Ottorino Pietro Alberti e i suoi affacci in “Frontiera” e nel “Nuovo Bollettino Bibliografico della Sardegna”. Nel decennale della scomparsa, ripassando alcuni suoi scritti, di Gianfranco Murtas
Sono dieci anni che don Ottorino Pietro Alberti lo abbiamo perso alla nostra consuetudine, chi a Nuoro, fra Valverde e Santa Maria della Neve o i Giardinetti, chi – come me e innumerevoli altri – a Cagliari. E sempre rimane, come un debito da pagare, di tornare, oltre il ricordo, alle sue fatiche che sono il lascito maggiore, insieme con l’impressione della sua umanità, rimastoci in questo tempo che combina fra loro, pensando a lui, studio e preghiera, memoria e suffragio.
Ogni anno cerco, da quel 2012 in cui mi occorse di dedicargli anche un (partecipatissimo) recital nel teatro di Sant’Eulalia e poi di dedicargli una corposa dispensa biografica con ampia zoomata fotografica sulla sua capitale esperienza umbra, di riportare la sua presenza ai nostri affetti sopra ogni altra cosa e sul filo empatico che sempre ci unì a lui, ed alla conoscenza dei cultori di cose sarde, per tanti versi volti alla sua sequela, le cose scritte e dette: prova di quell’ansia esploratrice che lo distinse dacché… esploratore egli era (o era stato) per davvero, per militanza scout.
Io ebbi con lui rapporti dapprima di cordialità, poi e per lungo tempo aspri e tempestosi, molto tempestosi. Nel merito, e ripensandoci a distanza di tempo – a distanza di quasi un quarto di secolo – credo che le asprezze azioniste che mi spinsero a trattare con lui le materie di sua stretta (ma anche rivendicata mia) competenza fossero giustificate pienamente, perché strumentali all’obiettivo infine raggiunto; e però non varrebbe nulla dichiarare questo senza aggiungere che egli, uscendo finalmente, con prudente gradualità iniziale e con evangelica rapidità dopo, dai condizionamenti cui la radicata mentalità clericale lo aveva costretto, mi mostrò una superiorità morale di cui, a dire dei nuoresi, ebbi plastica prova personale soltanto da Bachisio Zizi e dalle professoresse Elena ed Ottavia Melis.
Ci ritagliammo, nello sviluppo della confidenza e dei discorsi, i campi di contiguità e quelli di distinzione, per non dire di lontananza. Ce ne facemmo una serena ragione, forse anche ci piacquero e la prossimità e la distanza: mi pare comunque che una certa comunanza di interessi, la cui materiale traduzione (dalle due parti) divenne ripetuta occasione di amichevole scambio di doni – i libri! –, fosse come il moltiplicatore delle possibilità d’intesa. E intesa ci fu, e formidabile.
Ma qui, al di là dei rapporti personali, vorrei accennare alle fatiche del ricercatore, dello studioso e docente, dello storico che, oltre ad alcune importanti monografie, ci ha lasciato una enorme quantità di contributi scritti sparsi in riviste di varia natura e luogo di pubblicazione.
Si consideri, a tal proposito, che Tonino Cabizzosu, che per trentacinque anni ha retto la cattedra di storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna e per tre lustri abbondanti la direzione dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari, ha contato ben 403 titoli nella bibliografia dell’arcivescovo di cui 16 fra libri e monografie, 244 contributi in opere collettive, 55 articoli su riviste e 38 su giornali, 26 fra presentazioni e prefazioni, 21 contributi su materia pastorale. Tanti egli ne ha censito riferendone nel volume, da lui stesso curato insieme con Francesco Atzeni, Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, Cagliari, Edizioni della Torre, 1998.
Direi che la ricognizione, evidentemente impegnativa (e meritevole di mille lodi per chi l’ha curata), non è stata completa, e tale non è stata semplicemente perché… non poteva esserlo. Chi è vissuto di cattedra e di biblioteca, fra secolari (o millenari!) archivi e testate editoriali, chi s’è speso in infinite collaborazioni pubblicistiche (ora generali ora specialistiche) ed in attività seminariali sa che… ha seminato ovunque e con frequenza tale, direi ipercinetica, che parrebbe impossibile qualcuno possa averlo accompagnato per un istantaneo ed esaustivo aggiornamento, per una sempre tempestiva e perfetta nuova registrazione. E’ proprio questione di (ingovernabile) quantità che, posta a fronte della qualità delle produzioni, non è mai comunque una categoria, seppure cadetta, marginale o incidentale. E bisogna tenerne conto.
Ed è all’interno di un così ampio paniere, quello offertoci da Cabizzosu – solerte e professionale oltre che appassionato interprete/biografo di un numero impressionante di figure ecclesiastiche della Sardegna fra Otto e Novecento –, che vorrei oggi pescare, con l’intento anche di integrare in supplemento, riportandomi a due testate che anche per me hanno avuto una speciale importanza per diverse ragioni collegate sia alle personalità dei direttori-fondatori con cui ebbi contatto – dico Remo Branca e Giuseppe Della Maria – sia per la raccolta dei fascicoli che curai fin dalla più giovane età e sono oggi nella mia biblioteca/emeroteca.
Ricordo anche con su taluni degli argomenti trattati da monsignore su Frontiera e sul Nuovo Bollettino ebbi con lui motivo di discussione ora a Cagliari, soprattutto nello studio dell’episcopio cagliaritano (quello andato a fuoco in un giorno disgraziatissimo), ora nel suo “familiare” episcopio nuorese – così lo chiamava lui stesso con sobria ironia – di via Massimo d’Azeglio 35, nell’abbraccio fra le Grazie antiche e nuove e la cattedrale di Santa Maria della Neve.
Varrà intanto precisare l’area temporale in cui le collaborazioni presero corpo per contestualizzarle alle vicende di vita, professionali ed ecclesiali, di Alberti: trattandosi del lustro abbondante 1968-1974 (con occasionale appendice 1976) può ben identificarsi il periodo con quello degli anni, non ancora precisamente terminali ma comunque orientati alla chiusura del ciclo accademico, dell’insegnamento (e del vice decanato) alla Lateranense, del rettorato (biennale) del seminario regionale (e del parallelo insegnamento della Filosofia nella facoltà Teologica) – trasferito a Cagliari da Cuglieri nell’estate 1971 – e della finale promozione-premio vescovile con assegnazione alle diocesi unite di Spoleto e Norcia, d’immediata soggezione alla Santa Sede. (Vien qui da pensare a Spoleto che nella sua cronotassi episcopale ebbe nientemeno che Urbano VIII Maffeo Barberini il papa della condanna di Galileo, ed anche, duecento anni dopo, Pio IX Giovanni Maria Mastai Ferretti, il papa delle illusioni/delusioni risorgimentali e del ripristino della ghigliottina dopo che la lama mortale era stata soppressa dalla gloriosa mazziniana Repubblica romana. Viene anche da pensare alla speciale affezione di monsignor Alberti verso il discusso Pio IX ed al titolo della cattedrale spoletina che era ed è lo stesso di quella cagliaritana: sicché egli, quando fra il 1987 ed il 1988 lasciò un duomo dedicato alla Vergine assunta in cielo per arrivare, varcato il mare, ad un altro duomo neppure di molto più giovane, se sempre di 900-1000 anni si tratti! parimenti dedicato alla Vergine assunta in cielo, avvertì certamente come una continuità spirituale e di missione).
