MARCELLO TUVERI, IL GUSTO DELLA LEALTA’ PER L’AUTONOMIA REGIONALE (3) , di Gianfranco Murtas (parte terza)

Continua la terza parte, di cinque, che l’amico  GIANFRANCO MURTAS  ci ha messo a disposizione per ricordare la figura di MARCELLO TUVERI, importante figura della classe dirigente sarda del  secondo dopoguerra, distintosi nei molteplici  ambiti in cui ha prestato la sua opera: intellettuale, sindacalista, dirigente d’azienda, militante e dirigente, prima  sardista (autonomista, in contrasto con Antonio Simon Mossa e la sua linea indipendentista-federalista) e poi repubblicano.

 

 

 

 

 

 

 

Da disciplinata e “curriculare” dei sedici-diciotto anni precedenti, la militanza sardista di Marcello Tuveri si fa, nella seconda metà degli anni ’60, inquieta. L’esperienza professionale e di studio al Centro di programmazione regionale e i ruoli anche di dirigenza locale e regionale ne affinano il protagonismo sulla scena del partito, rafforzando in lui la nettezza delle scelte ideali/ideologiche da cui derivano quelle politiche materializzate all’interno di una formazione che, da regionale, si è fatta ormai – data l’alleanza con i repubblicani – anche nazionale.

 

1966-1967, altre premesse di svolte grandi e piccole

 

Mentre a Roma uno dopo l’altro si susseguono, nella IV legislatura repubblicana, i governi Moro-Nenni di centro-sinistra organico quadripartito (DC-PSI-PSDI-PRI), il quadro generale della politica sarda vede succedersi nella quinta legislatura autonomistica tre esecutivi: in neppure dieci mesi (dall’agosto 1965 al marzo 1966) ha concluso il suo corso Efisio Corrias, presiedendo il quadripartito DC-PSI-PSDI-PSd’A; il testimone l’ha raccolto Paolo Dettori con una giunta della stessa composizione e della stessa breve durata (aprile 1966-febbraio 1967), e dopo di lui Giovanni Del Rio (due anni e più, da marzo 1967 a giugno 1969) con un bicolore DC-PS unificato, senza più la presenza sardista che nel biennio precedente è stata quella di Giuseppe Puligheddu come titolare dell’Agricoltura e foreste.

 

E’ un periodo, questo della quinta legislatura regionale, nel quale esplode – come detto – la crisi interna al PSd’A squassato dalle provocazioni separatiste di Simon Mossa e si consuma perciò la rottura del patto politico-elettorale con il PRI; di più: si realizza, dopo tante discussioni e polemiche, la scissione formale dello stesso Partito Sardo e del suo gruppo consiliare.

 

Potrebbe anche dirsi, perché aiuta la comprensione del tutto, che nel parallelo campo repubblicano, spinto forse anche dal dinamismo della segreteria La Malfa, si registrano, ancora in Sardegna, diverse adesioni sia di esponenti di altri partiti, tanto più a Sassari, sia di studiosi di speciale ingegno fra i quali meriterebbe segnalare Bruno Josto Anedda, lo scopritore dell’inedito e prezioso Diario politico di Giorgio Asproni. La circostanza ha rilievo, nel contesto, perché Anedda assumerà già nel 1968 la segreteria regionale del PRI e sarà coprotagonista delle vicende che vedono la scissione sardista e il nuovo patto politico fra l’Edera repubblicana ed i frazionisti che, costituitisi nel Movimento Sardista Autonomista dopo l’espulsione dal PSd’A per essersi candidati alle politiche con il PRI ormai formazione concorrente e avversaria, annunciano una prossima confluenza.

 

Già nel congresso provinciale di Cagliari del gennaio 1966 la dialettica interna al PSd’A prende o accentua le forme che i precedenti congressi di Sassari (o di Ozieri, con il successo dei separatisti e la sconfitta della segreteria Ruju-Mele) e di Nuoro (con la vittoria invece della linea Mastino-Puligheddu-Maccioni) hanno affacciato insieme contestando la ingessatura della dirigenza superiore (segreteria politica, gruppo consiliare e preferenze assessoriali) e l’ “equivoco” separatista subito dall’on. Melis nel nome della dogmatica unità, comunque sia, del PSd’A.

 

Hanno senz’altro valenze diverse i tre congressi provinciali convocati a cavallo fra 1965 e 1966: per la svolta tendenzialmente (almeno tendenzialmente) separatista e comunque nazionalitaria in quel di Sassari, per la conferma filorepubblicana in quel di Nuoro, per gli equilibri interni di controllo della massima dirigenza politica in quel di Cagliari. Qui, in particolare, la vittoria della corrente riconducibile alla segreteria politica regionale e alla stessa deputazione parlamentare – che intende inglobare in sé la carica dottrinaria ed eversiva dei nazionalitari – significa marginalizzare l’area autonomista in cui si riconoscono, oltreché i più dei nuoresi, l’uscente segretario provinciale Corona (uomo di grande peso elettorale personale) e lo stesso Marcello Tuveri.

 

Sono 3.225 i voti congressuali della maggioranza melisiana contro i 1.275 della minoranza presentatasi al dibattito con una mozione detta di “Democrazia Sardista” a cui ha messo mano soprattutto Tuveri (che sarà eletto nella direzione insieme con Ovidio Addis, Tonino Uras, Sergio Bellisai ed Italo Ortu).

 

La mozione di Democrazia Sardista

 

Eccone di seguito il testo che, pur infine bocciato dal voto dei delegati congressuali, si presenta indubbiamente di spessore, ampiamente analitico dello stato socio-economico ed istituzionale isolano e pertanto meritevole di entrare nel patrimonio elaborativo del sardismo critico del periodo – critico ma pur sempre… di governo! portatore di una matura e collaudata consapevolezza di responsabilità pubblica.

 

Il documento che presentiamo ai sardisti della Provincia di Cagliari intende offrire un quadro delle scelte politiche ed organizzative che il Partito è chiamato a compiere nell’attuale fase di lotta per l’avvenire della Sardegna.

 

Non a caso è usata una intonazione discorsiva invece che la rigida precettistica in uso in elaborati del genere. La mozione è uno strumento di dialogo tra tutti i sardisti e tra i sardisti e le forze esterne. Per questo rifiuta gli atteggiamenti di rigida chiusura e di contrapposizione frontale.

 

Si articola in quattro parti:

 

1. Situazione economica e sociale della Sardegna

2. L’atteggiamento delle forze politiche

3. I compiti del partito regionale

4. Gli indirizzi e gli strumenti organizzativi.

 

1. LA SITUAZIONE ECONOMICA E SOCIALE

 

L’andamento dell’economia sarda negli ultimi anni è caratterizzato da gravi fenomeni di depressione e di sottosviluppo.

 

La metà del reddito è prodotto dallo sviluppo abnorme delle attività terziarie (pubblica amministrazione, commercio, servizi e turismo), mentre l’Agricoltura e l’Industria, i due più importanti settori produttivi di beni, coprono l’altro 50% rispettivamente in percentuale del 27% e del 23%.

 

Le attività industriali di recente impianto non colmano le perdite costanti subite nel recente passato dal comparto minerario.

 

L’agricoltura, pur essendo povera, costituisce ancora l’ossatura produttiva della regione. Sono in sviluppo sproporzionato le attività complementari dell’amministrazione pubblica e lo scambio di beni e di servizi.

 

La disoccupazione è in aumento nell’industria mineraria. Nonostante la massiccia emigrazione degli scorsi anni, l’esodo di mano d’opera si è notevolmente ridotto più a causa del ristagno dello sviluppo economico nazionale che dell’aumentata possibilità di occupazione nell’Isola. In agricoltura permangono larghe frange di disoccupazione nascosta e di sottoccupazione. I servizi in genere assorbono una parte esorbitante di mano d’opera a bassa produttività ad evidente danno dei consumatori. La prospettiva della piena occupazione è ben lontana dalla realizzazione.

 

Gli investimenti, oltre che delle note difficoltà nel settore privato, soffrono per la mancata attuazione dei previsti programmi delle partecipazioni statali. Anche i programmi di intraprese di dimensioni considerevoli ventilati periodicamente non consentono la valutazione in termini di reddito e di occupazione effettiva.

 

Le tendenze della nostra società regionale rendono ancor più gravi le carenze nell’applicazione del Piano di Rinascita. L’esperienza degli ultimi anni induce ad esprimere alcuni giudizi: a) i finanziamenti previsti dalla legge 11.6.1962, n. 588 non sono stati né straordinari, né aggiuntivi. Lo dimostra non solo la riduzione sensibile degli interventi extra-piano, ma anche la frequenza con cui gli organi dello Stato rifiutano di intervenire in settori di stretta pertinenza nazionale; b) la mancata discussione del piano quinquennale e dei relativi programmi annuali ha reso inoperante in pratica la legge n. 588 in quanto non ha provocato l’accreditamento alla Regione delle somme previste e la puntuale applicazione della legge; c) l’amplissimo ventaglio di interventi previsti nei programmi esecutivi ha reso inavvertibile la presenza del fatto nuovo, lenta e difficoltosa la spesa pubblica; d) è mancata la preparazione della amministrazione regionale e statale ai nuovi compiti.

 

Le speranze dei sardi nella rinascita vanno scemando di giorno in giorno in quanto la nostra Isola partecipa alla vita nazionale in modo sempre più marginale.

 

La programmazione regionale nel suo contenuto economico-sociale doveva essere concepita e realizzata come fatto proprio della autonomia, è apparsa invece un’attività complementare, relegabile in una fase contingente ed eccezionale della azione pubblica regionale.

 

Nel momento in cui non si è manifestata ancora alcuna concreta inversione della recente fase congiunturale sfavorevole, l’Isola sconta il fatto che non si è pervenuti ad una effettiva valutazione globale dei suoi problemi ed al coordinamento delle attività dei diversi centri d’azione pubblica.

 

2. L’ATTEGGIAMENTO DELLE FORZE POLITICHE

 

Quale responsabilità hanno le forze politiche del quadro da noi delineato? come hanno assolto il loro compito nei confronti dei popolo sardo?

 

Crediamo, in via preliminare, di dover prescindere, in questo momento, dall’esprimere giudizi fondati su riesami storici di lungo periodo. Il passato va apprezzato criticamente, ma non si può con una cronistoria, scritta con le lenti del presente, pretendere di giustificare gli errori… e le deviazioni, apparse via via necessarie per esigenze tattiche, come elementi di un unico coerentissimo e giustificatissimo disegno strategico che presenti il Partito Sardo, solo e sempre l’unico, che ha fatto bene e che ha detto giusto. La critica delle forze politiche passa per l’esame della responsabilità altrui, ma comprende anche le nostre.

 

La quarta legislatura regionale (1961-1965) si era aperta sotto il segno della unità di tutte le forze politiche nella rivendicazione di Piano di Rinascita e dell’assetto moderno dell’Isola attraverso l’industrializzazione. L’azione politica di tutti i gruppi era rivolta essenzialmente verso la grande opera di progresso economico-sociale per cui pareva imminente l’avvento, in modo quasi automatico, di un’età dell’oro per tutti i sardi. Il Partito Sardo d’Azione, grazie anche alla felice stagione politica del primo centro-sinistra e all’appoggio solidale degli amici repubblicani, costituì il fulcro di questa lotta. Ma come dopo ogni guerra scoppia la pace, così dopo la lunga estenuante battaglia scoccò l’ora della responsabilità, l’ora della programmazione.

 

Apparve chiaro allora, che il Piano di Rinascita era stato, per i gruppi moderati raccolti attorno alla Democrazia Cristiana un alibi, un modo di rinviare la soluzione dei più gravi problemi della società isolana. Per il polo estremo della sinistra sarda ancora unito nelle due formazioni comunista e socialista, il Piano era un’occasione per criticare tutte le esperienze di governo nazionali e regionali, raccogliere le tensioni più contraddittorie (i convegni della rinascita vedevano industriali e sindacati in gara nella rivendicazione contro lo stato centrale) in un cartello protestatario e negativo. Travolta la destra estrema nella lotta per la conquista del Piano, il Partito Sardo non seppe nella attuazione essere protagonista come lo era stato nella lotta per la rivendicazione. La fase di attuazione del Piano e stata il risultato di un compromesso nel quale la forza del partito è emersa per la sua rappresentanza settoriale più che come guida generale della politica di piano. Questa seconda fase dell’autonomia risentì, come del resto la prima, della mancata predisposizione degli strumenti organizzativi nuovi. Il Piano di Rinascita venne concepito, dalle forze al governo (compresi i sardisti), come un fatto speciale, gestito in modo non omogeneo all’azione politica regionale, aggiunto agli interventi ordinari.

 

La legislatura offrì, per il resto, scarso interesse nel senso che accentuò il carattere paternalistico-assistenziale dei frammentari interventi regionali (politica dei contributi, di sussidi, dei prestiti, degli interventi più vari).

 

Una parte della Democrazia Cristiana compì, è vero, alcuni tentativi in direzione socialista, ma solo allo scopo di escludere i sardisti dal governo regionale; manifestò un notevole vigore nel dare tono alle polemiche provincialistiche complicando il quadro intorno alla pluralità di interessi, spesso elidentisi tra loro, che pretendeva di tutelare.

 

Il PCI, incerto tra l’accettazione della logica di mercato, proposta dalle forze governative, e la sua sostituzione con ipotesi astratte [impostò] la propria polemica su elementi di disagio reali (l’emigrazione di massa) e su temi anacronistici in parte inconciliabili con le moderne dimensioni dell’impresa (lotta contro ogni grossa azienda definita monopolistica). Più che di produrre un certo indirizzo i comunisti sembrarono desiderosi di assumere responsabilità di governo.

 

Il Partito Socialista Italiano, tormentato dalla scissione realizzatasi alla fine del 1963, è stato incapace, anche quando si è liberato dalla corrente massimalista, di contribuire a predisporre, in Sardegna, l’avvento del centro-sinistra come fatto nuovo. Il passaggio al governo, avvenuto nella legislatura in corso, non è stato preparato dal PSI con un impegno programmatico.

 

Il Partito Sardo, in alcuni interessanti ma isolati tentativi, avviò il discorso. La DC pensò al centro-sinistra come ad una manovra con effetti interni. Venuto meno l’impegno del PSI ad una seria meditazione, la sua partecipazione alla giunta regionale ha assunto il significato di una presa di potere più che la realizzazione di un indirizzo innovatore.

 

L’azione socialdemocratica è stata di scarso significato politico, al livello regionale, in quanto ha comportato la sostanziale adesione ad ogni iniziativa della DC.

 

Le forze di destra, liberali compresi, non hanno svolto ruolo di rilievo, se si esclude una monotona ripetizione di posizioni di conservazione generica e scarsamente qualificata culturalmente.

 

I partiti politici, in Sardegna, sembrano dominati da eventi più grandi di loro. Se si esclude l’azione per la rivendicazione del Piano di Rinascita le forze politiche sono mancate al loro compito.

