, con larga prevalenza, la sua fonte nel settimanale del Partito Sardo d’Azione, “Il Solco”, anche se non sono mancate puntate su altre testate degli anni dell’immediato post-fascismo.
Vediamo, comunque. Una prima considerazione è giocata ancora sul fatto che Antonio Bua, Anselmo Contu, Luigi Oggiano, Luigi Battista Puggioni, Bartolomeo Sotgiu e Piero Soggiu sono avvocati: in diversa misura ma in pratica senza eccezioni i loro scritti risentono formalmente delle abitudini professionali. A cominciare dall’uso di un italiano medio-alto (ma senza diffuse “arroganze” da vocabolario d’élite) e dalla capacità, in genere, di sviluppare anche nelle polemiche politiche argomentazioni lucide ed efficaci. In tutti si avverte il rigore morale, anche quando illustrano programmi discutibili hanno l’evidente preoccupazione di rispettare la collettività. Sì, talvolta accade che parlino fra di loro, ma quasi mai lo fanno sopra la testa delle masse, piccole o grandi che siano, alle quali intendono rivolgersi e con le quali intendono dialogare.
Non per tutti, ma quasi, la citazione colta, in latino o da autori classici, è poi una costante, un riflesso del bagaglio culturale e del quotidiano esercizio oratorio. Per gusto personale o d’epoca non mancano, qua e là, le concessioni alla retorica d’effetto (Anselmo Contu: «Noi sappiamo che cosa ci resterà da fare il giorno in cui un nuovo Cola di Rienzo tenterà di marciare sulle schiene prone degli schiavi continentali per ascendere – onusto di medaglie e di pennacchi – l’eterno Campidoglio e l’augusto Quirinale». Bartolomeo Sotglu: «Poiché in Italia non vi potrà essere mai un governo capace di conciliare gli interessi della Sardegna – i veri interessi – con quelli del Nord, noi non saremo mai altri che il Partito Sardo d’Azione. Un blocco granitico di cuori fraterni contro il quale si infrangerà tutta la sozza canea che ora ci insulta e ci odia perché abbiamo detto alto e chiaro, non preoccupati di interessi elettoralistici o inconfessabili, quale fosse la via che il Popolo Sardo deve percorrere se vuol giungere a salvamento». Antonio Bua: «Se è vero e serio poter richiamare e far proprie le argomentazioni di un’altra persona, il sostenere l’utopia di una tesi, solo e in quanto da altri è stato, sic et simpliciter, asserito, è ricadere nel feticismo di nefanda memoria fascista». Luigi Battista Puggioni su Lussu appena uscito dal Partito Sardo d’Azione: «Emilio Lussu appare oggi come l’albatro di Baudelaire, il grande sovrano dei cieli azzurri che, abbattuto sulla terra, si muove maldestro e impacciato, trascinando pietosamente le vaste ali bianche»).
Fra le caratteristiche di rilievo metterei anche il coraggio. La pubblicistica – in generale e in particolare nell’attività di questi personaggi – riversava sulla pagina scritta temperamento, forza e rigore. Allora più di adesso. Non va dimenticato che sono uomini politici e che sono protagonisti in prima persona di idee, ansie, aspirazioni, ripulse, sentimenti finalmente portati in piena luce dopo la lunga stagione della libertà negata. Forse anche per questo poco o nulla di sotterraneo scorre normalmente nei loro scritti (Anselmo Contu: «Noi ci auguriamo che le umilianti ripulse consiglino a tutti la via della dignità e della fierezza: noi l’abbiamo indicata, con vigile senso di responsabilità politica, sicuri come siamo che l’ora della Sardegna – a dispetto delle conventicole occulte e palesi – sta per suonare». Luigi Battista Puggioni, in un articolo del novembre 1943 scritto per “L’Isola” a commento dell’estremo, tragico tentativo di Mussolini per mantenere in vita il regime fascista: «Mentre noi ci serriamo il cuore con le mani e stringiamo i denti per non scoppiare in singhiozzi e mantenere la nostra compostezza virile, lui, il grande miserabile, il buffone tragico, resta chiuso nel suo gelido egoismo e sogghigna con la possente mascella animalesca, pauroso e pavido fantasma insanguinato». Luigi Oggiano: «Dappertutto, nonostante il lamentato conformismo, è un sordo ribollire, ed è come se una voragine siasi aperta nel suolo patrio a dividere animi e interessi e ragioni di vita: da una parte i prediletti, dall’altra i reprobi. Si arriva ad affermare che le forze del lavoro devono riprendersi e organizzare dalle parrocchie e nelle parrocchie, come ad invitare anche in questo campo a praticare la intolleranza e la guerra di religione»).