Su “Frontiera”
Io ho contato 24 interventi sul mensile fondato all’inizio del 1968 da Remo Branca, che fu nella sua lunga vita tante cose tutte egregie: professore (e preside) e giornalista, pittore e xilografo di grande valore, critico d’arte e intellettuale di stretta divisa cattolica, per il che fu anche in rapporto con personalità le più eminenti del guelfismo novecentesco italiano, e sul lato ecclesiale e su quello laicale (il suo nome compare tra i giovanissimi fondatori, nella sua Sassari, del Partito Popolare Italiano).
Ancora aveva residenza a Roma, il direttore-fondatore, in via Col della Porretta, nel 1968, quando decise di lanciare questa sua creatura editoriale la cui fattura affidò allo Stabilimento Tipografico dei fratelli Fossataro, allora nel vico 2° XX settembre e presto però trasferito nella definitiva e moderna sede di viale Elmas. (I Fossataro – sarà la testimonianza di Branca – a lui avevano offerto la testata cessata di Sardegna Oggi, che era stato un quindicinale di formato elefante, di ispirazione socialista e direzione Dessanay, che aveva coperto un certo spazio, indubbiamente di qualità, fra il 1962 ed il 1965; ma Branca aveva preferito cambiare, superare quell’ideale limite temporale – “oggi” – e piuttosto vagheggiare una proiezione nel “domani”…).
Fu figlia di una sorta di triangolazione fra Roma e Nuoro e Cagliari quella copiosa serie di Frontiera (“rivista mensile illustrata di cultura, arte, scienza, politica, umanità”) che, nel 1977, l’anno decennale che ne vide la cessazione, aveva raggiunto le 120 uscite. Se a Roma si ideava ed a Cagliari si stampava, da Nuoro il più – forse il più, e quanto Ciusa, veniva Seuna e Santu Predu! – da autori diversamente esperti, e lo sforzo unitario era sempre quello di associare al particolare isolano – ora ambientale ora letterario o artistico – l’universale cristiano: “Frontiera è uno spazio per tutti” fu il titolo dell’editoriale di apertura della serie e il programma annunciato semplice e chiaro: «Non confine, frontiera: uno spazio libero in cui sappiamo di dover combattere. Una estensione, non un’isola. Il mare non ci separa, anzi ci unisce, c’invita a inoltrarci sempre più nel resto del mondo. Infatti il mondo ha già scoperto che i sardi si sono riconosciuti coesistenti nella civiltà mediterranea, per ciò stesso italiani, come tali, europei».
E più oltre, evidentemente non senza avvertire lo sgradevole peso delle ansie nazionalitarie e separatiste in via di qualche affermazione nella politica isolana: «La cultura sarda, se esiste, è cultura di tutti, è italiana o non esiste, e se esiste è anche europea, come hanno dimostrato la gigantesca opera del linguista tedesco Max Leopold Wagner, e la poesia di Grazia Deledda. E dunque: se è impossibile negare valori a quanto non combacia con le nostre idee, è nella contraddizione che cerchiamo la verità. La verità non trionfa senza tormenti».
E ancora quasi in conclusione: «Nel presente incerto, a causa dei travagli di un’epoca di transizione, in cui la tecnica ed i diritti dell’industria tendono ad assommare i diritti personali, la terra natia con i suoi valori millenari è pur sempre un grande spazio nel passato che ammonisce, con i suoi eventi ed i suoi grandi morti, a non mistificare il proprio avvenire, a non perdere i valori che giustificano la Regione. Ma questa, pur sempre, parte vitale di una società più vasta».
Infine: «Ecco perché questa rivista spera, al di sopra della cronaca, di interpretare aspirazioni, sentimenti e sociali necessità di un popolo che pur rivelando i più antichi insediamenti della civiltà arricchisce la coscienza dell’uomo, mentre accetta la realtà di una vita nuova».
Concluderà il suo tragitto, Frontiera, appunto un decennio dopo e già nel suo penultimo numero – il 119 della lunga serie (e l’11° del 1977, numero di novembre) – avverte di difficoltà crescenti e fa capire che l’exit è prossimo: «Come cristiani siamo figli della speranza e della resurrezione, ma ora, si legge da ogni parte, le parole non bastano più! Non bastano neppure a Frontiera… Da ogni parte ci giungono appelli perché la Rivista continui; e non si tratta di voci di intellettuali che vivano in Arcadia, ma di studenti, di operai, di studiosi giovani ed anziani, che vivono ed amano la Sardegna, di sardi e continentali che da Genova, da Milano, da Torino, da La Spezia vedono in questo piccolo centro di coerenza regionale, una lampada che rischiara molti passi.
«Ma che continui la Rivista non dipende da chi ha fondato e diretto queste pagine, ma dai lettori stessi, dagli abbonati sempre numerosi, i quali sanno ormai che l’iniziativa privata disinteressata non ce la fa più. Dipende dalla buona volontà dei responsabili della vita e amministrazione regionale… Una apposita Commissione predisposta dal Consiglio Regionale ha interrogato Frontiera: si sa, dopo dieci anni, chi è e che cosa vuole questo modesto aspetto della cultura in Sardegna. In queste pagine aperte, tutte gratis et amore Sardiniae hanno fatto il loro dovere per tanto tempo…».
Circa tremila i contributi firmati apparsi nelle pagine patinate del periodico, forse trecento gli autori. Ottorino Pietro Alberti fra loro, con i suoi 24 articoli e, di più, con il primo articolo della lunga serie, l’articolo di apertura della lunga serie, nel primo numero, e come a saldare l’attualità bruciante degli anni ’60 ai tempi del paternalismo Savoia: “Un Piano di rinascita della Sardegna che risale al 1780” (il riferimento è alla scoperta , presso l’Archivio di Stato di Torino, dell’inedito “piano Alberto M. Solinas”, il carmelitano originario di Tissi e prossimo vescovo – dal 1803 – di Galtellì-Nuoro).
Ma prima di ripassare, sia pure in velocità, i tanti studi offerti da don Ottorino alle pagine della rivista di Remo Branca, vorrei, andando alla fine, richiamare quanto Frontiera scrisse alla notizia della elezione vescovile del suo collaboratore, e quanto da Alberti stesso venne in risposta a tanto omaggio.
Si tengano presenti le date: ordinato sacerdote dal vescovo Giuseppe Melas, nella cattedrale di Santa Maria della Neve, il 18 marzo 1956, egli fu eletto vescovo di Norcia ed arcivescovo di Spoleto nel concistoro presieduto da papa Paolo VI pubblicato il 9 agosto. La consacrazione, nella cattedrale di Nuoro per le mani del cardinale Sebastiano Baggio e dei coconsacranti monsignor Giuseppe Bonfiglioli e monsignor Giovanni Melis Fois (successore di Melas), l’8 agosto dello stesso 1973. Il 7 ottobre fece ingresso nella sua diocesi: è giovane, 45 anni soltanto.