 

La ragione di questa scarsa compenetrazione tra le valutazioni politiche e le esigenze reali dei sardi è dovuta a varie cause di cui val la pena di sottolineare la mancanza di autonomia dei raggruppamenti nazionali, lo scarso approfondimento della sinistra laica e socialista. Quest’ultimo rilievo ci induce a constatare come siano ancora lontani sardisti, socialisti e socialdemocratici dall’aver intuito l’importanza di un comune linguaggio e di un comune metro di valutazione della realtà sarda che, in termini di prospettiva, consenta di intravedere possibilità di alternative e di effettivo condizionamento all’attuale forza della DC.

 

Di ciò la responsabilità è dei diversi raggruppamenti non escluso il nostro, che ha preferito talvolta la strada della facile collaborazione all’attesa dell’alleato o degli alleati ad un appuntamento che drammatizzando l’avvento del centro-sinistra, desse a tale formula un significato concreto.

 

3. I COMPITI DEL PARTITO REGIONALE

 

In queste condizioni non è difficile intraprendere un discorso sul ruolo del Partito Sardo d’Azione.

 

Il dover essere del nostro raggruppamento politico trova ancora il suo punto centrale di confronto sul contenuto della autonomia regionale, intesa come strumento, come quadro istituzionale essenziale per l’avvenire della Sardegna.

 

La linea di forza non è più solo la contestazione verso la collettività nazionale del disegno antimeridionalista ed antiregionalista del suo corso economico-sociale, ma la valorizzazione dell’Istituto autonomistico come momento centrale dell’azione politica regionale e nazionale.

 

In altre parole non basta più protestare ma bisogna dimostrare di saper fare, allo scopo di ottenere il diritto a governare la comunità regionale. Autonomia e programmazione, coscienza di valori regionali e progresso economico-sociale non sono termini antitetici ma bisogna dimostrare a tutti il profondo significato innovatore delle loro implicazioni.

 

Allo Stato italiano il Partito Sardo deve, nell’attuale fase, chiedere un atto di fiducia nella capacità di autogoverno dei sardi.

 

Rompere il sistema dualistico o binario che vede contrapposte volontà politiche nazionali e regionali, strutture amministrative statali, regionali e locali in processo di contrapposizioni inesauribile e logorante. E’ necessario che la riforma dell’Istituto autonomistico passi attraverso questo prima premessa dì valore: la Regione è non un ente con funzioni meramente assistenziali, non un nemico potenziale, non un avversario che avendo conquistato poteri in un momento di crisi della struttura statale, sia difficile eliminare dalla realtà. Concretamente vogliamo che la programmazione nazionale acquisti coscienza non dei limiti dell’azione statale in Sardegna e in tutte le altre regioni, ma della coincidenza potenziale e pratica dei fini regionali con quelli nazionali. Significa che l’esperienza regionale non deve essere isolata alle cinque istituzioni speciali ma generale e condizionante ogni riforma dello Stato italiano.

 

L’alternativa al nuovo assetto previsto dalla Costituzione è, per la Sardegna, l’acuirsi di anacronistici fermenti isolazionistici, difficilmente arrestabili persino in un raggruppamento responsabilmente italiano ed europeo come il nostro.

 

La via della integrazione conosce un solo contrario: quello della ribellione o della ostile indifferenza.

 

La soluzione che vuole la Regione al centro della vita economica e sociale dell’Isola è rispondente essenzialmente all’esigenza di portare avanti una coerente politica di piano.

 

La programmazione non è un pacchetto di miliardi aggiuntivi o sostitutivi della spesa pubblica in Sardegna ma prima di tutto coordinamento, processo di unificazione dei vari centri di interesse e di potere in una direttiva che elimini le disfunzioni e le irrazionalità di una società pluralistica e pluriclasse.

 

La programmazione, come esigenza di razionalità, è un meccanismo che in sé non ha segno democratico, né antidemocratico autonomistico né antiautonomistico. Ma le premesse di valore: diritto essenziale ad una vita civile per tutti, democrazia, libertà, mantenimento delle leggi di mercato impongono a questo meccanismo tecnico un suo reale adeguamento al momento storico presente. Diversamente essa sarà solo un elemento democratico, un orpello tra i tanti di cui si orna il nostro linguaggio comune.

 

La svolta nella politica di piano, che una seria strutturazione dell’istituto autonomistico comporta, è dunque quella della massima efficienza operativa delle scelte che sono state assunte meditatamente: e senza sotterfugi dalla comunità regionale, nel quadro nazionale ed europeo delle prospettive di sviluppo.

 

Le scelte interne del piano e dei programmi debbono essere rivolte ad uno scopo preciso: la piena occupazione della mano d’opera e l’efficienza produttiva del sistema economico regionale.

 

Domandarsi quale livello di felicitazione umana può realizzare la programmazione quando si avvale dell’aggettivo socialista, liberale o democristiano significa non avvertire il profondo distacco che esiste tra le scelte metapolitiche e la realtà della situazione sarda.

 

In quest’ordine di fini e di intenzioni si pongono come indilazionabili alcune soluzioni di carattere immediato.

 

La attuale maggioranza di centro-sinistra alla Regione, ancorché presentatasi come fatto omogeneo e di base, appare come una operazione di vertice, alla quale la DC, il PSDI ed il PSI sono stati costretti dalla debolezza interna dei loro gruppi. Non si tratta di porre il problema dei franchi tiratori all’interno di uno dei raggruppamenti, che interessa la loro disciplina di gruppo, ma il modo con cui si vogliono portare avanti i problemi della Sardegna.

 

A questo fine è necessario porre quanto prima all’attenzione degli altri partiti democratici i problemi più urgenti, misurare le loro concrete intenzioni e decidere se l’esperimento va continuato o meno. Oggetto di questa verifica regionale debbono essere:

 

1°. La istituzione di una prassi di consultazione permanente tra i gruppi che formano l’attuale maggioranza attraverso le segreterie regionali e provinciali. La necessità di risolvere le molte situazioni di equivoco esistenti nelle amministrazioni provinciali e comunali e l’opportunità di operare una consultazione costante sui più importanti problemi fra gli organi dei partiti sono le esigenze più sentite dalla base.

 

2°. Avviare un dialogo compiuto su tutti i problemi e stabilire più stretti legami tra i partiti della sinistra laica e socialista come premessa alla migliore utilizzazione delle forze democratiche minoritarie per una azione di stimolo e di accelerazione della politica regionale e nazionale.

 

3°. Rivendicare la partecipazione della Regione alla formulazione, approvazione ed attuazione dei piani e dei programmi statali sia generali che settoriali.

 

4°. Assumere il controllo da parte dell’Istituto regionale degli enti statali operanti nei settori produttivi esistenti, al fine di coordinare le politiche e riportarmi nell’ambito della rappresentanza regionale.

 

5°. Riforma della legislazione sul Piano di Rinascita al fine di garantire la rapida attuazione delle scelte.

 

6°. Riforma della struttura amministrativa della Regione con realizzazione degli assessorati in funzione dei servizi necessari (opere pubbliche, industria, terziario, agricoltura, etc.), non delle competenze.

 

Largo decentramento di tutti i poteri che possono essere delegati alle amministrazioni comunali e snellimento dei sistemi di controllo.

 

8°. Rifiuto definitivo di una pratica di governo che discrimini il cittadino in base alla tessera di partito.

 

9°. Rivalutazione della funzione del Consiglio Regionale nei confronti dell’Esecutivo, con il riconoscimento della responsabilità di controllo politico negli atti di governo.

 

10°. Pubblicità delle decisioni della Giunta Regionale.

 

4. GLI INDIRIZZI E GLI STRUMENTI ORGANIZZATIVI

 

Le conclusioni che il tempo e l’esperienza politica ci suggeriscono di formulare sul piano organizzativo sono suggerite dalla necessità di riordinare la struttura del Partito Sardo di Azione a esigenze attuali.

 

Gli indirizzi fondamentali sono: democratizzazione interna del Partito, istituzione di nuovi organi decentrati, regolamentazione delle attribuzioni di quelli esistenti.

 

I- La naturale maturazione politica dalle nuove leve, l’evoluzione storica del Partito ed un confortante fermento di idee, hanno porttato alla formazione di schieramenti differenziati in seno al Partito, che, lungi dallo stabilire costituite correnti autocefale, si propongono di creare nel Partito stesso aperture di dialogo produttive attraverso la contrapposizione di valide tesi od antitesi. E’ quindi per migliorare qualitativamente e quantitativamente la politica sardista che si rende necessario il riconoscimento ufficiale di forze operanti con prospettive diverse e tendenti ad apportare nuove linfe al vigoroso tronco della tradizione.

 

II- Le esperienze passate hanno dimostrato che per ottenere una maggiore resa della base elettorale ed evitare il frazionamento di voti preferenziali o scelte improduttive, sia necessaria la costituzione di una Commissione elettorale Provinciale, eletta dal Consiglio Provinciale del Partito, composta da 9 membri che rappresentino, su base proporzionale, anche la volontà di eventuali minoranze.

 

III- Al fine di assicurare al Partito delle entrate finanziarie fisse indispensabili alla sua attività, i proponenti formulano la necessità di un sovvenzionamento attraverso una tangente sulle indennità o gettoni percepiti a vario titolo per incarichi politici, tecnici o amministrativi ricoperti a nome del Partito. Tale tangente è ritenuta soddisfacente sulla base del 20% delle suddette indennità o gettoni. La tessera deve avere un costo effettivo ovvero essere data gratis.

 

Poiché quest’ultima ipotesi può riguardare soltanto alcune categorie (pensionati, studenti, disoccupati) gli appartenenti alle altre debbono corrispondere una consistente quota fissa da ripartirsi tra la Direzione regionale e quelle provinciali.

 

IV- Lo snellimento delle attività di Partito e l’importanza di affidare ad organi qualificati in loco la cura di zone chiaramente caratterizzate, rendono necessaria la costituzione di due Federazioni nelle città di Oristano e Carbonia, da concretarsi con un periodo di preparazione e formazione, in veste di sottofederazioni, con autonomia finanziaria ed organizzativa temporaneamente limitata.

 

V- Portare a termine la riforma dello Statuto onde impegnare su questo tema e sulle sue numerose implicazioni, il congresso regionale.

 

Una bozza riassuntiva

 

Fra le carte custodite nel Fondo Ovidio Addis si è rinvenuta una nota dattiloscritta di quattro pagine recanti in alto il nome di Marcello Tuveri, al quale parrebbe doversene attribuire la paternità. Datato anche tale documento al 1966, esso reca soltanto il generico riferimento ad un «contributo per un bollettino ciclostilato» cui sarebbero impegnati quattro dirigenti sardisti del Cagliaritano: Casu, Tuveri, Buccellato, Bellisai. Il che potrebbe riportare al dibattito che precede, accompagna e/o segue i lavori congressuali del gennaio.

 

Eccone il testo che chiaramente mostra i limiti della bozza forse neppure rivista.

 

Tempo di critiche contro la Regione. Le cronache dei giornali, e non solo di opposizione, abbondano di notizie sulle agitazioni di talune popolazioni nella Provincia di Nuoro. E’ da poco tempo che si è acquietata, almeno nelle manifestazioni più appariscenti, l’avversione verso l’istituzione di due assessorati. L’atteggiamento più diffuso dei cittadini non è proprio di favore verso l’istituto autonomistico. Il grado di divergenza tra le decisioni ed il modo di assumerle da parte della Amministrazione regionale e gli orientamenti dei cittadini sembra accentuarsi, invece che, come era da attendersi, diminuire con l’apertura del processo di programmazione. La programmazione rischia, cioè, di compromettere invece di rafforzare il ruolo dell’istituto autonomistico?

 

C’è da chiedersi, quindi, se la carica di risentimento che dallo Stato e dalle strutture pubbliche in genere sembra concentrarsi sulla Regione sia totalmente giustificata, tanto profondo è il solco che separa i destinatari dell’azione pubblica dai responsabili ai diversi livelli. Una ricerca sulle motivazioni pratiche della collettività, di una collettività che non esita a ricercare nelle sue componenti individuali la “via italiana alla giustizia” attraverso l’amico dietro la scrivania, non può essere condotta in questi fogli.

 

Qui sentiamo, impressionisticamente, cioè sulla base degli elementi che un’esperienza particolare fa emergere come rilevante da indicare qualche causa ed altrettanti possibili rimedi.

 

In primo luogo va detto subito che le istanze dei destinatari dell’intervento pubblico, specie in zone cosiddette “marginali” (cioè non destinate ad avere importanti insediamenti industriali, né gli effetti indotti della concentrazione della spesa regionale) sono pervenute troppo tardi alla rilevanza attuale. I canali di informazione, i mezzi attraverso cui i cittadini esprimono le loro esigenze (consigli comunali, provinciali, comitati zonali, consiglieri regionali etc.) sembra che non siano riusciti ad esprimere con la drammaticità d’oggi le loro esigenze. La Regione che non ha innovato molto in queste strutture, se si eccettua l’assunzione del controllo sugli atti dei Comuni, che non è certo una forma di interpretazione dei bisogni, e l’istituzione di nuove circoscrizioni comunali, che non può essere un male specie se si considera che vanno [affermandosi le] dimensioni comunitarie.

 

La rappresentanza di interessi delle zone critiche non può essere affidata eminentemente ai canali sin qui noti tra popolo di certe zone e amministrazione centrale. L’istituzione di un ente territoriale intermedio, la riduzione dei compiti delle province, il più largo decentramento non burocratico ma istituzionale di poteri deve essere attuato. Il circondario può essere fatto, vuoi nella forma della libera associazione di comuni, vuoi con dimensioni territoriali obbligatorie. Mi si domanderà, ma se anche questo ente non sarà ascoltato? La risposta non può che essere una: non si tratta, per molti problemi, di farsi ascoltare ma di acquisire una parte di poteri decisori, a scapito di quelle strutture che non sono capaci di esercitarli bene.

 

Si innesta a questo punto il discorso dei nuovi assessorati. La scelta della istituzione di nuovi organi esterni non può essere fatta all’insegna occasionale, ovvero “Cristo o Barabba”. Non si gioca al totocalcio con le strutture. Qui il rilievo non si rivolge all’opinione pubblica qualunquisticamente nemica di nuovi uffici, con un sottofondo di comprensibile buon senso, né agli oppositori, pronti a pagare un referendum abrogativo per attribuire [colpe] allo schieramento di centro sinistra.

 

Sta di fatto che si parla di nuovi assessorati non in dipendenza di obiettive funzionalità, che esistevano anche prima, ma che, come quelle della provincia di Nuoro, non hanno trovato espansione [forse espressione], ma solo quando aumenta il numero dei partiti al governo regionale o si propone un altro assessorato per la provincia di Nuoro, la relazione tra istituzioni ed esigenze pubbliche ha bisogno di modi diversi di essere prospettata perché sia compresa da tutti. Diversamente anche la più nobile esigenza appare [motivata] da calcolo delle convenienze contingenti. In altre parole la riforma degli Assessorati va collocata in un riesame tecnico-politico generale della Amministrazione regionale, dal quale potranno uscire 11 o 9, 8 o 7 Assessorati, ma che almeno si sappia che il numero non corrisponde ad esigenze provvisorie ed occasionali di equilibri di potere, ma ad una visione meditata dell’insieme.

 

L’ultimo argomento è la programmazione che ormai impegna da diversi anni la Regione senza rafforzarne il prestigio. La vicenda istituzionale è tutt’altro che esaurita e non si può al momento prevederne l’esito stante la incertezza della politica nazionale in materia.