I “pezzi” migliori, quelli che meglio si prestano ad essere retrodatati, cioè ad una lettura – dopo tanti anni – più coinvolta e interessata, sono gli articoli di confronto ravvicinato con una persona o un gruppo. Talvolta i toni sono, od appaiono, da vero e proprio scontro (Luigi Battista Puggioni, in un articolo del novembre 1945: «Siamo in regime democratico – così almeno si va dicendo – ed a ciascuno è lecito esporre liberamente le proprie elucubrazioni, ma, se fossimo in regime autoritario ed io avessi poteri da dittatore, non essendo di temperamento sanguinario, il meno che farei sarebbe di far appendere per i piedi per alcune ore tutti codesti imbecilli farneticanti». Ancora Puggioni in polemica con Renzo Laconi: «Il richiamo è fatto a sproposito e dimostra che il professor Laconi non ha compreso bene il pensiero di Carlo Marx»).
Quasi sempre sono confronti diretti, a bersaglio bene individuato, malgrado talvolta compaiano sulla scena, a tentare inutilmente di far da paravento, pseudonimi e sigle. Anche le polemiche interne al partito hanno in genere il supporto della vivacità formale. O magari quello della durezza (Piero Soggiu: «Il Partito Sardo ha saputo e potuto resistere più unito che mai all’uscita di vecchi compagni di lotta trentennale. Con grande dolore certamente; ma con fermezza ammirevole. Segno di maturità politica e di vitalità che ben a ragione ci può essere invidiata. Ne prendano atto tutti coloro che si apprestano, da anni ormai, a banchettare sulle spoglie del Partito Sardo d’Azione e che regolarmente restano delusi». Bartolomeo Sotgiu: «Può la Sardegna bastare a se stessa? Ecco una domanda che “circola” tranquillamente, ora abilmente lanciata da un “soliloquio” liberale, ora insinuata da avversari, ora diffusa da cretini: e circola come le famose frasi stentoree del duce, “Credere, obbedire, combattere” o “nudi alla meta”. Qui abbiamo un’affermazione, là un interrogativo ma è la stessa cosa: idiozie le une e le altre. Ora sarà bene che questi signori li prendiamo una buona volta per il bavero della giacca e li obblighiamo a discutere»).
Vivacità che però talvolta finisce per smarrirsi in una scrittura involuta, tortuosa (Antonio Bua: «Se è vero e possibile che in un partito politico possano convogliarsi persone di diverse tendenze, e ciò denota maturità ed educazione politica, è vero anche che la sana critica, per non trascendere al malevolo pettegolezzo, non debba intaccare la purezza degli intenti e della sua fede, accusandolo di proselitismo, ma sarà salutare ed efficace solo nel caso colpisca, non già la tendenza di una persona o di un gruppo di persone ma il contenuto ideologico formante compendio dei postulati del suo programma»).