Il congedo, ricapitolando le buone intenzioni
Una sua immagine e, a mo’ di titolo, il suo nome in corpo tutto maiuscolo, esce su Frontiera n. 10 dell’ottobre 1973. La didascalia: «Il nostro collaboratore assiduo, lo storico mons. Ottorino Alberti, è stato eletto Arcivescovo di Spoleto e Vescovo di Norcia».
Sul n. 4-5 del 1974 un replay di saluto: “Lettera a Ottorino Alberti” sotto il titolone “Oggi due incontri” (il secondo da ritenersi quello con il dottor Egidio Terracina di Lido Venezia). Firma “Frontiera”, che è come dire Remo Branca.
Ad Alberti: «Lo sapevamo fin dal primo giorno che la Chiesa ti avrebbe scoperto e che ti avrebbe chiamato tra i suoi Apostoli in questo mondo che non è né Tuo né nostro, ma nel quale dobbiamo vivere, senza di che la nostra esistenza non avrebbe significato alcuno: lo sapevamo fin dal primo giorno che ci sei venuto incontro con semplicità, come se sempre ci fossimo fraternamente riconosciuti, con un disinteresse, con una puntualità che non era comune fra i preti d’ieri.
«E’ difficile tanto essere preti e restare veri uomini, sacerdote fra sacerdoti, consacrati o no, ma figli tutti di uno stesso Vangelo e tutti ugualmente obbligati dalle stesse leggi terribili e generose della carità. Certamente dobbiamo ai nostri lettori qualche spiegazione, perché non sembri questo il solito elogio all’amico che sale, oppure un mutamento nell’indirizzo della Rivista che è pur sempre quel che ha voluto essere fin dal principio e che sarà com’è, altrimenti sarà meglio che non sia.
«Quando Guido Fossataro ci offrì la testata del settimanale politico-sociale Sardegna Oggi, stampato in Cagliari e diretto da un socialista, l’amico Sebastiano Dessanay, e che aveva cessato le pubblicazioni, dopo anni di una non infruttuosa attività, accettammo. Poi sembrandoci di far le uova nel nido altrui, proponemmo di cambiare la testata, perché il nostro interesse non è tanto la Sardegna oggi, voti e guadagni compresi, ma la Sardegna di domani, e della quale per la piccola parte che ci spetta siamo anche noi, certo, responsabili.
«Per questo abbiamo scelto la via stretta, la libertà, che è così cara, e la verità di cui sempre si paga il prezzo. Ed il primo prezzo è ancora non aver ricevuto neppure un biglietto da visita per le feste dal Governo Regionale. Che per legge regionale dovrebbe darci il contributo per le pubblicazioni sarde stampate in Sardegna, e che altri ricevono.
«Al momento di stendere il programma per il primo numero della rivista (Cagliari, gennaio, 1968) trovandoci soli abbiamo sottoposto al tuo giudizio un programma “che non si scrive a tavolino, ma che è dettato giorno per giorno dalla vita”. Non dubbiosi ma commossi avevamo bisogno di un conforto illuminato, e ce lo hai dato. Ti rendevi così silenziosamente responsabile e senza averlo mai vantato, di un nostro cammino, approvando la pagina n. 1 di Frontiera: “Non confine, ma frontiera. Una estensione, non un’isola. […]. Noi non ci siamo posti il dubbio se questa rivista sia necessaria agli altri, perché in primo luogo è necessaria a noi stessi, come membri della società e come obbligo verso tutti”.
«Così il primo articolo a pag. 3 è tuo, circa un documento inedito dello Archivio di Stato di Torino, nel quale illustravi un “Piano di Rinascita” che risale al 1780. Da storico qual sei ammonivi qual è l’antica aspirazione di giustizia del popolo sardo, in quello stesso numero si esprimeva condanna contro il progetto del divorzio, si rifiutava Picasso come il più geniale truffatore tra gli artisti viventi, si prendeva posizione contro ogni guerra e quella nucleare in specie, si lanciavano le prime frecce per lo studio della lingua latina, e per l’anima poetica dell’Isola dei Sardi ecc. ecc.
«Poi, tu, Ottorino Alberti, preparandoti alla pubblicazione delle fonti della storia sarda, hai continuata la collaborazione di storico e rinforzata la tua da noi ambita amicizia.
«E così la certezza che la Chiesa ti avrebbe scoperto e chiamato.
«Noi intanto abbiamo mantenuto, facendo del nostro meglio, l’impegno. E che così sia proponiamo a Te, che ci conforti con il ricordo del tuo esempio, la lettura di questa lettera di un magistrato veneto, che non conosciamo, che ci ha conosciuto prima che lo conoscessimo, Commissario degli Usi Civici della Regione Veneta, il dr. Egidio Terracina, che ha la data del 24 settembre 1973, e del quale avevamo dimenticato il nome e l’articolo.
«La leggeranno anche – e ci par giusto – i nostri lettori che se pur molto lentamente crescono ogni giorno, perché, dunque, si veda se noi abbiamo tenuto fede al programma da te letto ed approvato, e se non sia nella tradizione che l’Isola, così dura con il lavoro dei suoi figli, con tutta giusta prudenza attenda che il riconoscimento delle nostre pure e ferme intenzioni giunga da oltre quell’azzurro mare che, come dicevamo, ci unisce, dunque, al resto del mondo civile».
Nello stesso numero poche righe del nuovo vescovo indirizzate al professor Branca: «Vorrei sperare che si consideri sempre come espressione di affetto e di ammirazione per Frontiera la modestissima collaborazione alla rivista e le parole con le quali ho sempre esortato a mantenerla in vita, perché Frontiera è decisamente entrata nel patrimonio culturale della nostra meravigliosa terra.
«Ho davanti il N. 11-12 a. 1973 di Frontiera, e sento il dovere, oltre il piacere, di dirti tutta la mia soddisfazione per la ricchezza del suo contenuto e per la luminosità della forma. Né nascondo però che avverto un certo dispiacere nel non potermi considerare tra i collaboratori. Le mie occupazioni e… preoccupazioni di Vescovo mi impediscono ogni altro lavoro che non sia connesso con il mio apostolato, mentre assicuro che appena mi sarà possibile sarò felice di poter inviare qualcosa… come ai beni tempi».
Omaggio alla Deledda nel centenario della nascita
L’occasione mancherà. Ma il bello è che, appena qualche mese prima del… cambio professionale (e di residenza), di don Ottorino ora fatto vescovo e con casa in Umbria (così sarà per quattordici anni), di lui come autore di storie nuorese ha scritto Raimondo Bonu proprio su Frontiera: “Ottorino Alberti, un nuorese che scrive di Nuoro”.
L’articolo merita di essere ricordato ed anche riprodotto. Il riferimento è ad un libro appena uscito per i tipi di Fossataro con le illustrazioni di Silvio Peluffo: Il Nuorese cuore della Sardegna. Un libro di grande formato, gradevole alla lettura per quel mix di testo-e-immagini, per quella introduzione “programmatica”, breve e ricca, suggestiva, dell’autore. Questa:
«Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne, ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo, ho mille e mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce, per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente; ho visto l’alba, il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne; ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo, e così si è formata la mia arte, come una canzone od un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo».
In queste parole, contenute in una lettera indirizzata al prof. Haguenin, c’è l’anima semplice e meravigliosa di Grazia Deledda, ma si trovano anche tutti i principi, dei quali è necessario tener conto, quando si voglia comprendere l’opera deleddiana nella sua genesi ideale che è, in definitiva, la stessa storia della vita spirituale della Scrittrice nuorese.