 

La gravità delle violazioni circa il principio della aggiuntività, l’affievolirsi della considerazione dei problemi dell’Isola, di cui è segno la vivace polemica tra il Ministro Bo ed il deputato sardista in parlamento, può darsi che riescano ad imprimere un nuovo corso ai problemi del Piano di Rinascita. E’ ben chiaro tuttavia che solo lavorando tutti, molto e seriamente, è possibile superare le secche attuali in odine alla programmazione. Troppo tempo si è perduto. Bisogna risalire la china per dimostrare che non si è perduta la possibilità di vincere la sfida col Governo centrale per la realizzazione di un nuovo corso per la Sardegna.

 

Le fatiche della programmazione socio-economica

 

Di un qualche speciale interesse, anche per l’acutezza e innovazione della analisi, è l’articolo che Marcello, in quanto dirigente sardista, pubblica su La Voce Repubblicana, numero speciale 29.30 dicembre 1966 (“I due tempi dell’autonomia sarda”).

 

Ecco quanto, fra l’altro, egli scrive:

 

Qualunque discorso voglia farsi sugli ultimi venti anni di storia sarda bisogna riconoscere che l’autonomia regionale ha giocato sulle vicende politiche passate un ruolo determinante. E’ da aggiungere subito come persino la programmazione economica, che pure aveva radici nel passato ed è un fatto presente con importanti prospettive a venire, è destinato ad essere condizionato in modo determinante dalle Regioni. La realtà di questo Ente, infatti, aderisce all’evoluzione dell’ambiente economico e sociale e ne anticipa le trasformazioni più rilevanti. Concepita come mezzo per adeguare la legislazione e l’amministrazione centralistiche alle esigenze locali e come strumento di partecipazione democratica dei cittadini alla cosa pubblica, la Regione è stata costretta, tuttavia, fin dai primi anni di vita a rinunciare al ruolo di soggetto cui viene imputata l’attività di riforme.

 

Le ambizioni regionalistiche si attestano, nel primo tempo dell’autonomia, sulla fascia di assistenza sociale: talvolta in funzione di stimolo e difesa delle potenzialità economiche locali e quindi a fini di investimenti produttivi, talaltra in conto di pura e semplice soddisfazione di elementari esigenze di vita troppo a lungo represse.

 

Nel primo periodo di vita della Regione sarda (1949-1958), le formule politiche di governo sono segnate da una alterna collaborazione tra Partito sardo d’Azione e DC ovvero da un sostegno aperto o celato delle forze di estrema destra al governo regionale. Vigore autonomistico e volontà riformatrice qualificano i momenti più felici della collaborazione sardista. L’aderenza delle forze politiche alle strutture sociali arcaiche dell’ambiente distinguono l’apporto frenante di monarchici e missini: riprende un feroce campanilismo tra Cagliari e Sassari, si frappongono ostacoli all’intervento della mano pubblica nell’economia regionale (Ente sardo di Elettricità), si esclude ogni vocazione industriale alla vita dell’isola.

 

Oltre alla dura lotta tra progressisti e conservatori la Regione, nell’esercizio dei poteri avuti dalla Costituente, subisce la forza di compressione dello Stato in tutte le sue articolazioni. La diffidenza, l’ostilità, l’avversione di cui le amministrazioni centrale e periferica circondano l’istituto regionale fanno sì che il massimo Ente di decentramento territoriale non si attui come espressione della Comunità regionale e punto di incontro con quella nazionale ma come organismo aggiunto che, se vuole esercitare un ruolo, dovrà farlo attraverso la propria organizzazione diretta.

 

Lo spazio di questo Ente viene contenuto – secondo una logica sopravvissuta al recente passato – con tutti i mezzi, per la sua troppo immediata derivazione politica e perché ogni novità nell’organizzazione della cosa pubblica provocava la presunzione della superfluità delle spese.

 

Alle distorsioni statualistiche si aggiungono, ben s’intende, le carenze di una sistema economico caratterizzato da livelli di credito al limite della sussistenza con prevalenza delle produzioni agropastorali e della monoindustria di tipo estrattivo. E’ ovvio che questa condizione di primato nella depressione del Mezzogiorno aumenta la fame di “provvidenze”, intervento in conto capitale, mutui a tasso agevolato e tutti gli altri meccanismi consimili nei quali si compendia la politica di sussidio e l’autonomia assistenziale e difensiva degli anni cinquanta. E’ anche l’epoca delle riforma agraria che in Sardegna assumerà la veste di una macchina economico-amministrativa dotata di larghe disponibilità: l’ETFAS, pur essendo uno strumento politico-elettorale del partito di maggioranza, si collocherà in una posizione di conflitto con la Regione nei cui confronti tenderà ad un rapporto più di dominio che di servizio.

 

Gli anni cinquanta sono quelli degli interventi infrastrutturali più cospicui della Cassa per il Mezzogiorno (si pensi alle dighe dell’Ente Flumendosa) ma ispirati più alla forza di determinati gruppi di pressione locali che ad una autonoma logica frutto di intesa con la Regione.

 

Il primo tempo dell’autonomia regionale sarda si caratterizza dunque per la netta separazione tra Stato e Regione. E’ diffusa convinzione che la autonomia politica dell’Ente “derivato” possa essere garantita solo attraverso la divisione di poteri e competenze, onde evitare, mediante il procedere parallelo del loro esercizio, il minor numero di contrasti possibile. Tale convinzione va dimostrandosi sempre più illusoria in quanto la separazione è più un’occasione per vanificare attraverso mille costrizioni amministrative e giurisprudenziali l’apporto regionale che per esaltarne la potenzialità creativa.

 

L’azione regionale si rivolge a soddisfare le esigenze più disparate con una politica di pronto intervento che la induce a sostituirsi allo Stato, spesso lontano e assente, per ampliarne e integrarne gli interventi dal punto di vista finanziario. Non mancano opportune provvidenze legislative regionali in favore ad es. delle cantine sociali, del turismo, dell’artigianato ecc. ma, nel complesso, la legislazione è di tipo frammentario e la amministrazione non è stabilizzata intorno a precisi standard organizzativi.

 

La seconda fase dell’autonomia che ha inizio nel ’58-59 col ritorno del Partito sardo d’Azione al governo regionale si ispira a motivi di più stretto legame con la politica nazionale. Pur assumendo un carattere di precise rivendicazioni nei confronti dello Stato, la Regione si arricchisce di nuovi contenuti in tema di politica di sviluppo. Un diverso corso si apre all’insegna di un certo parallelismo più o meno compiuto tra l’evoluzione della idea di uno schema di sviluppo per l’intera economia nazionale e la richiesta del Piano di Rinascita. I termini del problema sono abbastanza noti. L’art. 13 dello Statuto speciale per la Sardegna stabilisce: «Lo Stato, con il concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola».

 

Esauritasi la polemica astratta sulla possibilità della programmazione in Italia, il significato del Piano sardo di Rinascita si chiarisce concettualmente come strumento di decisivo accostamento al livello di vita delle regioni più fortunate del paese e come punto di incontro dello Stato e della Regione per determinare insieme scelte economiche, direttrici di sviluppo e indicazioni di priorità. Prima di allora la partecipazione della Sardegna era stata ammessa in termini meramente finanziari e l’art. 13, pur essendo ispirato al principio della solidarietà nazionale verso le aree sottosviluppate, veniva concepito come un meccanismo per l’acquisizione caritatevole di ulteriori sussidi. L’idea dei piani regionali di sviluppo economico e sociale si fa contemporaneamente strada nella cultura politica nazionale e nella volontà dei sardi. L’ipotesi del piano sardo riconosce che la disponibilità finanziaria e il processo di accumulazione dei capitali all’ambito nazionale debba comporre con i fattori di sviluppo disponibili (non utilizzati o scarsi) a livello locale, onde collocare la economia dell’isola nella più ampia cornice nazionale e in quella dei mercati esteri. Al livello regionale la necessità di una politica di piano matura con maggiore rapidità in quanto si lega ad una carica fortemente rivendicativa nel confronti dello Stato ma anche perché gli anni utilissimi della prima autonomia hanno favorito una crescita notevole della società sarda in termini politico-culturali. Il Piano di Rinascita era stato, è vero, per lunghi anni l’alibi dietro il quale le forze moderate si erano trincerate per rinviare la soluzione dei problemi più grossi dell’isola, mentre la opposizione di sinistra ne aveva fatto uno strumento tattico per segnare le inadempienze governative, statali o regionali.

 

La previsione di un Piano di carattere organico, straordinario e aggiuntivo, caratterizzato dalla unitarietà nella globalità, avrà statuizione nella legge 11.6.1962 n. 588. Il primo governo di centro-sinistra non solo compie un atto di riparazione nei confronti dell’Isola ma imposta in modo nuovo i rapporti tra Stato e Regioni, in quanto i due centri di imputazione e di interesse partecipano alle diverse fasi della programmazione.

 

Piani e programmi si sono succeduti dal 1963 con ritmo più veloce nella fase di predisposizione che in quella di attuazione. Le forze politiche sono state tutte impegnate nello sforzo pur assumendo schieramenti diversi. Intanto la collaborazione del Partito sardo ha anticipato e favorito la costituzione di giunte di centro-sinistra con la partecipazione organica dei socialisti.

 

Gli obiettivi della programmazione (massima occupazione stabile, e più rapidi ed equilibrati incrementi di reddito) non possono dirsi raggiunti, anche perché l’esperienza è tutt’altro che compiuta (il Piano ha durata fino al 1975). La mancanza di idonei strumenti di coordinamento imputabili alla Regione, l’insufficienza delle amministrazioni pubbliche rispetto alle esigenze di una politica economica programmata, la difficoltà di corrispondere con strumenti di tipo tradizionale alle nuove necessità dei cittadini sono alcuni degli elementi che dimostrano come lo stato delle amministrazioni pubbliche condizioni, nella esperienza sarda, il successo della programmazione.

 

La lentezza nella realizzazione degli interventi costituisce uno scoglio contro il quale si scontrerà la volontà nazionale ove non venga adeguatamente rinnovata la struttura amministrativa del Paese.

 

Tra i fatti più recenti che sembrano testimoniare, al di là delle considerazioni ora espresse, la validità dell’esperienza dobbiamo sottolineare il riconoscimento che la Commissione Bilancio della Camera ha dato per gli indirizzi contenuti nel Piano quinquennale sardo 1965-1969. A questo apprezzamento dovrebbero seguire, nelle singole leggi di programma e specificamente negli interventi previsti dal Piano territoriale di coordinamento per il Mezzogiorno, concrete e precise determinazioni.

 

La tesi politica che concepisce la programmazione democratica come necessariamente articolata a livello regionale è avvalorata da alcune osservazioni di sostanza suggerite dalla particolare posizione della Sardegna nell’area meridionale. L’insularità della Regione e la sua condizione periferica rispetto agli assi di attrezzatura economica ed urbana esistenti nell’Italia settentrionale e da questi prevedibili ed in corso di realizzazione nel Sud comportano un discorso preciso. Il polo di sviluppo sardo non può fruire degli effetti indotti derivanti dalla irradiazione degli interventi come accade per il Mezzogiorno continentale.

 

La costituzione di capitali fissi sociali (porti, strade, ecc.) o la localizzazione di massici investimenti strategici non producono conseguenze considerevoli nell’economia regionale per la condizione di estraneità dell’isola al sistema economico anche meridionale. Si pensi solo al problema delle forze di lavoro. Mentre la creazione di un asse di attrezzatura economica tra due centri urbani del meridione può richiamare occupazione di forze di lavoro dalle aree contermini, senza impoverire le zone di provenienza, per quanto riguarda la Sardegna il problema va posto esclusivamente nell’ambito regionale, a meno che non si voglia ulteriormente depauperarla delle già scarse risorse umane disponibili.

 

Sussistono interrelazioni col Mezzogiorno, sia in ordine alle condizioni generali dello sviluppo, sia per quanto concerne il mercato delle produzioni e sia per l’interdipendenza della stessa area con il resto del paese, ma le peculiarità accennate inducono a confermare che il regionalismo sardo ha una validità in termini di politica economica veramente singolare. Questa coincidenza tra Regione amministrativa e dimensione economico spaziale dei fenomeni ci conferma la opportunità che il piano nazionale venga “regionalizzato”.  La convinzione che solo una compiuta integrazione della spesa statale e di quella regionale dei poteri, nel riconoscimento delle competenze, inquadrate in una visione realistica e non formalistica delle diverse sfere di attribuzione, può suggerire un modo muovo di pensare la Regione.

 

I contenuti nuovi della Regione come strumenti di programmazione comportano, per tutte le forze politiche, l’accettazione di una difficile sfida in termini di svecchiamento delle strutture statali e regionali, di ripensamento degli enti locali come partecipi della politica di sviluppo, di considerazione moderna dei rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici in modo che legalità ed efficienza non si trovino nell’attuale condizione di contrasto che rende tanto difficile l’affermazione della nostra democrazia politica.

 

L’affanno di una alleanza

 

Ripetutamente i repubblicani manifestano al direttore regionale sardista le loro preoccupazioni sullo scadimento generale del dibattito politico. Portatori di una sensibilità nazionale e, in quanto presenti nel governo Moro, sostanzialmente corresponsabili della sua politica, e insieme però preoccupati, nonché per il deprecabile stato socio-economico dell’Isola e la mancanza assoluta di prospettive, anche per la crescente inadeguatezza – questa la loro valutazione – del PSd’A a sostenere con un dibattito alto, essi intervengono ripetutamente sull’on. Melis, invocando un suo interessamento, decisivo e super partes. Si tratterebbe anche di restituire al PSd’A, nella linea della sua tradizione e in adesione allo spirito degli accordi del 1963, un protagonismo insieme ideale e programmatico che, all’interno del centro-sinistra, l’unificazione socialista sembra aver compromesso, sottraendo spazi e affermando l’essenzialità dell’accordo DC-socialisti. Le divisioni interne depotenziano, infatti, l’interlocuzione del Partito Sardo con le altre forze di maggioranza, vanificando tutto il faticoso lavoro compiuto negli anni addietro per affermare, in termini di proposta politica (soprattutto nel nesso fra pianificazione nazionale e pianificazione regionale), la centralità dell’area repubblicano-autonomistica.

 

Peraltro tutto si acuisce con la crisi della giunta Dettori, che comporta l’esclusione del PSd’A dal patto di maggioranza e la destabilizzazione di numerose amministrazioni locali. Ciò proprio quando la Sardegna sembra essere entrata nel suo annus horribilis, nel mezzo del disastro economico così nella agricoltura e pastorizia (denunciato anche dalla “invasione” di Cagliari da duemila pastori) come nell’industria, fra occupazioni di facoltà universitarie nei capoluoghi, grassazioni e sequestri di persone tanto più nel Nuorese, attentati ad amministratori e forze dell’ordine un po’ ovunque, sbarco di centinaia di celerini e baschi blu. Prende ancor più slancio una protesta in termini di alternatività, introducendo nel dibattito sociale le categorie del nazionalitarismo e dell’indipendenza.

