Perché troppo spesso ci siamo vergognati di essere sardi? Ce lo spiega il mitico Placido Cherchi.

Articolo pubblicato il 2 gennaio 2012, nel sito di 'Vito Biolchini', (nella foto, al lavoro in Radiopress). Vito Biolchini, giornalista e scrittore (n. Cagliari 1970). Tra i suoi scritti: Sardegna. Fatti e persone 1992 (con Giovanni Ma¬ria Bellu), 1993; Estate 10 o della distru¬zione dei casotti) (con E. Turno Arthe¬malle), 1999; Le irregolari (con E. Turno Arthemalle), 2000; Oggi smontiamo l'Anfiteatro (2011).

 

 

Sì, è vero, a tutti è capitato almeno una volta, è inutile negarlo. Ci siamo vergognati della nostra sardità, della nostra lingua. Le nostre madri ci hanno proibito di parlare in sardo perché ricordava loro i tempi della povertà da cui noi figli dovevamo emanciparci. La lingua italiana invece era quella della modernità, dell’ascesa sociale.

E la nostra cultura? Quante volte ci siamo sentiti inferiori nel confronto con gli altri, con i “continentali”? Tante. E perché è successo? Se siete curiosi di conoscere la risposta, armatevi di pazienza e leggete questo bel saggio di Placido Cherchi dal titolo “Due o tre cose, per decidere di essere sardi” e pubblicato sul sito della Fondazione Sardinia.

Non lasciatevi spaventare dalla prosa di Placido (peccato non averlo avuto professore al liceo, sono capitato nella sezione sbagliata; ma vi assicuro che le lezioni della moglie, mia docente di storia dell’arte, erano ugualmente al limite della comprensibilità per noi ragazzini di 14 anni; ma quel linguaggio quasi esoterico era necessario; e l’ho capito dopo, riconoscente). Alcuni passaggi sono effettivamente ardui per chi non è abituato a saggi di natura scientifica etno-antropologica. Ma andate fino a in fondo e non resterete delusi.

Perché Cherchi offre un’analisi molto interessante che parte dalla struttura propria del capitalismo (devastante nei confronti di tutte le minoranze che possono costituire un ostacolo alla circolazione delle merci), tocca le origini orientali della nostra cultura (in particolare richiama le influenze bizantine) e analizza la capacità dei sardi e di mettersi in ascolto.

Un’analisi resa viva dai suoi ricordi di di ragazzo di paese (Oschiri, per l’esattezza), dove nel secondo dopoguerra un padre legato alle tradizioni sarde cerca di difendere i figli dalla deriva modernista che arriva grazie alla costruzione della centrale idroelettrica sul Coghinas.

Cherchi delinea i contorni di una identità “debole”, e “basta un nulla per indurci a preferire il mondo del nostro interlocutore di turno, piuttosto che quello che abbiamo alle spalle”.

“Non so se si percepisce fino in fondo la portata del torto che il sardo fa a se stesso vergognandosi di essere sardo” continua. “Ma ancora più odioso è l’atteggiamento di coloro che escono dalla sindrome riaccettandosi attraverso gli occhi degli altri”.

Ma allora, perché ci vergogniamo di essere sardi?

Per strano che possa apparire – anche la “vergogna di sé” è una conseguenza della nostra raffinatezza, e deriva in modo più o meno diret­to dallo stesso tipo di ragioni che mettiamo in campo quando si tratta di fronteggiare sulla base di ben altra nobiltà la banale mitologia che seduce la maggior parte dei sardi. (…) Proprio la capacità di comprendere l’altro e di saper accettare le sue ragioni è diventata una condizione che ha contribuito a indebolire la nostra identità, almeno perché ci ha lasciati abbastanza disarmati nelle situazioni nelle quali il confronto non è stato più paritario e dialogico, come poteva accadere nelle civiltà della tolleranza, allorché la mediazione riusciva a evitare le soluzioni di forza.

Di fronte alle forme di potere incapaci di mediazione, noi siamo rimasti senza parola e senza passato, vittime di quella stessa “paralisi da inaccessibilità” che giocò le civiltà precolombiane, quando la rozzezza dei conquistadores le fece precipitare in un abisso di non-senso prima che in un lago di sangue.

E qui, ancora oggi, ci troviamo.

 

 

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