Questo brano di lettera ci è tornato alla mente, quando, ammirando un’antologia fotografica sul Nuorese del regista cinematografico Silvio Peluffo, ci è parso di ritrovare in essa tutto il mondo che Grazia Deledda descrisse con rara maestria, nei suoi romanzi. Il godimento estetico, di cui la contemplazione delle diapositive del Peluffo ci è stata causa, e la rilettura della Deledda hanno suscitato in noi il desiderio di ricomporre e, in qualche modo, di armonizzare il «racconto per immagini» del Peluffo con la sostanza più vera e genuina del mondo della Deledda.
Il lavoro che presentiamo non vuol essere una ripetizione di quanto altri hanno già scritto o potranno ancora dire sulla Deledda, la cui produzione letteraria è così complessa e ricca, da permettere sempre nuove e fascinose scoperte, che saranno tanto più vere e più suggestive, quanto più si riuscirà a penetrare il fondo segreto della sua anima di artista.
Col regista Peluffo condividiamo l’amore per la Sardegna, ma anche l’intima sofferenza che ci invade l’anima nel rilevare che, ancora ai nostri giorni, mentre da un lato si vanno, sempre meglio, scoprendo ed apprezzando le bellezze naturali della nostra Terra, dall’altro, cresce la diffidenza verso tutto il popolo sardo, la cui grandezza morale è ignorata o minimizzata, quando pure non si arriva al più ingiusto disprezzo da parte di quanti non sono pochi, e non solo fuori dell’isola – non hanno saputo e, forse, neppure voluto, conoscere il vero volto della Sardegna e, soprattutto, non son riusciti a liberarsi dalle prime e superficiali impressioni legate agli avvenimenti della cronaca nera di questi ultimi anni, mentre avrebbero dovuto ricercare quello che è l’autentico «senso» di questa Isola, meravigliosa nella sua primordiale e pura bellezza, e molto più degna di ammirazione e di stima per la nobiltà della sua gente.
E’ stata questa comune passione per la Sardegna che, in occasione del ritorno centenario della nascita di Grazia Deledda, ci ha suggerito il presente lavoro, che vuol essere un omaggio riconoscente a Colei che, con la sua arte, ha cercato di far conoscere al mondo la nostra Terra, ma anche di farla rispettare ed amare. La Deledda ha creduto nella nobiltà dei Sardi, nella loro dignità, nella loro forza spirituale e nel loro coraggio; e seppure nella sua opera questa potenza di vita pare spesso nascondersi sotto un velo di malinconia e di disperazione, che grava su una regione economicamente povera, e abbandonata, e fa quasi da sfondo a tutta la storia di un popolo che da sempre geme sotto la fatica, tormentato da passioni sconvolgenti e oppresso da un destino di miseria e di morte; ciò, tuttavia, non impedisce di scoprire il fondo, generoso e forte, dell’anima sarda. E’ allora vero – se ben s’intendono le vicende, anche le più tragiche, dei romanzi della Deledda – che i protagonisti delle sue storie,’tratti dalla realtà della vita sarda e nient’affatto immaginari, anche se vivono senza riuscire a risolvere i tanti problemi della propria esistenza tribolata, appaiono pur sempre uomini che non rinunciano alla lotta per salvare dignità e speranza, dimostrando così la loro forza e la loro volontà di risorgere. Ci piace sottolineare l’importanza di questa conclusione, alla quale arriva la Deledda, la cui problematica, anche senza aver la pretesa di caratterizzarsi come indagine di filosofia antropologica, fonda e trova i suoi principi di soluzione in quella che è la vera struttura psicologica della gente sarda, la cui adeguata conoscenza le ha permesso di scoprire l’anima dell’uomo sardo, con le sue ansie e le sue frustrazioni, ma anche con la sua forza spirituale ed il suo coraggio.
Per questo motivo, ci pare si debba riconoscere alla Deledda, non solo il merito di aver saputo portare nella verità della storia il vero volto della Sardegna, ma anche di aver lasciato un «messaggio» che ha una duplice finalità: aiutare i Sardi a prender sempre meglio coscienza della propria dignità e delle proprie capacità, senza lasciarsi dominare o condizionare da contingenti situazioni sociali, politiche od economiche; e, attraverso un rafforzamento della propria coscienza storica, invitarli a un ripensamento, che, non ignorando il vecchio di ieri, li conforti nella volontà di edificare una nuova società.
In questo «messaggio», e non solo nella sua arte sempre viva e fascinosa, è l’attualità di Grazia Deledda.
Ma siamo anche convinti — e lo diciamo con la trepidazione che ci viene dalla consapevolezza di fare un’affermazione, forse, nuova e polemica – che non è senza un valido fondamento attribuire all’opera della Deledda anche il significato di una protesta. Una denuncia, non della indolenza dei Sardi; della loro rassegnazione alla miseria e all’isolamento, come molti dei suoi stessi conterranei hanno creduto; e neppure un lamento contro Dio, quasi fosse dimentico di questa misera terra. Grazia Deledda amava troppo la sua gente per avvilirla ancor di più, chiamandola responsabile della propria miseria; ed era profondamente religiosa perché si lasciasse trascinare ad un atto di empia ribellione.
La sua protesta aveva ben altre ragioni ed era diretta contro coloro che sapeva essere i veri responsabili. Se la Deledda pare indulgere spesso alla descrizione della natura aspra, selvaggia e mortificante della sua Isola; se, con sincerità sconvolgente e con violenza di linguaggio, a volte, ha fatto un ritratto amaro di povere creature umane, con nell’anima e nel corpo le cicatrici della miseria materiale e del vizio; tutto ciò l’ha detto e l’ha scritto, non per disprezzare e offendere il popolo, al quale Ella si sentiva onorata di appartenere, e neppure per il piacere di lasciarsi andare a un patetico naturalismo e a un fantasioso psicologismo, perché era troppo seria e severa con sé stessa per perdersi in un romantico descrizionismo; bensì, per denunciare – Lei, che conosceva bene la storia secolare della sua Sardegna – non solo lo sfruttamento delle masse popolari da parte dei pochi possidenti, o il conformismo e l’egoismo della borghesia isolana ben poco rappresentativa e poco impegnata per il progresso dell’Isola, ma anche l’assenteismo, l’indolenza e la fiscalità delle autorità civili, le quali, come per il passato, continuavano a guardare alla Sardegna come a una colonia da sfruttare, ignorando del tutto le sofferenze e le legittime attese del popolo sardo.
Anche per questo contenuto del suo «messaggio», Grazia Deledda ben merita un reverente ed ammirato omaggio da parte di tutti i Sardi, i quali devono esserle grati per aver fatto conoscere al mondo una Sardegna nobile e fiera.
Un’ultima parola vogliamo dire per giustificare il titolo del presente lavoro: «Il Nuorese: cuore della Sardegna».
Dato lo scopo prefissoci, abbiamo pensato che nessun altro argomento sarebbe stato più conveniente, nella circostanza del Centenario della nascita della Deledda, di questo da noi scelto, e cioè, di una illustrazione, corredata da una ricca serie di fotografie, del «mondo» dove la scrittrice nuorese visse e del quale lasciò stupende descrizioni in pagine di tersa bellezza.