 

Nuovamente e in più occasioni i repubblicani evidenziano quello che ritengono costituisca un limite della politica degli alleati: il cedimento progressivo alle istanze del separatismo e la nebulosità circa l’autocritica che la classe politica regionale, quella sardista compresa, dovrebbe compiere per aver realizzato una Regione burocratizzata e incapace sia di programmare che di spendere. O, in altri termini, di cogliere i termini nuovi in cui una politica di piano deve potersi compiere, perdendo invece di autorevolezza nella interlocuzione istituzionale e facendosi causa essa stessa di inadempienze verso la cittadinanza.

 

In altre parole, secondo i repubblicani sardi, la programmazione impone il superamento di quella politica binaria (Stato-Regione) che ha distinto finora gli interventi della mano pubblica. Non si tratta ovviamente di relegare l’istituto autonomistico in uno spazio di puro decentramento amministrativo, ma di precisare meglio il concorso di competenze e responsabilità fra l’Amministrazione centrale dello Stato e la Regione (peraltro di rango autonomistico speciale). Ma pare indubbio che la quantità di risorse da destinare alla politica programmata (per la parte corrente e per quella d’investimento) debba essere lo Stato a fissarla, dovendo esso perseguire piani di ridistribuzione territoriale a fini perequativi sul piano nazionale. Alle Regioni – alla Regione – tocca partecipare, con un contributo di conoscenza delle proprie necessità, alla volontà deliberativa e tocca poi applicare, entro il quadro delle sue competenze statutarie, le norme finanziarie, incrociando la propria programmazione con quella globale. Insomma, la dialettica istituzionale vale ad ottenere il risultato, non ad imporre o a contrastare.

 

Quel che ai repubblicani sembra manchi nell’alleato sardista – e questa è anche, per larga parte, l’opinione di taluni dirigenti dell’area dissidente, ad esempio dei sassaresi Ruju-Mele-Razzu-Merella, dei giovani nuoresi Massaju e Pau, dei cagliaritani Bellisai e Tuveri – è lo sforzo di aggiornamento politico-istituzionale in rapporto alla nuova stagione della programmazione economico-sociale che deve e vuole qualificare il centro-sinistra. E tutto deve nascere da una salutare revisione dei comportamenti non corretti invalsi e ormai radicati nella vita ordinaria della Regione autonoma: con i costi della sua burocrazia in permanente implementazione, con giacenze di tesoreria e residui passivi che superano i livelli di guardia.

 

Quel che il Partito Sardo sembra faticare a comprendere, secondo l’opinione dei repubblicani (e di una buona parte della dissidenza interna sardista), è la necessità di un ammodernamento ed efficientamento della struttura politico-istituzionale dell’Autonomia speciale e, come seconda fase, il riversamento della sua cultura regionalista per la riforma radicale dello Stato.

 

La tempesta che schiaccia il PSd’A nelle sue debolezze e rende per alcuni aspetti problematica la conferma del patto unitario con il PRI ritarda di un anno anche il congresso regionale dei Quattro Mori. Non mancano per intanto le riaffermazioni di principio circa la prossimità con i repubblicani, come fa Anselmo Contu confermando, non a caso, la lealtà costituzionale del Partito Sardo («… gli ideali di fondo del credo sardista che si identificano con la difesa intransigente dei diritti e degli interessi dell’Isola, delle particolari esigenze del popolo sardo, della sua particolare fisionomia etnica e storica, sia pure nel quadro dell’accettata e sofferta appartenenza alla nazione e allo stato Italiano», cf. Il Solco, nuova serie, gennaio 1967) o partecipando ad attività promosse, a livello nazionale, dal PRI, come fa Giuseppe Puligheddu al convegno agricolo svoltosi a Roma nell’aprile o ancora aderendo alle campagne di abbonamento a La Voce Repubblicana. Rientra in questo ambito anche la disponibilità data dall’on. Melis a partecipare alla campagna elettorale per il rinnovo, a giugno, della assemblea regionale siciliana (egli parla a Caltanisetta), così come non manca la partecipazione alle commissioni di lavoro istituite attorno alla direzione nazionale: Puligheddu è nella commissione Agricoltura, Ruju in quella Enti locali.

 

Ma cosa vuol dire “sardismo”?

 

L’autunno del 1967 vede una accelerazione della crisi interna al PSd’A. Coscientemente o meno, le contraddizioni sviluppatesi nell’ultimo biennio esplodono deflagranti materializzando progressivamente quello sbocco politico che segnerà la storia del sardismo, marcando un prima – il ventennio che ha superato la scissione lussiana del 1948 – e un dopo a progressiva evoluzione indipendentista.

 

In estrema sintesi, i passaggi sono qui di seguito riesposti, anticipati da una sorta di tavola valoriale che Antonio Simon Mossa pubblica su La Nuova Sardegna del 10 ottobre e che si conclude con categoricità nazionalitaria: «Non crediamo certo allo slogan “Sardegna Nazione mancata”, coniato dai rinunciatari di ogni tempo e di ogni colore. Noi crediamo nella “Sardegna-Nazione”, e non accettiamo compromessi, perché abbiamo le mani pulite». Ed è a tali conclusioni dottrinalmente assertive che Marcello Tuveri risponde con l’articolo che La Nuova Sardegna pubblica il 31 ottobre (cf. “Il sardismo ieri ed oggi”). Eccone il testo:

 

Credo che tutti i sardi siano d’accordo nel riconoscere che la nostra Isola stia attraversando uno dei periodi più duri della sua storia. Alcune profonde mutazioni nel suo tessuto economico e sociale (emigrazione, nuove forme di banditismo, primi insediamenti industriali, etc.) hanno provocato una molteplicità di contrasti tra diversi interessi settoriali e territoriali che le forze politiche stentano a comprendere e dominare. Alla confusione delle spinte si accompagna, come sempre, una notevole confusione di idee.

 

Sintomi di questa crisi si possono ritrovare scorrendo i giornali, ascoltando le forme di azione politica ed i loro contenuti. Tra questi ultimi si discute molto, ad esempio, intorno al significato da dare al sardismo.

 

Lungi da me l’idea di teorizzare, anche per la palese insufficienza di strumenti di ricerca in questa materia, ma poiché corrono strane opinioni sul contenuto di una esperienza politica che vivo da qualche lustro, mi pare opportuno dire che per capirla pienamente bisogna sgombrare il terreno da alcuni equivoci che sono sorti intorno ad essa.

 

Apprendo per esempio che esiste un sardismo dei “sardisti” ed un sardismo di tutti i partiti, cioè un sardismo dei militanti del Partito Sardo d’Azione, ma non di tutti, ed un sardismo dei sardi, uniti senza distinzione.

 

La sorpresa in questo modo un po’ troppo vago e generico di ricostruire il sardismo è pari a quella da me provata nell’assistere ad un recente convegno in cui è stato teorizzato un sardismo di destra (quale sarebbe stato quello dei liberali coccortiani dei primi decenni del secolo) ed un sardismo di sinistra rappresentato dalle proposizioni regionaliste di questi “sardisti”. Entrambi questi “sardismi” avrebbero avuto ben altri effetti sulla storia sarda di quanto ne abbia determinato poi il Partito Sardo d’Azione, costituitosi soltanto nel 1921.

 

Peccato che i fatti accaduti da allora non sembrino confermare questa interpretazione (e i fatti sono la lotta politica del primo e secondo dopoguerra) perché, aperta la strada a tali speculazioni, si potrebbe certamente ritrovare, proseguendo a ritroso nel tempo, un sardismo paleocristiano, punico ed nuragico e magari prenuragico.

 

A parte gli scherzi, credo che si possa senza difficoltà recuperare un valore al sardismo solo se si tengano presenti alcuni dati che, a mio avviso, sfuggono anche a chi pretende di inventare un pansardismo comune agli antiautonomisti del Movimento Sociale, ai nostalgici dell’unitarismo monarchico, agli antiregionalisti liberali, agli autonomisti tattici dell’estrema sinistra.

 

La storia delle parole, si sa, apre la strada alla comprensione delle istituzioni, dei movimenti politici, delle idee. Ora, appunto le espressioni “sardista” e “sardismo” sono nate col Partito Sardo d’Azione. Anzi furono dapprima nient’altro che termini dispregiativi con i quali gli avversari qualificavano quegli ex combattenti che volevano l’autonomia della Sardegna come mezzo per il progresso della loro terra.

 

Fin da allora apparve chiaro, ed il futuro confermò quella prospettiva, che sardismo e partito sardo erano tutt’uno, non solo, ma che non potevano confondersi con un generico amore alla Sardegna, con un sentimento anche profondo di simpatia per le cose nostre. Il sardismo era un fatto politico, cioè una manifestazione di volontà di modificare le condizioni dell’Isola attraverso un programma di riforme, che riguardavano insieme la Sardegna e l’Italia (e di ciò è prova la tentata estensione della esperienza ad altre regioni). Per realizzare quelle riforme non bastava la buona volontà di uomini sparsi in tutti i partiti, né il sentimento di alcune persone illuminate da amor patrio, ma una struttura organizzativa, un’associazione di uomini che partecipassero come tali – in modo piano – al confronto con le altre forze politiche.

 

Il sardismo come moda (uno slogan che corre è: siamo sardisti!) come atteggiamento folcloristico coerente ad un sistema autarchico di valori, come interesse qualunquistico od occasionale per i fatti che ci circondano non ha mai convinto i sardisti ad abbandonare la formula dell’associazionismo partitico per confondersi in un movimento di opinione. E sì che nel secondo dopoguerra la idea di un movimento al di sopra dei partiti ebbe qualche seguace, ma si trattava in genere di persone o gruppi che avevano una visione chiara soprattutto dei loro interessi di categoria e che ritenevano di poterli affidare meglio ad un partito nazionale, dando ogni tanto testimonianza di amore alla propria terra in un circolo di benpensanti od in un’assemblea unitaria. Come dire persone che aspiravano ad un doppia vita, insomma dei dott. Jeckill e Mr. Hyde della politica!

 

Ho detto quel che era il sardismo. Direi che gli avvenimenti del nostro tempo confermano la validità di quella intuizione politica che cioè non si desse sardismo senza Partito Sardo d’Azione. L’attualità di quella scelta è dimostrata non solo, e non tanto, dalla accettazione della protesta contro il Governo, lo Stato, la nazione (che al limite può essere persino un alibi, un’area di riposo per non fare i conti con noi stessi, un attendere dagli altri che facciano per noi quel che noi non riusciamo a fare per noi stessi) ma dall’interesse con cui le forze politiche e l’uomo della strada guardano al Partito Sardo d’Azione ed al sardismo che attraverso di esso si esprime politicamente. Interesse che, in un momento difficile come questo, è rappresentato dalla sete di nuove idee, di nuove indicazioni politiche, non di romanticherie regional-nazionalistiche, né di espressioni paraboliche ed astratte.

 

Il Partito Sardo è stato una forza politica che ha anticipato soluzioni: l’autonomia come strumento di autogestione e di partecipazione responsabile alla vita nazionale; lo sviluppo industriale; la rinascita, come scelta razionalizzatrice di piano, cioè mezzo per la facilitazione ed il progresso economico e sociale. Tutte scelte tutt’altro che indolori per la nostra società isolana e tutte le scelte che gli altri partiti non sempre e non fino all’estremo erano disposti ad accettare.

 

Ora bisogna andare avanti. Bisogna, nella confusione delle spinte, recuperare il significato proprio del sardismo (non quello di comodo, tattico o velleitario), ma concreto, legato cioè ad una associazione politica, quindi ad un partito, giacché attraverso il partito si può «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» come dice la Costituzione della Repubblica di cui i sardisti sono soci fondatori.

 

Quelli che Gramsci chiamava «le veneri e gli amorini dell’oratoria regionalistica» sono da tempo alle nostre spalle. Ci hanno aiutato a superarli Bellieni, Puggioni, Mastino, Luigi Oggiano. Per cui il sardismo non è qualcosa “bon à tout  faire”. Per intendere come, pur non avendo sviluppato una rigorosa ideologia, il Partito sardo abbia ben fissato i termini della sua presenza politica, basterebbe leggere l’art. 2 del suo Statuto approvato nel 1944 (oramai bisognevole di una seria revisione) che molto chiaramente precisa:

 

«Il partito si propone di promuovere la rinascita della Sardegna e di tutelarne gli interessi a mezzo di organi regionali attuali e da crearsi, di ottenere l’autonomia economica e amministrativa nella unità della Nazione italiana: di risanare il costume politico [chiamando] i rappresentanti delle classi operaie ed agricole a sostenere i loro interessi che sono gli interessi vitali dell’isola.

 

«Il Partito Sardo d’Azione – continua quella carta – è il primo nucleo di un più vasto movimento autonomista che dovrà sorgere in tutta l’Italia allo scopo di dare allo Stato un più sapiente ordinamento in corrispondenza alle esigenze spirituali, culturali, economiche e geografiche dell’intero Popolo italiano».

 

Altro che indipendentismo e separatismo. Altro che vedere la nostra Isola con gli occhi del Sudamerica e della rivoluzione castrista!

 

Essere giovane, essere innovatore

 

Nelle complesse (e dolorose) vicende di fine 1967, primi 1968, Marcello Tuveri porta un bagaglio culturale e una esperienza di vita, e professionale – allargata anche al sindacato – e politica, già di due decenni: reca una sensibilità che lo distingue, per generazione, dalla maggioranza dei dirigenti che hanno il “controllo” del partito, dei direttivi e del gruppo consiliare: dei Melis, dei Contu, dei Soggiu, ecc. Non per fatto generazionale ma piuttosto per affinità di giudizio su talune provocazioni extraregionali ed anche per un certo “manovrismo” che tende a sganciare il partito dalla “manoferma” della dirigenza verticista, egli incontra gli anziani padri della patria… lontani soltanto per territorio, come Pietro Mastino e Luigi Oggiano, o come lo stesso Giuseppe (Peppino) Puligheddu dominus elettorale nuorese, che dopo quattro legislature trascorse in Consiglio punta ad una responsabilità di giunta nel settore che meglio conosce: l’Agricoltura e che infine, per un biennio, conquista ovviamente non senza reazioni. Trova maggiori consonanze con uomini come Sergio Bellisai a Cagliarti, come Tonino Uras ed Ovidio Addis ad Oristano, come Nino Ruju e Nino Mele a Sassari, e fuori del partito come Lello Puddu, amico-Fratello.

 

Certamente i valori ideali e politici, semplicemente qualificati come separatisti, portati nel sardismo da Antonio Simon Mossa costituiscono per vaste aree del partito, e per lui, un problema di compatibilità. Lo stesso Simon Mossa, ben consapevole di come la sua proposta sia recepita, e dunque accolta o respinta, dalla platea sardista e più in generale dalla opinione pubblica interessata alla politica, in una lunghissima lettera indirizzata, nel novembre 1967, ad Anselmo Contu presidente del consiglio regionale del partito, dà conto del proprio indipendentismo federalista, scrivendo fra l’altro:

 

«Il nostro amico Marcello Tuveri, dopo una storia del Sardismo ad usum delphini, dichiara che non c’è posto per il Sardismo e nel Sardismo dei separatisti e dei castristi.

