La crisi di Londra, di Andrea Mereu
Se non lo trovi a Londra forse non esiste, è scritto nel frontespizio dei lussuosissimi magazzini Harrod’s a Knightsbridge. “Se non vivi a Londra, forse non esisti” verrebbe da pensare vivendoci nel mezzo. La capitale è un’immensa pagina bianca avida di pensieri, vita e parole. Londra è una creatura vivente che si ridisegna letteralmente dalla notte al giorno.
Come un artista pazzo che si svegli al mattino e, inebriato dalla sua stessa follia, se ne vada per le strade alla ricerca di avventure più compromettenti. La metropoli inglese diventa, sempre, esasperatamente, una città ultramoderna, globale, mercantile, stipata, sul modello delle antiche città stato che divorano la provincia e assorbono l’intera forza lavoro di un continente cambiando, di fatto, l’arredamento umano, coniandolo a una forma evoluta del capitalismo per il quale il benessere sociale si raggiunge attraverso i consumi esasperati entro spazi concentrati all’estremo.
E l’Inghilterra affronta ora il problema umano di questo trasbordo fuori misura. La Manica brulica come il Mediterraneo. Ma il presidio non è chiaro. Ciò che ai francesi appare ordinario, ovvero Calais paragonabile a Tripoli, per gli inglesi è quanto più prossimo alla crisi diplomatica. Ma si sa, i francesi mal si conciliano con la prammatica. Sunak avrà subito una bella gatta da pelare. Ai pescatori inglesi, già in crisi per questioni della Brexit, tuona non poco che debbano pescare cadaveri annegati.
V’è di più. A Londra il razzismo riaffiora, palpabile ma schivo. Infilato a stento nei vicoli più oscuri. Così come l’emarginazione. Basta fare un giro. I quartieri sono dei piccoli stati. Talvolta delle enclave ben organizzate. Capita che in certe zone della capitale l’inglese non sia nemmeno più la lingua ufficiale. E ne venga una economia di sussidi e dissidi per via dei traffici illeciti. È un miscuglio di idiomi e vicende umane cui la custodia della Polizia fatica talvolta a tenere l’ordine pubblico. Le guerre fra bande sono una consuetudine e l’inquietudine nella fascia degli emigrati di seconda generazione, mai veramente integrati, è addirittura fuori controllo.
Sunak rappresenta perciò lo specchio buono per le allodole tonanti. L’uomo slogan che accontenti il popolo dei subordinati e l’elité dei poteri forti. Che esistono, comandano, e non sono disposti a venire a patti col volgo ribollente. Sunak è il modello del ricco buono, l’immigrato di successo. Il creatore di se stesso. L’uomo copertina tanto caro alla sinistra. Il simbolo di una cultura, di destra, che premia il duro lavoro e il sacrificio a patto di un’adesione ossessiva alle regole del gioco.
Londra è diventata perciò la società dei sogni nel cassetto affittati a cifre improponibili. La tecnologia ha coperto le distanze. Le ha riempite di vuoti interiori. Forse è per tale ragione che i trasporti nazionali, compresi quelli cittadini, divengano affollati, obsoleti e perlopiù inadatti a soddisfare la domanda di un pubblico di pendolari che ama la libertà a pedali e la comodità green a scapito del famigerato treno in orario.
L’uomo ordinario, infatti, ridisegna i suoi spazi. Li compatta. Ammassa tutto entro minuscole schede, piccole borse, case inscatolate, auto elettriche. È come se la mente avesse più urgenza di contatti virtuali che di atti umani veri e propri. In tal senso il Covid ha segnato una frattura con la consuetudine. Perfino quella urbanistica. Tutta la folla di residenti nelle aree della City, poi convertiti in lavoratori digitali, ha dimezzato i costi proibitivi della città, scegliendo di trasferirsi nelle più agevoli aree extraurbane prima appannaggio della borghesia inglese. Il gioco è diventato “riempi il palazzo con nuovi business”.
Ma è un gioco a perdere che divora i governi, incapaci di attuare interventi che mantengano i costi a livelli accessibili. Che cosa accadrà, a breve con la prossima manovra economica? L’Inghilterra, come l’Italia, paga la mancanza di una classe politica capace di intendere il nuovo mondo, di rappresentarlo, perciò utilizza strumenti obsoleti che, all’impatto con la società, si schiantano per via di una armatura non più adatta a proteggere dai colpi. Fermate il mondo e fateci scendere. I rifugiati siamo noi. Andrea Mereu Operatore culturale a Londra
L’Unione Sarda, 4 novembre 2022