Col termine «Nuorese» indichiamo un territorio che ha un’estensione molto più ampia di quella che di fatto non gli sia geograficamente riconosciuta, ma non tale da abbracciare l’intera Provincia di Nuoro, poiché, di preferenza, abbiamo voluto ricordare le località e i paesi nei quali la Deledda ambientò i suoi racconti, o che ella visitò e la cui conoscenza contribuì certamente ad arricchire il patrimonio di immagini, che fu per Lei una fonte inesauribile di ispirazione.
Quanto poi all’aver definito il Nuorese «cuore della Sardegna», non ci sembra né necessario e neppure opportuno tentare una spiegazione e, tanto meno, una giustificazione, dal momento che, prima che da noi, questa definizione è stata data dalla Deledda, la quale, con ben fondate ragioni, dimostrò che proprio nel Nuorese, nei suoi paesaggi come nei suoi abitanti, si trovi tutto lo spirito e la bellezza dell’autentica Sardegna.
Can. Raimondo Bonu: Per “Il Nuorese cuore della Sardegna”
Ecco allora il can. Bonu recensire il libro del prossimo vescovo e ricercatore storico in servizio permanente effettivo, nuorese di nascita e nuorese di sogni: “Ottorino Alberti, un nuorese che scrive di Nuoro”. Così sul n. 3 del 1973.
«Il pensiero affettuoso per il “natio loco”, la terra del Nuorese, non si attenua nella mente di Ottorino Alberti, sia che egli comunichi il suo valido insegnamento dalla cattedra dell’Università Lateranense in Roma, sia che svolga la sua vigile opera direttiva nel Seminario teologico di Cagliari: il benemerito monsignore ritorna di quando in quando con diligente attenzione alla città che lo vide nascere, ai paesi montani che lo conoscono e l’apprezzano, alle bellezze naturali e ai costumi che ornano tuttora gran parte della Barbagia centrale e delle zone finitime.
Questa volta l’Autore ritorna tra i suoi in un libro dal titolo significativo: Il Nuorese cuore della Sardegna. Sono pagine che la documentazione preziosa del regista cinematografico Silvio Peluffo ha decorato di brillanti tavole a colori e di bellissime riproduzioni fotografiche, lavoro interessante e di largo respiro, al quale l’editore Fossataro di Cagliari ha dato elegante veste tipografica.
«Il volume si apre con la figura di Grazia Deledda, colei che con sensibilità di artista ha presentato in descrizioni fascinose la scoperta di un piccolo mondo antico, storia e cronaca di vita silenziosa, espressione semplice e profonda di vicende, piene di sofferenze, di ansie, di legittime attese e di lontane speranze.
«Intanto il libro, vedendo la luce nel periodo del Centenario della nascita della Deledda, rende omaggio alla scrittrice, la quale, definendo il Nuorese “cuore di Sardegna”, dimostrò con ben fondate ragioni “che proprio nel Nuorese, nei suoi paesaggi, come nei suoi abitanti, si trovi lo spirito e la bellezza dell’autentica Sardegna”.
«Quasi a estendere questa affermazione e a difendere il termine “Nuorese”, l’Autore non limita la sua meditazione al solo territorio di Nuoro e al Supramonte di Orgosolo e di Oliena, ma allarga meditazione e studio alla baronia di Orosei, a Dorgali, a zone dell’Ogliastra, siti dove la narrativa deleddiana ha preso avvio per dare trasformazione alle creature delle sue novelle e vita ai protagonisti dei suoi romanzi.
«Ma seguiamo l’Alberti nell’analisi e nella interpretazione dell’opera di Grazia Deledda. Realmente la narratrice, che ignorò ogni dottrina filosofica e conobbe quale base della sua formazione culturale soltanto le prime quattro classi elementari del proprio paese, ebbe per felice intuito la conoscenza del mondo e dell’uomo, quello con gli aspetti del paesaggio, questo con la presentazione di vizi e di virtù.
«Tra le folte vicende che espone, l’opera deleddiana procede spesso in modo empirico, qualche volta riecheggiante la favolosità omerica, ma ritrae così intimamente, così profondamente i caratteri tipici del suo popolo, che unisce con legame inseparabile il rapporto tra uomo e natura, tra l’autentica anima della gente barbaricina con la figurazione fisica della Barbagia, cuore di Sardegna.
«Paesaggio non decorativo, dunque, ma linguaggio umano, sincera espressione che con frequenza trascende il semplice aspetto della natura e si eleva a nobiltà di valore universale.
«E qui sia consentito seguire l’Autore più da vicino, lungo l’esposizione di due capitoli, e di rilevare la documentazione fotografica.
«Ecco in primo luogo la casa della Deledda con i molti ricordi di una vita chiusa e paesana; ecco la chiesetta della Solitudine, una volta isolata dall’abitato cittadino, poi fatta sempre più oggetto di care visite, estese alle vicine pendici di Monte Ortobene e alla vetta con la statua bronzea del Redentore.
«E subito dopo, quasi felice intermezzo di lettura e richiamo di voci millenarie, il libro schiude un vasto orizzonte con visioni di luce e palpiti di vita, da un’alba in Barbagia alle campagne di Ogliastra, dai fertili rialti di Biora con il santuario nuragico di Serri fino a un angolo della primigenia natura sarda con i boschi di Badd’ ‘e Sàlighes presso Bolotana, e ancora dal sito Badu ‘e Spanu nelle falde del Gennargentu fino alle rovine della chiesa paleocristiana di Cornus.
«Dal terzo capitolo del libro, poi, ancora aspetti nuovi di cose e di persone, voci di nostalgia intorno alla Nuoro del passato e rilievi che inducono alla realtà del presente.
«Così davanti al nostro sguardo sfilano qui moli superstiti di nuraghi, lì vaghe rovine di case nei due rioni cittadini: Sèuna, dal nome pro-latino, e Cort’ ‘e Susu, dalla chiara origine medioevale. E poi, nella stessa Nuoro, il richiamo delle passate manifestazioni tipiche di usi e di costumi: la vecchia filatrice sulla soglia della casa modesta, le giovani portatrici d’acqua lungo la Bia Maiore, la partenza per la corsa degli asinelli, il corteo per l’offerta dei ceri alla Madonna delle Grazie, lo svolgimento della processione nel Venerdì Santo. E ancora la sfilata dei buoi per la festa contadina di S. Isidoro, l’adunata delle “novenanti” del santuario di S. Francesco di Lula, l’attesa di donne nuoresi per la distribuzione del “filindeu” nel giorno della festa di Valverde.
«A queste visioni di luoghi e di persone seguono altri aspetti non meno interessanti: il Monte di Gonare e la cattedrale di Ottana, i graffiti di due “domos de janas” presso Orotelli e i betili nei pressi di Silanus, i “mamuthones” di Mamoiada con le loro tradizioni millenarie, infine le tessitrici dei preziosi arazzi accanto ai loro telai.
«Tali i richiami, tratti da età lontane e visti in tempi recenti. Ora, nel libro dell’Autore, le ultime pagine del terzo capitolo illustrano Desulo con la sua neve e il suo artigianato del legno; mostrano il lavoro di aratura in Tonara; richiamano Fonni con il santuario intitolato alla Madonna dei Martiri; presentano il lago di Gùsana e la verde penisoletta di Cuchinadorza: sono tali e tanti elementi che rendono più notevole il nome di Nuoro.