 

«L’equivoco di Tuveri (a parte la buona o mala fede di quanto afferma) è soprattutto sulle parole: separatismo e castrismo hanno un preciso significato politico. Separatismo significa rottura totale con l’Italia, cioè guerra all’Italia. Castrismo significa rivoluzione permanente e irresponsabile con l’aiuto di forze estranee.

 

«La nostra posizione è invece “indipendentista” e “fidelista” (e non a caso avevo scelto lo pseudonimo di Fidel). Indipendentista (aggiungo federalista) ha un preciso significato, che i maggiori scrittori del Sardismo hanno fatto proprio sin dai primi tempi. Fidelista significa invece: l’ansia di liberarsi dalla schiavitù coloniale e raggiungere con mezzi propri, cioè con le forze unite del popolo oggi oppresso, quella autonomia e quell’autogoverno indispensabili per superare il dislivello socioeconomico con i paesi più evoluti […].

 

«Ma vi è di più, e Tuveri non meriterebbe questa chiosa, se non come rappresentante di un gruppo ben determinato di sardisti di poca o nessuna fede. Egli afferma, con estrema disinvoltura, che nella concezione sardista l’autonomia non è altro che autogestione di funzioni statali delegate per una partecipazione più attiva alla vita nazionale. Questa confezione è quella che i francesi chiamato “decentralisation de l’Etat” e significa l’opposto dell’Autonomia […].

 

«Indipendentismo federalista […]. E’ una posizione europea. E’ la qualificazione per una “Europa delle Regioni”, o “Europa delle Comunità”, o “Europa delle Etnie”. Il principio federale propugnato dal Sardismo sin dalle origini è questo».

 

I tormenti d’un partito smarrito

 

Al termine di una fase molto tribolata, di contatti personali ed epistolari fra i massimi dirigenti, per sostenere ciascuno la propria posizione e contrastare l’altrui, nel consiglio regionale del PSd’A convocato ad Oristano il 27 novembre – l’anno è sempre il 1967 –  si fronteggiano l’area del sardismo tradizionale o “autonomista”, facente capo ai nuoresi Mastino-Puligheddu-Maccioni-Marcello, ai sassaresi Ruju-Mele ed ai cagliaritani/oristanesi Corona-Tuveri-Uras, e quella del sardismo “innovatore” e contestativo – per semplicità indicato “separatista” –  che individua in Antonio Simon Mossa il nuovo leader; la segreteria di Giovanni Battista Melis (e con essa sono i tre consiglieri regionali Anselmo Contu, Pietro Melis e Carlo Sanna), preoccupata di salvaguardare l’unità del partito e non esprimendo alcuna ripulsa della suggestione nazionalitaria, di fatto fa maggioranza con gli “innovatori”, determinando la reazione degli sconfitti che, con Pietro Mastino e Giuseppe Puligheddu in testa, abbandonano i lavori.

 

Si tratta di decidere circa la eventualità di confermare l’alleanza politico-elettorale con il PRI, ma in una cornice di estrema chiarezza sul piano dei riferimenti ideali e politici, che l’opzione separatista, invece, obiettivamente confonde.

 

L’interesse che entrambe le parti mostrano alla proposta repubblicana non è lo stesso: infatti, da parte dell’area Melis (e con essa quella degli” innovatori”) si ritiene compatibile la prosecuzione dell’intesa con le novità di prospettiva nazionalitaria intervenute in casa sardista. Da parte della minoranza ciò è, invece, considerato assolutamente impossibile.

 

Sono dunque le linee politiche repubblicane che, intrecciandosi alle (buone) relazioni personali di Melis con La Malfa, delimitano il campo delle scelte cui il PSd’A è chiamato a dare unitariamente una risposta. Tanto la direzione regionale quanto lo stesso segretario nazionale dei repubblicani ripetutamente interpellano il Partito Sardo: il 12 novembre la direzione del PRI sardo ha formalizzato le condizioni politico-programmatiche che, sole, potrebbero sostenere la replica, alle elezioni parlamentari, di una scheda unitaria, e fra l’alto batte sul tasto, per molti aspetti preliminare, della lealtà costituzionale del PSd’A rispetto alla Repubblica «una e indivisibile».  Appena nove giorni dopo Ugo La Malfa esprime a Melis la sua preoccupazione: «Sono rammaricato della situazione che continua ad esistere col PRI locale. Seguo attentamente la questione e spero di trovare il bandolo di questa aggrovigliata, e per me assai spiacevole, matassa».

 

Il documento sardista, votato dai consiglieri rimasti ai lavori dopo l’abbandono da parte della minoranza, contesta la legittimazione della direzione regionale a rappresentare il PRI nella sua ufficialità e così anche le condizioni politico-programmatiche da essa enunciate nel documento del 12 novembre, asserendo che «l’accordo dovrebbe soprattutto riguardare esigenze e impostazioni di politica nazionale, le sole idonee  a stabilire una piattaforma comune prima per la lotta e poi per l’azione in campo nazionale» ed offrendo comunque la disponibilità ad attivare «un organo di coordinamento permanente che studi e proponga decisioni comuni».

 

Sul merito del «così detto “separatismo” o “indipendentismo” che sembra preoccupare la Segreteria Regionale del PRI, al di là del reale significato del fenomeno che va inserito, con la responsabile sensibilità delle forze politiche verso gli irrisolti problemi della comunità sarda», la mozione sardista sostiene trattarsi di istanze da ricomprendersi «nel grande solco democratico del federalismo italiano ed europeo del Partito Sardo d’Azione e del Partito Repubblicano Italiano». Chiarisce quindi come sia stata «la indifferenza nazionale rispetto ai problemi sardi» ad aver «fatto riaffiorare nella coscienza dei sardi una totale sfiducia nella presenza rinnovatrice dello Stato in Sardegna», riaffermando la «profonda fede» sardista «nell’autonomia delle comunità locali e dell’istituto Regionale, potenziato mediante una radicale riforma dello Statuto Sardo che dia più precisi e concreti poteri alla Regione, inteso come nucleo originario e primo avviamento alla riforma dello Stato in senso federalistico con l’abolizione dell’antistorica e superata struttura provinciale, e come preparazione a quella più vasta unità federativa di Stati nazionali a livello europeo».

 

La nuova riunione del “parlamentino” sardista, convocata ad Oristano per il 3 dicembre in vista di un incontro (fissato per il 7, ma poi rinviato) di Melis con La Malfa, è disertata dalla minoranza ed ancor più si appresta ad rinfocolare le polemiche interne che hanno ampia eco anche sulla stampa regionale oltreché nei precongressi sezionali che preparano l’assise regionale fissata per il prossimo febbraio alla Fiera di Cagliari.

 

Al congresso sardista non partecipa la minoranza, che declassa l’assemblea dei delegati al rango di “convegno” e ancor più marca così il suo distacco dal partito. I repubblicani sono presenti con il segretario regionale Puddu ed un messaggio di saluto del ministro Reale. La relazione di Giovanni Battista Melis è lunghissima e, come sempre, appassionata, ben consapevole essendo l’oratore della criticità del momento. L’ampio dibattito che segue, la discussione intorno ai temi portati dalle quattro mozioni depositate alla presidenza che soltanto incidentalmente riprendono il tema del patto unitario con il PRI (dando forse per scontato che sarà la minoranza autoesclusasi a confluire nel partito alleato o ex alleato) e la risoluzione finale prospettano uno scenario assolutamente nuovo per il PSd’A. L’art. 1 del nuovo statuto, approvato dallo stesso congresso, definisce quale obiettivo finale del partito «l’autonomia statuale della Sardegna, ben precisata costituzionalmente nell’ambito dello Stato italiano concepito come Repubblica Federale […] nella prospettiva della Confederazione Europea e Mediterranea».

 

Naturalmente le conseguenze sono immediate: un comunicato della corrente autonomista del PSd’A, rimproverando al «convegno» sardista il rifiuto di dare la parola al rappresentante della minoranza, nella persona di Armando Corona, e diverse irregolarità statutarie, rileva come nella risoluzione finale siano stati «trasfusi concetti e posizioni in contraddizione gli uni con gli altri, nel tentativo di conciliare l’inconciliabile e di offrire uno spettro  di prospettive buono per tutte le occasioni e tutte le alleanze», deprecando «la convergenza del gruppo Melis sulle posizioni separatiste approdate ormai alla richiesta di una non ben identificata “autonomia statuale”».

 

A fronte di una disponibilità soltanto generica del segretario nazionale del PRI a riprendere da dove si è lasciato, contano il rigetto netto che la direzione regionale dell’Edera oppone alle tesi sardiste ed i contatti che si infittiscono della minoranza “autonomista” del PSd’A con la dirigenza repubblicana per una partecipazione di propri esponenti alla lista che sarà presentata alle ormai imminenti elezioni politiche.

 

Una sorta di “diario” insieme temporale e tematico della crisi interna al Partito Sardo e della rottura dell’accordo con il PRI, fino alla vigilia dell’epilogo elettorale del 7 maggio 1968, sviluppando in particolare i diversi aspetti della questione separatista (anche con una serie di inserti speciali curati da Michelangelo Pira) è rappresentato dal quindicinale Tribuna della Sardegna, nato nel 1966 con la direzione dello scrittore Marcello Serra e passato, nell’estate 1967, al giornalista e saggista storico Bruno Josto Anedda, collocatosi da un anno circa – come detto – nell’area ideale e politica repubblicana.

 

Il periodico costituisce un originale modello giornalistico che Anedda, professionalmente ancora legato alla agenzia giornalistica Italia e con uno stabile rapporto di collaborazione con Il Sole 24 ore, in parallelo alla sua attività di ricercatore presso la facoltà di Scienze Politiche di Cagliari, trasforma in uno spazio di ampio e libero dibattito civile e politico. Pur mantenendo questi tratti neutri o trasversali, la Tribuna accoglie in progressione contributi di cui è evidente la matrice repubblicana per il che, può dirsi, si fa inevitabilmente parte, essa stessa, del confronto di opinioni. Nella testata, con sobrietà ed eleganza, Anedda accosta e fonde fra loro il filone democratico risorgimentale sardo di derivazione asproniana e quello contemporaneo di taglio azionista e lamalfiano. Lo fa anche coinvolgendo nelle collaborazioni non soltanto alcuni repubblicani “storici” dell’Isola, ma anche nuove personalità di recente accostatesi alla vita politica ed alla militanza, nonché autonomisti inseriti nelle istituzioni o già con responsabilità nel PSd’A. Marcello Tuveri è fra di loro.

 

La collaborazione a “Tribuna della Sardegna”

 

Sono sei i suoi interventi apparsi sul quindicinale. Eccone i titoli richiamati in rapida rassegna: “Programmazione tra Stato e Regioni” e “Una collana di politica economica che è insieme scientifica e divulgativa: conoscere per deliberare” (n. 1/1.15 gennaio 1968), “La programmazione fra Stato e Regione: il piano nazionale è troppo accentratore mentre occorrerebbe affidate alle Regioni il compito di agevolare la deflazione legislativa del Parlamento” (n. 2/15-31 gennaio 1968), “Linee e limiti del nostro ‘piano’: cinque anni di legislazione sulla Rinascita” (n. 3/-1°.25 febbraio 1968), “Come si forma l’iniziativa regionale: cinque anni di legislazione sulla Rinascita” (n. 4/15 febbr.-15 marzo 1968), “Perdura la crisi dell’economia isolana: cinque anni di legislazione sulla Rinascita” (1-15 aprile 1968).

 

Si tratta di una approfondita riflessione sul processo programmatorio nazionale e regionale nei reciproci nessi, ciò che fu poi la materia in cui Ugo La Malfa si distinse nel dibattito pubblico del tempo, valorizzando – non misconoscendo! – il valore della autonomia istituzionale dei territori ed incoraggiando il Partito Sardo d’Azione ad un avanzamento della propria cultura politica emancipandola dal puro rivendicazionismo. Ecco di seguito gli articoli a firma di Marcello usciti sulla Tribuna e che paiono essere, a distanza di sei-sette anni, il giusto pendant di quelli pubblicati sul Bogino, sul Mondo, sul Paradosso (“Lettera di un sardista”) e Sardegna oggi.

 

“Programmazione tra Stato e Regioni”

 

I rapporti tra Stato e Regioni, dopo aver interessato a lungo politici ed economisti, incominciano ad acquisire consistenza anche nel momento giuridico della programmazione. Forse il disegno di legge n. 2085, presentato al Senato il 23 febbraio ’67 sotto il titolo «Norme sulla programmazione economica», non ricaverà l’approvazione delle Camere in questa legislatura. Ma dal suo contenuto e dagli atti legislativi che lo hanno anticipato è possibile individuare lo schema di relazioni che vengono ipotizzate tra l’azione programmatica statale e l’ordinamento regionale e rilevarne criticamente i profili che meritano più attento ripensamento; specie in relazione alla circostanza che, con la prossima legislatura, le Regioni da istituzioni eccezionali (quali sono state finora) diventeranno normali dando finalmente all’articolazione regionale del potere pubblico carattere di generalità.

 

Il disegno di legge n. 2085. Siamo obbligati a prendere le mosse sul testo governativo dalla sua descrizione, giacché il livello di indifferenza che esso ha segnato sul barometro politico è talmente elevato da stupire chiunque abbia coscienza del fatto che come le idee camminano sulle gambe degli uomini, così l’azione pubblica (e la programmazione lo è nel massimo grado) può conseguire il suo scopo solo in rapporto alla consistenza ed alla funzionalità delle istituzioni che debbono realizzarla.

 

Il disegno di legge sulla programmazione dà una definizione del programma economico, cioè stabilisce gli obblighi che da esso sorgeranno; precisa le modalità di formazione ed approvazione dei futuri programmi, indica le forme e gli organi di consultazione necessari e le informazioni che, ai fini del programma, possono essere richieste ai privati ed agli enti pubblici; disciplina la partecipazione delle Regioni ed i termini principali dell’attuazione del programma. La legge sulle «procedure» della programmazione stabilisce la efficacia della programmazione nei confronti dei diversi centri di riferimento o di imputazione di interessi dell’ordinamento e quindi contempla la posizione dagli organi costituzionali maggiormente interessati (Governo e Parlamento), degli enti pubblici economici e di quegli enti dotati di autonomia politica che sono le Regioni.

 

Il procedimento di formazione del programma distingue una fase «ascendente», in cui il Governo propone al Parlamento un documento programmatico contenente le grandi opzioni sullo sviluppo economico del Paese. Sulla base di tale documento il Ministero del Bilancio e il Comitato Interministeriale per la programmazione economica (CIPE) elaborano il programma vero e proprio sul quale vengono richiesti il parere del CNEL, dei sindacati e delle organizzazioni di categoria e, per quanto riguarda determinati aspetti (l’articolazione regionale del programma economico), delle Amministrazioni regionali. La fase «discendente», cioè di attuazione, ha inizio dopo l’approvazione del programma da parte del Parlamento. Nel suo corso possono essere emanate le leggi di programma, a carattere settoriale e vengono approvati gli interventi che le Regioni realizzano, in conformità al piano, nell’ambito delle loro competenze.

 

Articolazione regionale. Per giudicare dal rilievo che le Regioni assumono nell’ambito del programma economico nazionale e come al suo carattere di globalità corrispondano efficaci meccanismi di coordinamento dobbiamo scendere a qualche considerazione di dettaglio.

