L’ultimo legame con la storia, di Aldo Cazzullo
Mentre è in corso a Londra l’ultimo atto del lungo addio della regina Elisabetta II, pubblichiamo una commemorazione che, più di altre, ci è sembrata colga lo spessore storico-politico-culturale dell’ultimo evento mondiale che non siano peste-malattia-guerra.
La sua morte è stata annunciata con un tweet: il modo di comunicare di un tempo, il nostro, in cui il passato non esiste, e l’altro ieri vale come mille anni fa. Eppure il fascino di Elisabetta era proprio nell’essere un personaggio — forse l’ultimo — che ci dava il collegamento con un mondo scomparso. Con la storia.
Elisabetta apprese della morte del padre, re Giorgio VI, mentre era in Kenya, in un lodge costruito su un albero («una giovane donna salì principessa e ne scese regina» si commentò allora, come fosse una fiaba). Esisteva ancora l’Impero britannico. Primo ministro era Winston Churchill. Lei aveva conosciuto (da principessa) Franklyn Delano Roosevelt. Ha sepolto nuore e sorelle scomode. Ha incarnato al meglio vizi e virtù del popolo britannico: una certa distanza al limite del rigore, ma anche compassione, eleganza, senso del dovere e del lavoro ben fatto. Ha vissuto al tempo della fine dell’Impero e del declino della potenza inglese; ma oggi Londra è la città più cosmopolita e meno razzista del mondo.
Sotto il suo sole sono sorti e tramontati astri come Margareth Thatcher — che lei non amava — e Tony Blair, con cui costruì un buon rapporto nell’estate del 1997, segnata dalla morte di lady Diana, che per la corona fu almeno all’inizio un disastro mediatico. Ma il regno infinito di Elisabetta, se ha salvato la monarchia, ha imposto alti prezzi da pagare. Il figlio Carlo, migliore di come viene descritto, ha consumato la vita ad aspettare che venisse il suo turno. L’altro figlio Andrea è affogato nella noia e nel vizio. La sorella minore Margareth è morta da vent’anni: Elizabeth l’ha ricordata nel bellissimo intervento tv che fece all’inizio della pandemia, durante il quale la Bbc ha inquadrato la foto del discorso radiofonico che l’allora principessa tenne, «helped by my sister» (aiutata da mia sorella), durante la seconda guerra mondiale, quando i Windsor rifiutarono di lasciare Londra devastata dai bombardamenti nazisti. Peccato che non abbia detto una parola sulla Brexit. Si spese invece per mantenere la corona di Scozia: quando gli scozzesi votarono per l’indipendenza bastò una sua frase — «meglio pensarci bene» — per spostare pochi ma decisivi voti. E in questi anni ha accompagnato l’evoluzione di quello che resta un grande Paese, che ha dato al mondo la sua lingua franca e un enorme patrimonio culturale, letterario, musicale. L’ingresso di una giovane donna di colore nella famiglia reale poteva essere una chance di modernizzazione, non colta per la palese inadeguatezza del personaggio, e di suo marito.
Non è vero che la monarchia muore con lei. Ai britannici un monarca serve. Serve una figura neutra che temperi la nettezza ai limiti della brutalità di un sistema bipartitico, dove chi ha un voto in più prende quasi tutto. E serve una figura che tenga insieme popoli diversi: inglesi, gallesi, scozzesi, irlandesi, e i milioni di figli del Commonwealth. Certo, un monarca come lei è insostituibile. Da qui il senso di vuoto, il momento di terrore che ieri ha percorso Londra e tutto il Regno Unito.
La regina Elisabetta era entrata da tempo nella fase in cui la vita toglie più di quel che dà. È un processo che avanza per gradi, diversi ovviamente a seconda delle biografie: ti accorgi di non essere immortale; cade quel diaframma tra te e la morte che sono i tuoi genitori; cominci a perdere i compagni della tua esistenza, nel suo caso il marito, Filippo; fino a quando ti rendi conto che i sommersi sono più dei salvati, e arriva — per i fortunati, come lei — il momento in cui puoi dire: il più vecchio sei tu. La morte è arrivata lenta, ma inesorabile. Ma Elisabetta esce di scena con il passo non dell’attualità, bensì della storia. Anche di lei, come dei sacerdoti, si potrà dire che sarà regina in eterno.