«Nel libro che ho fugacemente esaminato, io ravviso due aspetti particolari: uno presentato dall’Autore quale dono di cuore, l’altro inteso quale tributo di giustizia. Tali aspetti sono per me un alto pregio dell’opera, la sintesi, il coronamento armonioso “che solo amore e luce ha per confine”».
Ancora Bonu: settembre 1973, «cruce et aratro» nella patria di San Benedetto
Non su Frontiera ma su La Nuova Sardegna (dell’8 settembre 1973) lo stesso can. Raimondo Bonu riporta, in un lungo corsivo nella pagina della cronaca nuorese, alcuni passaggi della vita di don Ottorino candidato alla ordinazione episcopale (e coglie l’occasione per commentare – ovviamente con codici valoriali suoi dai quali in parte mi distanzio – alcune delle opere maggiori del Nostro, in particolare I vescovi sardi al Concilio Vaticano I, le cui tesi ebbi modo di discutere, muovendo da fronti opposti, molti anni dopo l’uscita del libro ed anche le riflessioni del Bonu, con lo stesso autore nella sua casa nuorese):
«Mentre la festa religiosa del Redentore va attenuando col passare dei giorni la sua eco nel cuore della cittadinanza nuorese e il calore della manifestazione civile viene richiamato da quelli che hanno partecipato alla sagra del Monte Ortobene; mentre questi aspetti religiosi e umani superano il valore della cronaca, un fatto particolare si aggiunge a rendere più notevole il nome della città barbaricina: è il rito sacro che eleva alla dignità episcopale uno dei più distinti figli di Nuoro. Il nuovo presule è mons. Ottorino Alberti.
«Conosciuto in Sardegna per i suoi scritti e onorato in Roma per l’opera educativa svolta nell’Università Lateranense, il prescelto al vescovato di Norcia e all’arcivescovato di Spoleto si vede ora circondato da alti dignitari ecclesiastici e da confratelli, nonché da numerosi amici e stimatori, accorsi per esprimergli sentimenti augurali e congratulazioni affettuose.
«Al festeggiato si addicono realmente questi atti di omaggio. Nato quarantasei anni or sono in Nuoro e compiuti nella sua città i corsi di studio che vanno dalle scuole elementari alla maturità classica, Ottorino Alberti si iscrive alla facoltà di agraria nell’Università di Pisa. Anch’egli intende contribuire al benessere della sua terra e dare la sua opera con generoso slancio. Gli arride nell’animo l’argomento virgiliano: “Quid faciat laetas segretes, quo sidere terram / Vertere… conveniat”, e allo stesso tempo come praticare l’arte da dedicare alle viti, agli armenti e alle api, o come tenere uffici convenienti alla sua materia e guidare aziende.
«L’impegno assunto fu un atto di coraggio, reso più significativo dal fatto che in quegli anni di tormentato dopoguerra si vedevano un po’ dappertutto la fuga dai campi e la mania della discussioni inconcludenti. Lo studioso lavora con intelligente tenacia e a ventiquattro anni, nel 1951, consegue brillantemente la laurea.
«Ma un ideale superiore era andato maturando in lui, negli ultimi tempi del corso di agraria; invece di dedicarsi a produrre alimenti per le esigenze materiali, decide di dare tutto se stesso a coltivare il campo religioso e offrire elementi capaci di stimolar nelle anime virtù illuminanti e generosità senza limiti. Questi sentimenti il giovane nuorese nutrì intensamente per cinque anni, frequentando prima il corso di propedeutica e di teologia nell’Università Lateranense fino a conseguire la laurea, poi ottenendo il sacerdozio il 18 marzo 1956 e in ultimo insegnando filosofia in istituti superiori e scrivendo a preferenza su argomenti sardi.
«Così il giovane docente diede per primo il suo denso volume di quasi quattrocento pagine intorno a I vescovi sardi al Concilio Vaticano I. Il lavoro è interamente positivo.
«In esso i pregi scientifici di ricerca e di confronto rivelano sia la felice scelta di fonti edite e inedite, sia il numero non comune (circa un centinaio) di opere fondamentali consultate così negli Archivi vaticani come in quelli ecclesiastici di Nuoro e di altre diocesi isolane. Rievocando la vita e l’attività dei presuli conciliari di Sardegna, l’Alberti rende testimonianza sincera alla storia e alla terra natia, specialmente ribadisce quella verità che ora lo guida con chiarezza e in seguito lo guiderà in modo più largamente sostanziale, sempre in ordine ai più alti ideali di operosa bontà.
«Nobile il fine dell’opera: abbattere gli errori, ristabilire nel mondo un nuovo equilibrio morale, facilitare quella sintesi di valori religiosi, etici, economici, scientifici che costituisce appunto la vera civiltà nella sua base umana e nel suo sviluppo cristiano.
«All’insigne lavoro altri seguivano, ugualmente interessanti, nell’arco di sette anni. Intanto altri uffici raggiungono il benemerito studioso: è la chiamata della Conferenza episcopale sarda alla responsabilità di reggere il Seminario teologico regionale in un momento delicato per la vita di quell’istituto; e anche la nomina pontificia di consultore presso la S. Congregazione per il clero.
«Dopo questa preparazione così intensa e complessa, la nomina alle sedi vescovile di Norcia e arcivescovile di Spoleto. Il conferimento della dignità ha un luogo e un esponente: la cattedrale di Nuoro e il consacrante cardinale Sebastiano Baggio, già arcivescovo di Cagliari.
«Il nuovo presule, formato alla scuola della religione e della storia, troverà felicemente storico e illustre il campo del suo lavoro. Egli entrando in Norcia, vedrà nell’antichissima città sabina la “vetustissima urbs” diventata successivamente la Nursia romana e il fiorente municipio con leggi e magistrati propri; saluterà la patria che vide nascere il generale Quinto Sertorio e tre donne illustri dell’epoca imperiale: Vespasia Polla madre di Vespasiano, Plauzia e Plotina, quella consorte di Claudio, questa di Traiano.
«Ma con gioia tutta particolare, il presule seguirà il fine della sua missione e saluterà fervidamente i fedeli e in essi risalirà fino ai lontanissimi antenati, quelli che ricevettero il cristianesimo da S. Feliciano, vescovo di Foligno, oltre diciassette secoli or sono. E iniziando la sua opera come “padre e pastore”, sentirà il grande onore di entrare nella patria di San Benedetto, il forte e illuminato restauratore che nel motto “Cruce et aratro” restituì all’Italia l’amore alla fede avita e all’agricoltura negletta, e conservò al mondo aspettante i codici dispersi, ricchi della sapienza antica.
«Davanti a questa messe di beni sublimi, l’arcivescovo Alberti sarà confortato nel suo diuturno lavoro di “regere et docere” anche nella sede di Spoleto, la città così illustre, così grande, così insigne nel suo patrimonio storico, religioso, civile.
«Oggi soprattutto, mentre il degnissimo ecclesiastico ottiene la pienezza del sacerdozio e rivolge più vivo il pensiero alla sua nuova terra di ministero, gli giungano da stimatori e amici il più fervido augurio, il più venerato saluto».