 

L’art. 1 enuncia tra le finalità della legge proposta la disciplina dei «rapporti tra programma economico nazionale e gli atti di programmazione delle Regioni». Il testo, che era stato reso noto per varie vie un anno prima della approvazione del Consiglio dei Ministri, prevedeva l’obbligo per le Regioni di approvare con loro leggi un piano quinquennale di interventi, nell’ambito delle proprie competenze dopo aver sentito il CIPE. Il disegno di legge ha sostituito l’espressione «piano» con le «norme per gli interventi che le Regioni intendono attuare nelle materie in cui hanno competenza legislativa», per attuare il programma economico nazionale (art. 10). La sostituzione è tutt’altro che casuale e la relazione al disegno di legge chiarisce la portata, limitativa per le Regioni, di quella che, a prima vista, può apparire una sottigliezza, quando afferma che con questa formula si assicura «nel modo più congruo la coerenza degli interventi regionali con le scelte fondamentali del programma economico nazionale, rendendo esperibili le impugnative previste dalla Costituzione nei confronti delle leggi regionali». In tal modo le Regioni potranno legiferare frammentariamente ed occasionalmente quanto vorranno, (e l’esperienza di quelle esistenti dimostra quanto sia stata frequente sotto lo stimolo del «pronto soccorso» un’azione spesso scoordinata e contraddittoria) purché le leggi siano strettamente conformi al piano. Né va sottaciuto che a quei controlli, già operanti, costituiti dall’esame di legittimità costituzionale se ne aggiungerà un altro preventivo del Comitato interministeriale per la Programmazione economica.

 

Se a questo si aggiunge Il fatto che Il disegno di legge in questione distingue e separa nettamente l’articolazione regionale nel programma economico nazionale, la cui elaborazione rimane nella sfera decisionale degli organi centrali di programmazione (art. 9 e pag. 9 della relazione), dagli interventi posti in essere nell’ambito delle competenze legislative delle Regioni, è facile intuire che, con questa legge, il sistema «binario» o «dualistico», sul quale si sono fondati nella vita politica e amministrativa italiana i rapporti tra Stato ed enti locali, riceverà una conferma preoccupante.

 

Quando le relazioni tra gli atti degli organi centrali e gli atti degli organi periferici si concepiscono in termini di estraneità reciproca o addirittura nella presunzione di una conflittualità necessaria è difficile ritenere che la globalità della programmazione si voglia far coincidere con il coordinamento degli strumenti di azione pubblici. O meglio si concepisce il coordinamento non come un figura di equiordinazione, vale a dire la risultanza di rapporto di collaborazione e di accordo tra diversi enti senza annullare la libertà e l’iniziativa dl ciascuno, ma come sopraordinazione, che comprimendo i centri periferici di imputazione dell’autorità riduce il coordinamento stesso ad una connessione gerarchica e piramidale del potere. (continua)

 

“La programmazione fra Stato e Regione”

 

(Sommario: Il piano nazionale è troppo accentratore mentre occorrerebbe affidare alle Regioni il compito di agevolare la deflazione legislativa del Parlamento)

 

L’orientamento a programmare dall’alto, precostituendo indirizzi che non lasciano alle Regioni altre scelte se non l’adeguamento meccanicistico alle volontà espresse dal Ministero del Bilancio e della programmazione, risalta palesemente dalla definizione del programma economico nazionale. Al programma è attribuita forza “vincolante” soltanto in rapporto alle amministrazioni regionali. Mentre gli enti pubblici vedono riconosciuta una capacità di adottare indirizzi politici ed i privati sono tenuti solo a fornire le informazioni che siano loro richieste dagli organi di programmazione.

 

Per le Regioni istituzionalizzate l’articolo 2 reca un sostanziale obbligo di conformità, sia per quanto attiene gli «obiettivi globali e settoriali dello sviluppo economico» sia per quanto riguarda i «criteri generali dell’assetto territoriale». L’avverbio «limitatamente» premesso alla elencazione dei vincoli pare voler contenere la capacità di penetrazione autoritaria, ma non riesce a dissipare l’impressione che la predeterminazione di un saggio di sviluppo settoriale comporti una compressione della possibilità di ricercare, al livello regionale, un equilibrio tra le diverse componenti del sistema economico. Si pensi all’importanza che l’artigianato assume in una regione come la Toscana o la zootecnia in Sardegna e si intuiranno i rischi di tale prescrizione.

 

Oggi solo consultivo il ruolo delle Regioni. Il procedimento di formazione e approvazione dei programmi economici nazionali non sembra modificare questi presupposti in quanto sia la determinazione degli obiettivi del programma che la sua elaborazione consentono alle Regioni un ruolo meramente consultivo.

 

Nel processo di programmazione, dicono i documenti socialisti che hanno ispirato la definizione centralistica del Piano, vi è il momento dell’unità, che comprende le scelte finali e il perseguimento degli obiettivi programmatici, come il momento dell’autonomia, vale a dire la applicazione al piano locale di quelle prescrizioni (lettera di documentazione n. 2, ottobre 1967, pag. 10).

 

Più esplicitamente Margherita Bernalpi (Mondo operaio, n. 6, 1967, pag. 26) afferma che bisogna mettere la parola fine ai piani di programmazione regionale.

 

In questo contesto è evidente come l’argomentazione che si oppone alle Regioni per giustificare anche i vincoli settoriali del programma appare inaccettabile. Si dice infatti che condizionare gli organi di programmazione centrale, in ordine al conseguimento degli obiettivi settoriali dello sviluppo, potrebbe comportare una limitazione della forza operativa proprio al fine del progresso delle Regioni più deboli. Una programmazione senza denti, cioè disarmata, nuocerebbe proprio al progresso delle Regioni sottosviluppate. La argomentazione, in sé suggestiva, sarebbe accettabile ove le norme sulla programmazione contenessero qualche indicazione circa l’eliminazione degli squilibri territoriali e il rispetto del principio della solidarietà nazionale.

 

[…] degli squilibri territoriali ed al principio della solidarietà nazionale non possono essere considerati indirizzi provvisori od occasionali, tali da poter essere sottaciuti nel momento definitorio della programmazione. I lunghi tempi dell’azione nel Mezzogiorno ed i risultati di quelle politiche testimoniano del carattere tutt’altro che occasionale e precario di quegli indirizzi. Tant’è che hanno ricevuto significativa statuizione nella Costituzione della Repubblica e negli statuti speciali e costituiscono obiettivamente una delle priorità irrinunciabili della programmazione, intesa come esigenza di ordine e di razionalità, di ogni Paese.

 

Si prescinde anche dal bilancio. Alla predisposizione che rientra nella esclusiva spesa degli organi centrali (Ministero e CIPE sulla base delle indicazioni del Parlamento), ed alla approvazione del programma per la quale è competente il Consiglio dei Ministri prima del passaggio al Parlamento del documento, le Regioni non partecipano formalmente. Salvo auspicabili ripensamenti la determinazione degli obiettivi (art. 4), e l’approvazione (art. 5) sono compiute senza che le Regioni abbiano la possibilità di essere sentite.

 

L’attuazione del programma è affidata, in mancanza di un legame consequenziale col bilancio dello Stato, alle leggi-programma che dovrebbero disciplinare per il quinquennio successivo gli interventi pubblici per singoli settori dell’attività economica (art. 12). E’ questa la fase in cui, coerentemente alla ripartizione di compiti che dovrebbe vedere le Regioni come soggetti interessati almeno alla fase di specificazione del piano nazionale, maggiore dovrebbe essere il decentramento dei poteri dello Stato.

 

Invece la norma contempla la delega alle Regioni solo come ipotesi possibile ed in ogni caso condizionata alla volontà dei singoli Ministeri di cedere o meno le relative funzioni a questi organismi. La utilità di raccordare gli interventi in applicazione del piano con quelli che le Regioni realizzeranno nell’ambito delle loro competenze e delle loro capacità finanziarie doveva suggerire, in questa fase, l’attribuzione del potere di indirizzare e coordinare almeno l’esecuzione degli interventi statali.

 

A questo punto giova riprendere il discorso dalle premesse per dire che una programmazione che voglia essere articolata e democratica non può che partire dal riconoscimento della partecipazione delle Regioni a tutte le fasi della programmazione. In un paese come il nostro, in cui la società civile è così debole, in cui è tanto difficile far prevalere le esigenze pubbliche collettive nei confronti di quelle private, in cui l’unità e l’efficienza dell’azione di governo è una meta ancora assai lontana, bisogna esaltare invece che comprimere gli enti rappresentativi di interessi collettivi al livello territoriale. L’affermazione non vuoi sottacere la esistenza di possibili contrasti tra azione programmatica e ordinamento regionale. Ma parte del presupposto che programmazione ed accentramento non sono processi ineluttabilmente paralleli, a meno che con la programmazione non si tenda a comprimere, in nome dell’unità a tutti i costi, il ruolo degli enti locali.

 

[…] anni ’50, che Stato e Regioni potessero operare in regime di totale separazione, attraverso la esplicazione di attività rigidamente separate e parallele nasce dalla esperienza assai difficile delle Regioni a statuto speciale che hanno sbagliato, e sbagliano molto, ma che non possono certo considerarsi nate in un clima di fiducia nelle loro funzioni.

 

Ripetere lo stesso schema, non ricercare forme di collegamento e di integrazione per tutta la programmazione nazionale e regionale, significa perpetuare una grave deviazione. Se le Regioni non avranno una parte adeguata nell’azione di programmazione o meglio se si insisterà nell’usare, come dice un giurista attento e sensibile (Paladin), una partita doppia in sede locale, diverrà ben fondata l’impressione che le Regioni servono solo come centri di potere e di sottogoverno. Il che ci riporta a considerare che la stessa sinistra democratica sembra divisa sul tema.

 

Da un lato i più avvertiti uomini di cultura propendono ad affermare che le Regioni debbono essere un’occasione per riordinare e ridurre le unità territoriali di base abolendo i consigli provinciali, e sostengono che le Regioni debbono essere enti essenzialmente funzionalizzati nel campo dell’amministrazione dell’economia.

 

Dall’altro si insiste in un disegno meramente garantistico delle funzioni di decentramento con il sottinteso che gli articoli della Costituzione e degli Statuti che sanciscono le competenze regionali possano essere svuotati con la programmazione nazionale. Questo secondo indirizzo, che trova molti sostenitori nel Partito Socialista Unificato, ha una sua matrice ideologica precisa. Nel passaggio dalla condizione di forza di protesta a quella di forza politica il socialismo punta le sue forze sulla eliminazione delle differenze di classe e ritiene pertanto essenziale a questo fine l’intervento del potere centrale. Di qui la necessità di accrescerne le competenze. Non si avverte cioè che il potere centrale ha bisogno di organizzare meglio le proprie competenze più che di accrescerle a scapito degli enti locali.

 

Una forza innovatrice inavvertita. Ma vi è un altro motivo che, nella stessa parte politica, spiega la sfiducia pregiudiziale verso la programmazione come metodo di articolazione democratica dello Stato. Ed è la scarsa tradizione autonomistica e regionalistica di quel movimento. In mancanza di questo apporto certe correnti che si ispirano al pensiero socialista hanno recepito e fatto propri i materiali e gli strumenti culturali che la società e le strutture tradizionali immediatamente offrivano loro: tra questi la logica del dualismo Stato-Enti locali, la condizione di tutela dei secondi, in rapporto al primo, la indivisibilità del potere e della sovranità pubblica.

 

Non si è avvertito, in entrambe le linee, quella massimalista e quella riformista, che la forza innovatrice della programmazione passa attraverso una fitta rete di Centri di interesse che possono acquisire agli occhi dei cittadini carattere di legittimità solo nella misura in cui rientrino nel loro pieno dominio, cioè siano efficienti e democratici insieme.

 

“Linee e limiti del nostro ‘piano’”

 

La legislazione sul piano di Rinascita economica e sociale della Sardegna ha compiuto gli anni nello scorso mese di giugno. Cinque anni per un Paese consumatore di leggi come il nostro possono essere molti. Sono indubbiamente pochi se si considera la lentezza con cui gli Strumenti di intervento ricevono compiuta ed organica statuizione. E’ possibile comunque fare un bilancio sulla validità del sistema instaurato con la legge 11 giugno 1962, numero 588?

 

Se si considera che tale atto ha dato luogo ad un esempio, forse il più significativo, in tema di programmazione economica regionale, vale la pena di tentarlo mentre i problemi della programmazione nazionale sovrastano ogni tentativo di regionalizzare il programma.

 

La logica del piano sardo ed il quadro istituzionale. La legislazione sul piano sardo è ispirata dal tentativo di comporre, in un quadro armonico, le linee di politica economica nazionale e gli interventi per il Mezzogiorno con le indicazioni che maturano nell’ambito regionale e che trovano espressione nella volontà della Regione in quanto ente esponenziale di interessi locali. Obiettivo fondamentale di questa politica concertata, cioè disposta in forma di mutuo accordo tra lo Stato e la Regione, è la promozione di un autonomo processo di sviluppo economico e sociale nell’Isola.

 

Il quadro istituzionale definito dalla legge statale e da quella regionale del 7 luglio 1962 è così ricostruibile. Alla Regione vengono imputate responsabilità di iniziativa per la predisposizione del Piano a mezzo dei suoi organi tecnici che operano d’intesa con la Cassa per il Mezzogiorno; compiti di partecipazione all’atto complesso d’approvazione, attraverso la presenza nel Comitato dei Ministri per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno del Presidente della Regione e di un suo Assessore; funzioni di attuazione mediante l’attribuzione istituzionale di poteri delegati da parte dello Stato.

 

Lo Stato, a sua volta, partecipa alla fase di preparazione, che precede l’esercizio dei poteri di iniziativa, attraverso la Cassa che collabora pure alla predisposizione; approva il Piano e ne assicura il coordinamento con gli altri interventi straordinari mediante il Comitato dei Ministri nell’attuazione con i suoi organi tecnici che ricevono in concessione la esecuzione delle opere; per il controllo tecnico, sempre in materia di opere pubbliche, affidato alla Cassa per il Mezzogiorno.

 

In altre parole Stato e Regione prendono parte a tutte le varie fasi della programmazione regionale prevista dal Piano con diversi gradi di responsabilità. Nell’iniziativa, fase in cui predomina la conoscenza e l’apprezzamento delle condizioni locali, è preminente la Regione; nell’approvazione assume maggior rilievo lo Stato che finanzia il piano con i famosi «quattrocento miliardi» in dodici anni.

 

Il passaggio dalla legge ai programmi esecutivi. Dal punto di vista degli obiettivi la legislazione prevede una molteplicità di forme di intervento secondo un piano organico, straordinario e aggiuntivo, che coordini tutti gli interventi statali e regionali al fine di conseguire la trasformazione e il miglioramento delle strutture economiche e sociali delle zone omogenee, tali da conseguire la massima occupazione stabile e più rapidi ed equilibrati incrementi di reddito.

 

A quattro anni di distanza dalla sua «invenzione» il meccanismo di collaborazione tra lo Stato e la Regione come ha funzionato? E’ questa la domanda a cui si vuole dare una risposta, fondata esclusivamente sui dati di esperienza che la dimensione regionale del problema fornisce in misura abbastanza precisa.