Con qualche eccezione, è un dirsi le cose in faccia e fuori dai denti. Se si deve “sparare” lo si fa con la consapevolezza che dall’altra parte si farà altrettanto. Raramente però si affida l’ovvia volontà di mettere in difficoltà l’interlocutore, o magari di sopraffarlo, alla violenza dell’urlo, alla volgarità del tono troppo alto (Piero Soggiu: «Quanto a coloro che si sono allontanati per non aver voluto accettare la volontà della maggioranza, che è legge di ogni democrazia, è chiaro che essi si sono posti definitivamente fuori dal partito. Ci addolora profondamente l’abbandono. Più ci addolora che essi siano usciti dalle nostre file sol perché non sono riusciti ad imporre ai più la volontà dei meno. Li salutiamo ugualmente con rispetto…»). Spesso, a colpir di fioretto, fanno capolino il sarcasmo sottile e le battute pungenti (Bartolomeo Sotgiu: «Viviamo come in sogno. Sino al ’22 non ci furono che i sardisti a parlare di autonomia della Sardegna, e tutti gli altri contro. Un coro magnifico, di grande effetto. Blocco, liberali, democratici, riformisti, socialisti, comunisti, pipisti, fascisti. I repubblicani ci davano ragione? Ma se sono quattro gatti! E di lì non si usciva: quattro gatti e quattro mori». Antonio Bua: «Finisci così per essere anche tu un sognatore, uno degno di “Villa Clara”, o meglio di “Rizzeddu”, come modestamente lo sono anch’io»).
Alcuni scritti sollevano lo sguardo al di là della Sardegna e della stessa Italia. In qualche caso la conferma del notevole livello di questi uomini politici viene da loro considerazioni e visioni in largo anticipo sui tempi (Luigi Oggiano: «I popoli ancora affamati, ancora indecisi, sbattuti o travolti da una dolorosa realtà, che fa apparire inutile o troppo lontano il più onesto, fecondo e ristoratore disegno di redenzione, stanno col flato sospeso nella speranza che col diritto – quale i puri lo intendono – trionferà senza indugi il buon senso, e tuttavia nel timore che ancora una volta vi siano spergiuri e diritto e buon senso siano sopraffatti». Luigi Battista Puggioni: «A sentirli si dovrebbe credere che il comunismo ha buttato a mare tutto il programma elaborato attraverso un secolo nella dottrina e nella pratica, e che soli custodi del materialismo storico siano rimasti i vecchi socialisti. Ma se marxismo, lotta di classe, dittatura del proletariato sono concezioni ormai superate e ripudiate perché continuano costoro a chiamarsi comunisti?»).
Di forma e sostanza particolarmente interessanti e culturalmente, politicamente più coinvolgenti sono senza dubbio gli articoli che questi leader dedicano ai nodi centrali del pensiero e dell’azione sardista. I complessi, delicati temi dell’autonomia, dell’indipendentismo, dell’autogoverno, del separatismo vi sono dibattuti con comprensibile impegno, ma anche – per quella sorta di destino che sembra imporre al PSd’ Az. i ricorrenti travagli di tante anime – con una diversità di posizioni (Antonio Bua: «Separatismo non significa isolamento economico e tanto meno autarchia economica, ma un più largo respiro di scambio e di rapporti commerciali, in un clima di libertà e di non bardatura pesante doganale, con tutto il mondo». Anselmo Contu: «Dopo tanto discutere di autonomia, di regione, di self gouvernement, è veramente desolante constatare come gli occhi dei Sardi, dei politici sardi, guardino ancora a Roma come alla corte dei miracoli, ove si dovrà compiere anche il miracolo della redenzione dell’Isola. Per questo popolo Sardo si predica che il miracolo non sarà e non dovrà essere frutto della sua azione diretta in Sardegna, ma regalo delle grandi organizzazioni politiche continentali profondamente commosse per i molti suffragi ottenuti da noi». Luigi Oggiano: «Penso che il popolo, il quale da tanto reclama l’autogoverno, si renderà conto della prova ma che, dato il momento e la forma in cui l’esperimento si attua, sarà, rispetto alla prova, più spettatore che attore». Piero Soggiu: «Parlare ancora contro l’autonomia significa tornare irrimediabilmente indietro. Significa confessare che partiti ed uomini responsabili hanno proceduto finora senza convinzione o che non vogliono accettare ciò che il corpo elettorale ha deciso… Democrazia a rovescio… Mentalità dei pavidi che, per paura, si condannano all’inerzia od a servire»).