Prof. Sebastiano Putzu: Per “Il Cristo di Galtellì”
Mi pare giusto associare a tale intervento del can. Raimondo Bonu (originario di Ortueri, scomparso nel 1981, con il quale anch’io ebbi, in anni lontani, un prezioso scambio) un altro scritto – questo di Sebastiano Putzu, professore e già sindaco di Oliena, intellettuale cattolico autore di diversi saggi di testimonianza e storia barbaricina (scomparve nel 2006) – uscito su Frontiera n. 8 del 1968, di recensione de Il Cristo di Galtellì, pubblicato da Ottorino Alberti nello stesso anno. Eccolo:
«Per i tipi della Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense è uscita, di recente, l’opera Il Cristo di Galtellì del Prof. Ottorino Alberti, ordinario di cosmologia nell’Università del Laterano, a Roma.
«Il Prof. Alberti, attraverso la consultazione dei documenti originali, ha voluto ricostruire la verità storica e religiosa del famoso Crocifisso di Galtellì.
«Il Crocifisso di Galtellì viveva nella nostra mente per il suo grande valore artistico e per i fatti taumaturgici ad esso attribuiti, ma vagamente, in un alone in cui storia e leggenda si confondevano.
«L’Alberti, con severa analisi critica dei documenti, ha sceverato ciò che era realmente avvenuto, da tutte quelle frange che la fantasia popolare vi aveva aggiunto, nel corso dei secoli. Ha dimostrato che sono inconfutabilmente veri i fatti soprannaturali attribuiti al Crocifisso, tramandati oralmente di generazione in generazione, e negati ostinatamente dall’incredulità e dall’ateismo.
«Sull’origine storica del Crocifisso, l’Autore fuga l’ingenua credenza che esistesse fin dai tempi di S. Pietro e che fosse opera di S. Luca. Galtellì non poteva possederlo fin da quei tempi immemorabili poiché, allora, quasi certamente, non esisteva come centro abitato. Il Prof. Alberti con una accurata e ampia indagine storica dimostra l’importanza che l’entroterra galtellinese ebbe sempre, fin dai secoli più remoti, ma conclude con l’osservare che ancora nel secolo VIII non si fa menzione di Galtellì come paese; esso entra nella storia solo negli ultimi anni dell’XI secolo.
«Trova plausibile la tesi dei Prof. Mario Ciusa Romagna, che il Crocifisso sia opera degli ultimi del 1300, per le sue caratteristiche estetiche pisano-toscane; concorda anche con lo Scano che lo assegna agli inizi del XV secolo. Avanza l’ipotesi che sia stato portato in Sardegna da Fra Paolo da Roma, eletto vescovo di Galtellì, da Bonifacio IX, nel 1394. Secondo l’Alberti, queste date trovano conferma in un altro fatto. I testimoni dei miracoli del Crocifisso, nel 1613, affermano alla unanimità, che i loro padri, nonni e bisnonni non dissero mai di avere visto arrivare il Crocifisso. Tre o quattro generazioni comportano un lasso di tempo sui duecento anni; siamo così riportati alla data ritenuta più approssimativa della scultura del Crocifisso, la fine del 1300.
«Una volta stabilita la scuola alla quale il Crocifisso artisticamente appartiene, e la data d’arrivo a Galtellì o almeno in Sardegna, l’Alberti passa al vaglio i fatti soprannaturali attribuiti alla Statua, per accertarne la veridicità. A questo scopo attinge direttamente alle fonti che risalgono al tempo in cui i fatti si verificarono.
«“Gli atti autentici, nella copia originale, del processo istruito per ordine dell’Arcivescovo di Cagliari Don Francesco Desquivel, a istanza del barone di Galtellì, si conservano nell’archivio della Curia Arcivescovile di Cagliari, dove appunto abbiamo avuto la fortuna di ritrovarli”. ( pag. 59).
«Il barone di Galtellì, Don Fabrizio Manca Guiso, nel 1612, supplicava l’arcivescovo di Cagliari, Don Francesco Desquivel, a volere assumere informazioni come rispondeva a verità che la statua del Crocifisso di Galtellì, diverse volte, aveva emesso gocce di sudore e di sangue.
«Mons. Desquivel, il 10 gennaio 1613, diede l’incarico al Vicario della diocesi di Galtellì, il canonico Antonio Sanna di Oliena, curato di Oliena e di Locoe, di recarsi a Galtellì per sentire i testimoni che, secondo l’informazione di Don Fabrizio Manca Guiso, avrebbero assistito al fatto prodigioso di essudazione della statua del Crocifisso.
«Nell’aprile dello stesso anno, il Vicario Sanna senti 31 testi a Galtellì ed altri tre ne sentì ad Oliena il 29 dello stesso mese. I testimoni, di diverso ceto sociale e condizione, di diversi paesi, affermarono alla unanimità di avere visto con i propri occhi gocce di sudore e di sangue sul corpo del Crocifisso; come anche con le proprie mani constatarono la morbidezza delle membra della statua, simile a quella del corpo umano; altri si dichiararono testimoni di fatti prodigiosi da attribuire al Crocifisso, come la pioggia miracolosa di Galtellì e di Oliena.
«Il miracolo della essudazione sanguigna si ripeté il 29 maggio 1667, mentre celebrava la Messa all’altare del Crocifisso il sacerdote Giovanni Stefano Manca. Anche stavolta il prodigio fu notato da diversi testimoni e se ne stese regolare verbale.
«In sintesi sono questi i fatti raccontati dal Prof. Alberti nella sua pregevole opera. Ma egli a questi avvenimenti dà per sfondo, lungo tutta la trattazione, un ampio panorama storico dell’ambiente e fa sfilare davanti ai nostri occhi arcivescovi, vescovi, sacerdoti, nobili e popolo, che hanno vissuto direttamente o indirettamente i fatti preternaturali del Cristo di Galtellì. Da una parte è la prudenza e la calda raccomandazione della Chiesa ai testimoni di dire solo quelle cose di cui sono assolutamente certi, dall’altra clero locale e popolo, sotto il sacro vincolo del giuramento affermano: “Abbiamo visto con i nostri occhi, abbiamo toccato con le nostre mani”.
«Così il Prof. Alberti con l’indagine scrupolosissima dei documenti e lo studio storico e psicologico della società di allora, dimostra che i miracoli del santo Crocifisso, che noi conoscevamo solo per una lunga tradizione, hanno fondamento e riscontro in una ineccepibile documentazione storica. E perché il lettore se ne renda conto di persona, in appendice al libro riporta i documenti originali.
«Per rendere accessibile a tutti la comprensione dei documenti riportati in una ristampa dell’opera, sarebbe bene affiancare ad essi la traduzione italiana, ed eliminare notizie di secondaria importanza, non strettamente necessarie per dimostrare l’assunto.
«L’Autore, nel corso dell’opera, alla luce della teologia, della Storia, del diritto, della scienza, spregiudicatamente accetta o respinge, da qualunque parte esse vengano, affermazioni o teorie che non trovino riscontro nella verità storica o religiosa. Perciò l’opera, oltre ad avere una squisita finalità religiosa, è un documento di grande valore storico e scientifico.