 

Per ragioni di semplicità converrà rifarsi alla ricostruzione schematica delle diverse fasi del processo di intervento.

 

Il momento della predisposizione del primo documento pubblico (lo schema generale di sviluppo ed il piano straordinario 1962-1974) fu caratterizzato dalla necessità di ovviare alla carenza delle statistiche di base, delineando una ipotesi generale di sviluppo senza disporre di dati aggiornati. Il secondo documento, in ordine di tempo e di importanza, vale a dire il programma esecutivo 1962-1963 e 1963-64, fu impostato essenzialmente tenendo conto della esigenza di dare l’avvio all’intervento speciale previsto dalla legge sul piano senza determinate soluzioni di continuità con i precedenti meccanismi, ma anzi in funzione di completamento di opere già iniziate e programmate dall’azione pubblica ordinaria e straordinaria del periodo precedente.

 

Con in piano dodecennale cioè venivano utilizzati i dati di una indagine ISTAT 1954 sul bilancio economico regionale, in mancanza di rilevazioni ed elaborazioni più recenti.

 

Il programma esecutivo tendeva a concludere alcuni interventi previsti dall’azione pubblica ordinaria e straordinaria e non portati a compimento.

 

In questa fase fu necessario cioè predisporre un piano in assenza di elaborazioni locali. Il sistema nazionale di accentramento delle conoscenze statistiche e di elaborazione unitaria delle medesime rivelò un limite formidabile per la programmazione democratica articolata su base regionale.

 

Lo stesso programma esecutivo biennale fu condizionato in gran parte dalla necessità, in assenza di programmi e di progetti elaborati dai diversi soggetti ed organi preposti alla azione pubblica, a tentare un compromesso tra un vecchio modo di considerare le iniziative indipendentemente le une dalle altre, come è nella nostra tradizione estremamente pluralista, ed un disegno meno disarticolato degli interventi.

 

Gli obiettivi del quinquennio 1965-1969. L’attività di realizzazione pratica ebbe inizio nell’agosto 1963 con l’approvazione da parte del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno del primo programma semestrale luglio-dicembre 1964. Successivamente veniva disposto ed approvato il piano quinquennale 1965-1969, che poté disporre di dati più aggiornati (bilancio economico regionale 1962 ed altre indagini svolte ugualmente dall’ISTAT), ed il terzo programma esecutivo 1965-1966, approvato a fine luglio del 1966. Specie come risultante di questi ultimi documenti il piano sardo rappresenta, infatti, un quadro generale dello sviluppo economico della Regione che tiene conto di tutti i settori di intervento e ne valuta le interdipendenze; orienta le direttive e i programmi dei Ministeri, della Cassa, della Regione e dei privati operatori; qualifica secondo un indirizzo unitario e coordinato la spesa pubblica nel suo complesso; indica l’obiettivo di sviluppo globale dell’economia sarda (incremento del reddito ad un tasso del 9 per cento annuo) e dell’occupazione (0,75 per cento all’anno); perviene alla valutazione del volume degli investimenti necessari; definisce i termini territoriali e di localizzazione delle attività produttive (zone di sviluppo polivalente e di sviluppo prevalentemente agricolo, industriale o turistico); precisa il ruolo e le funzioni dei vari organismi pubblici operanti in Sardegna e si avvale di tutte le possibilità offerte dalla legge 588 per rendere più funzionali ed efficaci gli strumenti operativi. Al piano straordinario viene, in questo quadro generale, demandata la specifica funzione di intervenire nei punti nodali della economia sarda.

 

Il coordinamento degli interventi. Ma per quanto concerne gli interventi dello Stato nell’area meridionale ed in generale la programmazione nazionale, il coordinamento degli interventi su base regionale che è una delle finalità essenziali della legge viene impostato più su indirizzi e tendenze che su dati certi.

 

E ciò ben si spiega ove si abbia presente, per esempio, che soltanto talune branche dell’amministrazione pubblica procedono mediante piani pluriennali di investimento. I Ministeri, che gestiscono la maggior quota dei fondi del bilancio statale, non utilizzano questo metodo, neppure limitatamente ai settori di propria competenza.

 

A ciò si aggiunga la mancanza di un puntuale e tempestivo flusso di informazioni ai fini del coordinamento degli interventi, che hanno mantenuto il carattere della eterogeneità degli indirizzi propria delle strutture statali. In particolare non è stato rispettato il disposto della legge che prevede l’obbligo di attuare un programma straordinario di interventi a cura del Ministero delle Partecipazioni Statali.

 

Il contributo della Cassa per il Mezzogiorno che svolge il ruolo di organo tecnico del Governo per la programmazione è stato notevole per la mole di indicazioni fornite specie in rapporto agli interventi del tipo infrastrutturale (opere pubbliche nei consorzi di bonifica, strade acquedotti, etc.). L’apporto è apparso inferiore per quanto concerne la massa dei dati conoscitivi e la formazione di indirizzi, in quanto il più importante «soggetto attivo» dell’azione pubblica nel Meridione è apparso spesso più nella veste di organo straordinario e di controllo tecnico che non di collaboratore.

 

Il momento dell’approvazione del piano e dei programmi è stato sempre preceduto da frequenti e cospicui incontri di settore e generali, fatto insolito nei rapporti tra organi indipendenti, quali sono tra loro il Centro di programmazione della Regione Sarda e la Segreteria tecnica del Comitato dei Ministri per gli interventi straordinari.

 

In questa fase, esplicata al livello informale e senza stabili organi di coordinamento al livello di funzionari, si sono realizzati risultati apprezzabili ai fini di una compiuta elaborazione dei programmi. Notevole è stata pure la sollecitudine con cui l’organo centrale, preposto all’approvazione del piano e dei programmi, ha proceduto alla definizione dei medesimi. (continua)

 

“Come si forma l’iniziativa regionale”

 

Sul piano regionale il metodo di discussione con procedura legislativa dei documenti è apparso meno funzionale, sia per il lungo tempo impiegato dall’iter di perfezionamento dell’iniziativa, sia per la minore rispondenza del sistema (emendamenti nelle diverse forme, aggiuntiva, sostitutiva, soppressiva) alla coerenza che caratterizza solitamente siffatti documenti di politica economica. L’impossibilità di tradurre atti di indirizzo in formule legislative non ha impedito al Consiglio regionale di utilizzare un metodo tradizionale, anteriore alla introduzione della programmazione, tra le forme regolatrici dell’azione pubblica.

 

Una chiara giustificazione di questo fatto la si trova nello stesso procedimento fissato dalla legge regionale: la assemblea regionale non è chiamata ad esprimere le direttive ma ad approvare i piani ed i programmi. Non conoscendo gli indirizzi in via preliminare all’assemblea non resta che discutere i documenti nelle loro peculiarità soffermandosi naturalmente sulla individuazione degli interventi più che sulle direttive generali.

 

La difficoltà di combinare programmazione e attività tradizionale. L’attuazione dei programmi, formula con cui si suole intendere la fase intermedia tra le proposizioni prescrittive e l’esecuzione ha costituito e costituisce il punto più importante del procedimento di collaborazione fra Regione e Stato. Senza soffermarci sui meccanismi esecutivi, propri di ogni tipo di provvedimento, diremo che i programmi come ogni atto amministrativo di carattere generale, hanno bisogno di essere calati nella realtà attraverso determinazioni di carattere particolare che individuino gli interventi attraverso specificazioni e criteri.

 

La necessità di definire i nuovi interventi e di qualificare le proprie strutture amministrative, unitamente alla insufficienza delle progettazioni di massima e alle difficoltà degli enti, dei Comuni, dei privati operatori di procurarsi i mezzi per far fronte agli adempimenti di rispettiva competenza, hanno rappresentato una ulteriore remora alla rapida esecuzione degli interventi programmati. Sono state individuate soluzioni, quali la effettuazione di studi per i piani di comprensorio turistico, per lo sviluppo delle zone industriali e per i piani zonali in agricoltura; la costituzione di una società finanziaria, ma tutti questi strumenti non si può dire che abbiano dispiegato ancora i loro effetti.

 

Il piano, come fatto unitario e coordinato di tutta la spesa pubblica in Sardegna, può dirsi assai lontano dalla sua realizzazione. Esso ha svolto sostanzialmente un’azione limitata di riequilibrio per sopperire all’insufficiente flusso di investimenti pubblici ordinari e straordinari in questi ultimi anni. Lo spazio che corre tra il programma e la concreta decisione di spesa viene percorso attraverso le normali procedure previste dalla legislazione statale e regionale proprie di ciascun settore. La specialità dell’intervento non è accompagnata da alcuna procedura innovativa (meglio sarebbe dire semplificativa), anzi, per taluni settori di attività, le opere pubbliche intese in senso generico, si aggiunge a meccanismi ordinari la presenza della Cassa che provvede al controllo tecnico sulla progettazione e sull’esecuzione delle opere, oltre che al collaudo. Il ruolo della Cassa non appare sostitutivo degli organi statali preposti a compiti tecnici ma, in virtù della sua esperienza in fatto di conduzione di programmi di intervento infrastrutturale, di collaborazione e di alta direzione.

 

Una contabilità che è stata complicata. Si è istituita una contabilità speciale, gestita dalla Regione, ma formata da accreditamenti che il Tesoro versa in rate semestrali anticipate, dopo l’approvazione dei programmi esecutivi.

 

La Regione e la contabilità speciale sono però escluse da qualunque trattamento preferenziale, in ordine al regime fiscale. Mentre le amministrazioni statali e la Cassa per il Mezzogiorno godono di determinati privilegi, che si traducono in risparmio di tempo e denaro, l’azione pubblica della Regione, in attuazione dei programmi, colloca quest’ultima alla stessa stregua di un privato.

 

Poiché l’amministrazione regionale provvede all’esecuzione delle opere mediante concessione agli organi dello Stato, al procedimento già complesso, che vede accanto agli organi ordinari l’intervento della Cassa, si aggiunge la determinazione delle volontà regionali attraverso gli Assessorati, la Giunta, la Presidenza, unico organo legittimato alla gestione della contabilità speciale. Per quanto concerne le fasi di attuazione ed esecuzione può dirsi che il meccanismo di collaborazione soffre troppo della natura dualistica dell’intervento (Stato che affida alla Regione; Stato che, non rinunciando a nessuna prerogativa, interpone tra sé e la Regione un terzo organo: la Cassa per il Mezzogiorno).

 

La fase ultima, in termini amministrativi, cioè il controllo sugli atti conosce l’intervento di due organi: uno interno, la Ragioneria della Regione che effettua il riscontro delle entrate e delle spese ed ha competenza in via preventiva; ed uno esterno, la Corte dei Conti che provvede al controllo successivo sui rendiconti. Anche in questo aspetto la duplicità del sistema dei controlli, peraltro tradizionale nella nostra struttura amministrativa, non sembra conforme alla specialità dell’azione pubblica.

 

La Ragioneria regionale deve operare il riscontro non solo come organo preposto a tale compito ma con gli occhi dell’organo di controllo che giudicherà sui rendiconti consuntivi. (continua)

 

“Perdura la crisi dell’economia isolana”

 

L’insieme degli elementi forniti, pur costituendo un quadro approssimativo, chiarisce che il «sistema» di integrazione della volontà dello Stato e di quella della Regione abbisogna di taluni ritocchi essenziali. La collaborazione tra la complessa serie di soggetti ed organi investiti di compiti per la realizzazione del piano è stata indubbiamente proficua ed ha rilevato insospettabili prospettive di approfondimento e di semplificazione dell’azione pubblica a livello regionale.

 

La partecipazione della Regione ha attenuato notevolmente il carattere autoritativo e centralizzatore della programmazione, ma tale partecipazione sarebbe stata assai più proficua ove la convivenza degli organi locali dello Stato a fianco a quelli del massimo ente locale fosse stata prevista in termini di precisa subordinazione di quelli nei confronti di quest’ultimo.

 

Il mantenimento del clima di esclusivismo dello Stato, che si traduce in un rapporto di diffidenza verso l’ente Regione e il sistema, per intenderci, di affiancare ad ogni ente locale un organo statale di controllo, ricorda più la tutela con cui un tempo si qualificava il rapporto tra il così detto ente sovrano e quelli derivati, che non la compiuta immedesimazione in un certo spazio delle due volontà, fuse in un unico scopo inscindibile. A ciò si deve aggiungere che l’amministrazione regionale non è riuscita a fare della programmazione un’occasione per rivedere i propri moduli di comportamento amministrativo.

 

All’interno della Regione attività ordinaria e straordinaria convivono una a fianco all’altra senza essere legate dal necessario nesso di interdipendenza formale e sostanziale. Per cui l’azione di «pronto soccorso» a cui l’istituto regionale si è adagiato da molti anni, non ha trovato nei programmi esecutivi della rinascita l’occasione per tradursi in opere di riforma della società sarda. Bilancio regionale e programma straordinario sono due fatti distinti e privi di collegamento, sia nella fase di predisposizione ad opera della Giunta, sia in quella di approvazione da parte del Consiglio regionale. Valutazioni economico-sociali ed apprezzamenti politici restano momenti separati ed estranei l’uno all’altro. Per cui il dilemma tra democrazia ed efficienza, che il piano di Rinascita, con la sua tendenza razionalizzatrice, tentava di risolvere, resta vivo ed attuale per la lentezza della spesa pubblica regionale e la scarsa incidenza nella realtà dell’apporto innovatore della programmazione.

 

A rischio d’essere fraintesi, per la semplicità diremo che la volontà chiara del legislatore della n. 588 non è stata accompagnata da una strumentazione adeguata e capace di farla diventare effettiva. Alle intenzioni sono seguiti solo in modo parziale i fatti conclusivi necessari a realizzarle.

 

Risultati economici degli interventi programmati. A questo punto è il caso di domandarsi quali effetti abbia prodotto il Piano di Rinascita nella struttura economica e sociale della Sardegna. Dal 1963 ad oggi, cioè dall’attuazione dei primi programmi esecutivi, i fatti rilevabili hanno segno di diverso valore. L’incompiutezza del sistema organizzativo e il mancato apporto delle industrie a partecipazione statale hanno inciso negativamente sul processo di sviluppo economico e sociale.

 

Può considerarsi positivo, tuttavia, l’insediamento di alcune grosse iniziative industriali nel settore petrolchimico, cartario e tessile. L’industria moderna ha consentito il mantenimento dell’occupazione industriale a livelli quasi costanti ed ha colmato i vuoti verificatisi nel settore minerario. L’incremento del prodotto lordo, specie nel settore petrolchimico, non ha provocato, però, l’attesa e sperata diffusione dello sviluppo industriale.

 

In agricoltura l’insieme del prodotto lordo appare trascurabile. Ma la flessione del numero degli occupati nel settore ha incrementato la produttività per addetto. L’incremento dei redditi in agricoltura è stato complessivamente più elevato che nel Sud e nell’intero Paese e ciò è dovuto certamente alla diversa composizione del settore nell’Isola, giacché la zootecnia vi ha un peso assai rilevante. Ma l’attuale crisi della pastorizia, anche se non si traduce con riflessi immediati nella quantità del prodotto dell’intero settore, mette in luce la fragilità di questo comparto a struttura arretrata.