Infine, il livello giornalistico di alcuni scritti è da considerarsi decisamente alto. Richiamo, come esempio che altri ne comprende, un articolo di Luigi Battista Puggioni – pubblicato, fra gli inediti, da Luigi Nieddu nel suo volume dedicato anni fa al leader sassarese – che racconta l’uscita di Emilio Lussu dal congresso sardista e dal partito. Divertito e malizioso, ironico e sferzante ha lo stile di una moderna “cronaca di colore”, il respiro forte di un buon elzeviro, il ritmo di una sceneggiatura cinematografica o di un copione teatrale: «Afferrò una bandiera dei Quattro Mori, la strinse fortemente al cuore e, accarezzandosi nervosamente il pizzo storico, con voce alta e tagliente, proclamò: “Questa bandiera è mia, né alcuno v’è che me la saprà strappare!”. Un silenzio solenne, e già si alzava lo scroscio torrenziale degli applausi. Ma un servo sciocco, mal comprendendo il significato profondo della frase fatale, pavido per le sorti del padrone, lo avverti che non sua era quella bandiera, ma della Sezione di Sinnai. Ne fu turbata e scossa la serenità dell’artista. E pur non abbandonò l’impresa; raccolse le estreme energie e, gettato il drappo di Sinnai, un altro ne impugnò, più grande e tutto nereggiante di mori, e agitandolo disse: “Con questa bandiera di Monserrato… “. Fu inutile. L’incanto si era rotto. Per la vasta sala già zampillava fresco e divertito l’umorismo sereno di un pubblico smaliziato. E allora se ne andò. Pallido d’ira».
Davvero mi sembra un’attendibile testimonianza sulla possibilità di essere, contemporaneamente, buon avvocato, buon politico e buon giornalista.
Schede dei sei esponenti del Partito Sardo d’Azione “indagati” nella loro cifra di pubblicisti (collaboratori del “Solco”) da Gianni Filippini:
Antonio Bua:
Originario di Oschiri, classe 1894, laureatosi nel 1921, magistrato dal 1925 al 1931, quindi libero professionista. Direttore provinciale sardista a Sassari negli anni immediatamente successivi alla guerra. Sostenitore di una linea tendenzialmente separatista, nel 1944 si confronta in una dura polemica, sulle pagine di “Riscossa”, con il leader repubblicano Michele Saba (Chilone Chilonide). Scintilla dello scambio dialettico le discussioni svoltesi a Macomer, al VI congresso regionale sardista. «La Sardegna non è una nazione ma un popolo e conseguentemente, perché assurga a tale privilegio E’… è sufficiente una coscienza regionale che, come tale, è matura quando sia acquisita la consapevolezza non soltanto dei propri doveri ma soprattutto dei propri diritti» (così nell’articolo “Separatismo e separatisti” del 21 agosto 1944).
Anselmo Contu:
Ogliastrino, nato ad Arzana nel 1900, fondatore a Cagliari nel 1921 dell’organizzazione giovanile sardista denominata “Giovane Sardegna” (in rappresentanza della quale parteciperà ai congressi sardisti del 1921 e del 1922). Direttore del “Solco” quotidiano negli anni ’20, fino alla chiusura forzata del giornale da parte del fascismo. Arrestato nel novembre 1930 nel quadro della retata contro gli esponenti di GL, sconta in carcere a Roma alcuni mesi di detenzione. Dal 1945, è consultore regionale, occupandosi particolarmente del progetto di ordinamento autonomistico. Fra 1944 e 1946 è prima vice presidente della Deputazione provinciale di Nuoro e quindi deputato provinciale. Dopo le dimissioni di Giovanni Battista Melis a seguito della sua elezione parlamentare nel 1948, assume nuovamente la direzione del “Solco”.