«Il Cristo di Galtellì è l’accorata voce di un’anima cristiana che auspica il ritorno dei cristiani ad una fede sentita, candida, profonda. Solo quando noi avremo una tale fede e saremo veramente umili di cuore l’Onnipotenza divina si manifesterà anche a noi con i segni tangibili del soprannaturale. L’Alberti, nella sua opera, ci vuol dire che la Divinità è lontana da noi perché noi siamo lontani dalla Divinità.
«Sfrondando dai fatti veri del Cristo di Galtellì, tutto ciò che c’era di vano e di superfluo, anche se apparentemente bello, Mons. Alberti ha voluto che trionfasse la verità della Croce, di quella Croce che è alfa e omega della vita nostra. “Con il nostro lavoro – dice l’Autore nella Presentazione – non abbiamo voluto fare altro che predicare Cristo Crocifisso, non per esprimere una nostra devozione soltanto, ma per ricordarci che il senso del nostro destino e la ragione della nostra speranza è Cristo, Cristo Crocifisso!”.
«La storia del Cristo di Galtellì è una storia meravigliosa; Mons. Alberti ce la racconta in uno stile piano che avvince il lettore, dalla prima alla ultima pagina. Al racconto di quei fatti inauditi sentiamo in noi accresciuta la fede e la fiducia nel soprannaturale. Il Cristo di Galtellì è una lettura interessante, e per l’uomo di cultura e per il popolano, siano essi fermi nella fede, o, se tentennanti, per rivivere il mistero del divino, del soprannaturale».
Regesto Alberti
Ecco dunque il repertorio dei contributi a Frontiera:
1)- Un “Piano di rinascita” della Sardegna che risale al 1780 – n. 1/1968, pp. 3/5
2)- La nobile alta concezione del mondo del gesuita francese ha vera consistenza scientifica? (“Il caso di Teilhard [de Chardin]”, parte prima) – n. 2/1968, pp. 41/43
3)- Il caso di Teilhard de Chardin ([“La nobile alta concezione del mondo del gesuita francese ha vera consistenza scientifica?”], parte seconda) – n. 3/1968, pp. 76/77
4)- Posizione della Chiesa, delle autorità civili e della Massoneria nella sommossa nuorese (“Un centenario che i sardi devono meditare: 26 aprile 1868, a su connottu – Storia ricostruita su documenti originali inediti di O.A., parte prima) – n. 4/1968, pp. 117/120
5)- Una lettera a Pio IX che illumina una pagina di storia nuorese (“La sommossa a su connottu del 1868, parte seconda) – n. 5/1968, p. 153
6)- Un documento inedito sugli “untori” in Sardegna – n. 6/1968, pp. 187/189
7)- Esiste una “questione sarda” che si estende a tutta l’antica storia dell’Isola – n. 7/1968, pp. 222/223
8)- Il santuario della Madonna delle Grazie a Nuoro – n. 8/1968, pp. 259/260
9)- Il problema della origine della umana specie ci appassiona sempre (parte prima) – n. 8/1968, pp. 305/306
10)- Il problema appassionante della origine della umana (parte seconda) – n. 11/1968, pp. 386/387
11)- Apostolo e diplomatico un cappuccino di Nuoro nel 1600 fu protagonista nella prima civiltà del Congo (“Un eroe dimenticato, P. Bonaventura da Nuoro”) – n. 12/1968, pp. 445/448
12)- Pio nono visto dalla Sardegna (“E’ tempo di conoscere la verità sui fatti del Risorgimento italiano falsificati dall’anticlericalismo liberale”) – n. 1/1969, pp. 32/33
13)- Vasi comunicanti. Tecnica e contestazione (“Società contemporanea”) – n. 2/1969, pp. 54/55
14)- Il materialismo e la contestazione sono conseguenza della civiltà dei consumi – n. 3/1969, pp. 112/114
15)- Il divorzio è una grave malattia sociale che non ha mai curato se stessa (“Una legge borghese solo per i ricchi”) – n. 4/1969, pp. 168/170
16)- La guerra della Chiesa sarda contro la delinquenza (in due parti) – n. 6/1969, pp. 227/232, 254/256
17)- Storia e scritti de “L’Unione Sarda” 1889-1958 (“La Bibliotheca Bibliographica Sardiniae. Un’opera monumentale che merita la riconoscenza degli studiosi”) – n. 1-2/1970, pp. 5/6
18)- Il Concilio Vaticano primo e la Sardegna (parte prima) – n. 4/1970, pp. 154/156
19)- Il Concilio Vaticano I e la Sardegna (“Lo stato religioso della Sardegna alla vigilia del Concilio Vaticano I”, parte seconda) – n. 5/1970, pp. 183/185
20)- Ricordo del Concilio Vaticano Primo e la Sardegna (parte terza) – n. 6/1970, pp.238/240
21)- Sei secoli di storia della devozione alla Madre di Dio in Sardegna – n. 6 suppl./1970, pp. 19/20
22)- Il Priorato di san Leonardo di Sette Fonti (“Documenti inediti”) – n. 1/1971, pp. 525/527
23)- Le fonti termali e le acque magiche della Sardegna (“Tra storia e leggenda”) – n. 3/1971, pp. 613/614
24)- Santa Giusta come centro di civiltà – n. 5/1971, pp. 691/692
A)- “Il Cristo di Galtellì”, di Sebastiano Putzu – n. 8/1968, pp. 282/283
B)- Ottorino Alberti, un nuorese che scrive di Nuoro – n. 3/1973, p. 83
C)- Ottorino Alberti – n. 10/1973, p. 339
D)- Oggi due incontri: lettera a Ottorino Alberti – n. 4-5/1974, pp. 335/336
Sul “Nuovo Bollettino Bibliografico della Sardegna”
Ecco di seguito i contributi forniti al bimestrale fondato nel 1955 da Giuseppe Della Maria:
1)- In margine alla questione sul primato nella Chiesa Sarda, parte prima (“Intervento di Filippo III nella controversia tra gli arcivescovi di Cagliari e Pisa”) – n. 64/IV bimestre 1968, pp. 5/8
2)- In margine alla questione sul primato nella Chiesa sarda, parte seconda (“La polemica tra Cagliari e Sassari sul martire turritano S. Proto”) – n. 65/V bimestre 1968, pp. 3/7
3)- Il Sinodo di Cagliari-Sede vacante – n. 66/VI bimestre 1968, pp. 7/10
4)- Nuovi documenti per la storia di Bonaria – n. 68/II quadrimestre 1969, pp. 3/5
5)- Luci ed ombre nella fortunosa vicenda del corpo di S. Salvatore da Horta – n. 69/III quadrimestre 1969, pp. 3/5
6)- Le carte della Sardegna di Rocco Capellino (“Rilievi geografici”, prima parte) – n. 70/I quadrimestre 1970, pp. 3/9 (con inserto di due carte cinquecentesche)
7)- Le carte della Sardegna di Rocco Capellino (“Rilievi geografici”, seconda parte) – n. 71/II quadrimestre 1970, pp. 3/10
8)- Le carte della Sardegna di Rocco Capellino (“Rilievi geografici”, terza parte) – n. 72/III quadrimestre 1970
1974, pp. 3/7
9)- Le carte geografiche della Sardegna – n. 92-93/1976, pp. 11/12.
***
Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).