Luigi Oggiano:
Nato a Siniscola nel 1892, studia a Nuoro ed a Sassari, e quindi a Torino e a Modena (studente lavoratore), laureandosi infine nell’ateneo turritano. Dopo il praticantato alla scuola forense di Ciriaco Offeddu, apre studio a Nuoro, distinguendosi per la sua umanità e meritando per tutta la vita professionale il titolo di “avvocato dei poveri” Combattente nella prima guerra mondiale, ferito, è più volte decorato al valore militare. Tra i fondatori del Movimento dei combattenti, presiede la sezione nuorese ed entra nel Direttorio regionale che guiderà per qualche tempo. Partecipa anche alla fondazione del Partito Sardo, dichiarandosi contrario all’ipotesi ventilata fra 1922 e 1923 di confluenza nel Partito Nazionale Fascista. Già consigliere provinciale cli Sassari (in rappresentanza del mandamento baroniese), rinuncerà forzatamente all’impegno politico nei lunghi anni del regime, costituendo con Mastino e Pinna un coerente punto di riferimento di inalterata devozione agli ideali democratici, nonostante la cattività. Leader del CLN nuorese e del sardismo provinciale, nel 1948 viene eletto senatore della Repubblica.
Luigi Battista Puggioni:
Ozierese, classe 1893, rappresenta con Camillo Bellieni l’anima “salveminiana” (liberista e antiprotezionista) del sardismo inteso come corrente del più largo movimento meridionalista. Anch’egli combattente nel primo conflitto mondiale è ferito e decorato al valore militare, ed è tra i fondatori del Movimento che riunisce i reduci e direttore de “La Voce dei Combattenti”. Fermo nella pregiudiziale democratica all’interno dell’ANC, sosterrà questa linea anche all’interno del Partito Sardo nel periodo in cui si tesse la trama dell’operazione Gandolfo. Patisce soprusi nella professione ed anche violenze fisiche dal fascisti. Fiduciario del Partito Sardo, organizza la convocazione del VI congresso a Macomer, nel luglio 1944. Eletto direttore regionale, è confermato nella successiva assemblea di Oristano. Si dimette dalla carica nell’autunno 1945, a seguito della nomina a consultore nazionale da parte del Governo Parri. Rifondatore e direttore del “Solco” settimanale nel 1945.
Bartolomeo Sotgiu-Pesce:
Nato a Sassari nel 1902, si laurea a Bologna, è massone ed esercita la libera professione fino al 1936. Assume quindi la conduzione dell’azienda agraria familiare. Coerente antifascista negli anni del regime (considerato “elemento pericoloso”), è redattore-capo del “Solco” nel 1945. Interprete di una linea di specialità autonomistica, avversario del patto con gli azionisti (così si pronuncia al congresso di Macomer, opponendosi all’ordine del giorno possibilista del centro mastiniano), sostiene con Puggioni le posizioni di un sardismo liberista ed antisocialista.
Piero Soggiu:
Originario di Ghilarza, classe 1904, laureatosi all’Università di Torino (allievo di Luigi Einaudi), consultore regionale dal 1945 al 1949, assume la stessa direzione politica del Partito Sardo dopo le dimissioni di Giovanni Battista Melis nel 1948. Contrario anch’egli al patto fra sardisti ed azionisti (sia al congresso di Macomer che successivamente) e sostenitore invece di una linea di stretta autonomia politica ed organizzativa del Partito Sardo d’Azione, viene eletto nel collegio di Cagliari al primo Consiglio regionale della Sardegna, ed assumerà l’incarico di assessore all’Industria, anche in virtù della sua notevole competenza economica.