 

L’artigianato registra tendenze evolutive sia per la introduzione di ammodernamenti tecnologici sia per la estinzione di attività artigianali di tipo arcaico.

 

Il forte sviluppo del settore terziario ha assunto una rilevanza tale da avvicinarlo alle regioni più progredite del Paese e segna la più alta misura del prodotto per addetto, ma non costituisce di per sé un elemento di miglioramento del sistema economico in quanto nasconde fenomeni di sottooccupazione ed è il punto di arrivo di attività precarie di intermediazione.

 

Complessivamente il reddito per abitante è calato sia rispetto al Mezzogiorno che alla penisola. Gli obiettivi stabiliti nel piano quinquennale 1965-1969 sembrano ad oggi raggiungibili alla fine del periodo.

 

Permangono tra la Sardegna ed il resto del Paese alcuni fattori di squilibrio che rischiano di accentuarsi in conseguenza della prevedibile ripresa nell’area settentrionale. La disoccupazione mantiene valori preoccupanti ed è superiore all’incremento naturale delle forze lavoro; l’emigrazione verso i mercati più remunerativi ha subito una battuta di arresto solo in conseguenza della congiuntura sfavorevole; l’assenza di industrie manifatturiere, capaci promuovere il riequilibrio territoriale ipotizzato dal piano, accentua la gravità della situazione.

 

L’importanza dell’apporto esterno al sistema isolano è sempre considerevole e tra questo e l’economia nazionale i leg? sono prevalentemente dovuti all’aumento dei consumi, alle spese della pubblica amministrazione e all’emigrazione della manodopera. Gli investimenti nell’Isola non hanno prodotto gli effetti auspicati, in quanto si sono limitati ad accrescere la massa salariale. I consumi, incentivati dagli effetti di dimostrazione, superano il reddito prodotto ed all’interno del sistema non si verifica accumulazione di capitali.

 

Ove si consideri che le industrie di recente insediamento, appartengono a settori che favoriscono la capacità di risparmio e di investimento si può dedurre che la creazione di un autonomo processo di sviluppo nell’isola appare oggi assai difficile.

 

L’esperienza del Piano di Rinascita ha rivelato le carenze dell’economia sarda e l’azione statale e regionale dovrà tenerne conto. Senza pretendere anacronistiche e, data l’importanza decisiva degli apporti esteri, impossibili linee di sviluppo autarchico è necessario forse, accentuare gli investimenti in agricoltura, nella zootecnia e nei trasporti, favorendo, per il resto, le industrie a basso rapporto di investimento per addetto.

 

Ogni prospettiva futura è legata ad una forte caratterizzazione autonomistica della politica economica. Il rispetto del ruolo della Regione come soggetto per la propulsione dello sviluppo economico nell’ambito della programmazione nazionale è condizione essenziale per l’avvenire dell’Isola.

 

“Una collana di politica economica che è insieme scientifica e divulgativa”

 

(Sommario: Sotto la direzione di Giolitti, sono raccolti lavori di studiosi italiani utili per difendersi dai politici orecchianti e magniloquenti)

 

Intorno alle feste di fine anno i libri cessano di essere occasioni di studio, svago e curiosità e si trasformano in oggetti di regalo, di strenne. Vengono avvolti in copertine sempre più colorate, raccolti in cofanetti e annunciati con manifesti che non sono da meno – per forza di richiamo – di quelli cinematografici. Il libro è entrato decisamente nel giuoco della società dei consumi, trasformato in aggeggio, soprammobile, premio per chi si abbona ad un giornale, etc. I volumi aumentano di numero nelle case, almeno in certe con proporzione inversa al tempo che i possessori trovano per leggerli.

 

L’esplosione delle collane economiche, almeno di quelle economicissime, volge al declino ed in questo tempo di feste nessuno si sentirebbe di incoraggiarne lo sviluppo.

 

Dominano il campo le opere monumentali, le grandi riproduzioni d’arte, i libri degli editori arditi, la memorialistica, le opere storiche fondamentali.

 

Eppure nessun momento come questo ci sembra opportuno per parlare di una collana di politica economica che l’editore Einaudi ha incominciato pubblicare da un anno a questa parte sotto la direzione di Antonio Giolitti. La ragione è semplice: proprio in questo periodo noi diventiamo, come il libro, docili oggetti nelle mani dei padroni del mercato. Le cosiddette libere forze economiche si scatenano in una corsa al dominio totale della società, dei suoi gusti e dei suoi bisogni, che possono essere creati o distrutti in rapporto alle esigenze di fatturato delle aziende o dei gruppi di produttori e distributori. Il meccanismo economico supera, nella nostra società, le scelte collettive e subordina alle leggi del consumo anche le decisioni politiche. Unico rimedio a questa soggezione del fatto umano più importante, cioè la politica, è la coscienza degli stessi accadimenti economici, della possibilità di condurli entro criteri di razionalità e di intelligente comprensione.

 

Conoscere per deliberare era lo slogan di Luigi Einaudi, ma la storia della civiltà accoglie infinite versioni di questa fondamentale regola di comportamento.

 

Per conoscere i fatti economici al di là delle occasioni giornalistiche, in Italia vi è la produzione letteraria specializzata, in cui dominano gli stranieri, ma non manca il contributo degli studiosi nazionali. Una collana con un indirizzo insieme scientifico e divulgativo, fondata sulla informazione ed insieme sulla interpretazione dei fatti, invero mancava ed era una lacuna grave.

 

Per questo mentre ci proponiamo in futuro di esaminare i volumi che più degli altri destano interesse per i lettori della «Tribuna» ci piace segnalare i titoli sinora usciti della collana di politica economica edita da Einaudi.

 

Il secondo volume “Democrazia di piano” di Silvio Leonardi contiene un’ampia e documentata analisi dei problemi che si pongono per modificare gli attuali meccanismi di sviluppo (dai partiti ai sindacati) nei paesi occidentali ed in quelli orientali. Scopo della attività politica per l’autore è «sempre meno quello di fare leggi e sempre più quello di fare piani, cioè operare scelte specifiche e nello stesso tempo coordinate». “Democrazia di piano” è scritto da un ingegnere ed economista, laureato anche in leggi, deputato al Parlamento per il Partito Comunista Italiano.

 

Il suo lavoro è stato oggetto di un dibattito che ha visto tra i partecipanti recensori uomini come Ugo La Mala, Riccardo Lombardi e Giorgio Amendola, cioè alcuni dei più qualificati esponenti del mondo politico-culturale della sinistra italiana.

 

Il primo raccoglie una serie di saggi estremamente stimolanti sui fattori di evoluzione delle rivendicazioni operaie e del dibattito dei sindacati nell’ultimo decennio. Il titolo “Sindacati progresso tecnico e programmazione economica” è talmente significativo da abbracciare nelle sue implicazioni, alcuni dei più importanti problemi della realtà economica e politica del nostro paese.

 

Ne è autore Franco Momigliano, dirigente di una grande industria, una personalità viva per la partecipazione alla lotta politica (è un ex azionista) e alle ricerche economiche (partecipa ad indagini promosse per la redazione del programma economico nazionale). La cifra più significativa dell’opera è l’interesse che dal sindacato e attraverso il sindacato trasporta il lettore verso i problemi più attuali della nostra società. La programmazione economica e la politica dei redditi: due termini entro i quali sembra raccogliersi la sfida verso il progresso delle nuove politiche di gestione della vita pubblica.

 

Con Severino Delogu (“Sanità pubblica, sicurezza sociale e programmazione economica”) il contrasto tra conservatori e progressisti che sottende le opere ricordate è assunto come elemento determinante ai fini della riforma sanitaria. Ma questo problema, di urgente e difficile soluzione, non è visto a sé stante, in una cornice tecnica, ma strettamente legato alle prospettive della espansione economica.

 

Avere più salute è questione che attiene alla vita civile di un popolo. Non si tratta quindi, solo di quantità di mezzi ma delle trasformazioni qualitative necessarie a risolvere il problema.

 

“La programmazione, idee, esperienze e problemi” è il titolo sotto cui si raccolgono una serie di saggi di Siro Lombardini, uno dei più qualificati economisti moderni che tengono banco in Italia. I temi che hanno interessato l’autore sono di carattere storico (dalla ricostruzione al piano Vanoni, formulazione originale e verifica dello stesso e gli sviluppi della programmazione negli anni ’60), sistematico (quando affronta gli obiettivi e gli strumenti della pianificazione in Italia, dell’impresa pubblica, dei piani regionali ed urbanistici). Il libro si qualifica come opera di estrema attualità in quanto individua le difficoltà che si sono frapposte e che si frappongono allo sviluppo civile ed economico della società italiana.

 

Ci piace sottolineare, assieme alla decisa considerazione dell’importanza dei piani regionali, non considerati come semplice scomposizione o disgregazione di quelli nazionali, l’indirizzo critico che viene assunto nei confronti della pianificazione in Italia. La natura prevalentemente ideologica del processo di avvio alla programmazione viene respinta in quanto allontana dalla conoscenza dei problemi economici ed impedisce l’analisi delle interdipendenze fra la pianificazione e le trasformazioni sociali che essa implica. La seconda osservazione riguarda la concezione tecnicistica che si inquadra nell’orientamento neocapitalistico della politica economica e riduce la pianificazione alla semplice razionalizzazione dell’intervento pubblico.

 

Un lavoro che trasporta il lettore nel vivo dei problemi dell’Africa, con una visione organica o originale delle sue prospettive di sviluppo, è stato compiuto da Mario Andreis (“L’Africa e la Comunità Economica Europea”). Gli aspetti più vari del rapporto tra i due continenti sono oggetto di una indagine minuziosa che ripercorre dal 1955, data del primo progetto di Comunità euro-africana ad oggi, le discussioni e le polemiche che la politica, l’economia, le finanze hanno provocato negli anni successivi. Documento di essenziale interesse per capire cosa accade a Sud dell’Europa, il volume è accompagnato da una tale massa di notizie e dati che ne fa uno strumento insostituibile per la comprensione della realtà del continente nero.

 

“L’impresa pubblica nell’esperienza italiana” di Posner e Woolf. Ecco un libro, penultimo uscito di questa collana, che ci porta dentro la conoscenza di attività quali quelle dell’Istituto Ricostruzione Italiana e dello Ente Nazionale Idrocarburi, trascurate dalla pubblicistica corrente nelle loro componenti più importanti. In verità solo il distacco di due studiosi stranieri, uno storico e l’altro economista, poteva offrirci un quadro così concreto e limpido delle condizioni in cui debbono operare le due più grandi «holdings» finanziarie a gestione pubblica. Le teorie economiche hanno un peso considerevole nell’analisi degli autori, ma è questo un segno distintivo del diverso modo di concepire l’apporto culturale quasi non si avverte. I fatti e la loro interpretazione sono casi vivi e illuminanti dal dissuaderci quasi da qualunque tentativo di teorizzarne le risultanze, pur consentendoci una penetrazione nella realtà di rara efficacia.

 

L’ultimo volume di questa collaborazione, che si preannuncia ricca di titoli, è scritto da Giorgio Ruffolo segretario generale della programmazione al Ministero del Bilancio. “La grande impresa nella società moderna” svolge su di un filo che unisce insieme economia e politica, sociologia e cultura uno dei temi più suggestivi nostro tempo. “La fabbrica giunge in casa”, “Mamma Azienda”, etc., sono espressioni correnti per significare la natura oppressiva della grande impresa nella moderna società industriale. Pure è indubbio che la grande impresa rappresenta un momento di innovazione e di progresso sul piano tecnico economico per la collettività. Il potere dei dirigenti, ambiguo nella misura in cui si ispira ad entrambi gli obiettivi, sollecita l’indagine, che si conclude nel suggerire forme nuove di legittimazione del loro potere e di controllo politico e sociale dell’impresa.

 

Con questa rapida carrellata abbiamo offerto poco di più che qualche spunto per apprezzare le opere della collana. Ma il contatto che con la cultura economica i suoi volumi consentono di instaurare è certamente degno del massimo interesse. Non solo per le ragioni già dette all’inizio di questa nota, ma anche perché la loro lettura ci aiuterà a difenderci dai politici orecchianti e magniloquenti, quelli che in prossimità delle elezioni – per intenderci – quando sono al Governo risultano afflitti dal trionfalismo del potere, quando sono all’opposizione si distinguono nell’attacco a qualunque posizione culturale in nome di un presunto amore di patria che li rende liberi da ogni vincolo con la realtà e con la logica.

 

Scritti come quelli che impoveriscono le pagine di certi quotidiani sono sintomi di una depressione civile che si manifesta tanto più grave quanto più è confusa da espressioni retoriche. Nascondono, certi articoli dal tono pseudo-eroico, un’impotenza di concezione politica che sgomenta, una incultura che affonda le sue radici nella presunzione radicata di poter interpretare senza sapere, di sapere senza leggere, di leggere senza conoscere gli uomini e le cose più importanti che ci riguardano.

 

I repubblicani rinnovati a congresso

 

Se n’è accennato: con Bruno Josto Anedda (e dopo che a Sassari l’han fatto Pittalis ed Era) hanno aderito al PRI, fra il 1966 ed il 1967, diverse personalità che caratterizzeranno il partito nella cruciale fase dell’incontro (destinato a sfociare nella unificazione) con la corrente minoritaria del PSd’A: il pubblicista Pietro Bulla, l’economista Giovanni Satta, i sindacalisti Marco Marini e Carlo Usai ed altri ancora, e già di nome, come l’avvocato Luigi Concas e più intense si faranno le collaborazioni con autorevoli giuristi (e docenti universitari) come Marcello Capurso. Dalla loro collaborazione verranno, in crescendo, iniziative capaci di attivare meglio anche quegli enti collaterali che faticano ancora ad entrare in gioco – dalla FGR all’ENDAS, dall’AGCI alla corrente repubblicana della UIL (con il patronato ITAL), ecc. – raggiungendo e fidelizzando così aree di simpatizzanti pronti al voto. I contatti con l’Università e gli studi risorgimentali che Anedda dà alle stampe favoriscono inoltre un risveglio delle radici storiche del repubblicanesimo italiano e sardo, singolarmente ponendosi come elemento dialettico e infine però convergente con la modernità dell’impostazione lamalfiana, integralmente sposata dalla militanza (con qualche marginale e romantica nostalgia, s’intende, per la scuola sociale di Giulio Andrea Belloni o l’anticomunismo feroce di Randolfo Pacciardi). Ciò evidenzia un profilo assolutamente originale del “nuovo” PRI, sviluppando quelle premesse che la prolungata segreteria di Lello Puddu hanno gettato (non certo per demerito del titolare) in situazioni sovente difficili.

 

Domenica 11 febbraio 1968 i repubblicani celebrano a Nuoro, nei locali del Museo del Costume, il loro congresso, forse il più importante della lunga serie: perché è quello che delinea il partito finalmente emancipato, anche dal punto di vista organizzativo, dalla propria storica minorità e dal vassallaggio obiettivo (e pur anche affettivo) al Partito Sardo. Esso precede di quasi un mese quello convocato a Cagliari dal PSd’A (cui s’è già accennato) e si pone il centrale problema del se (e come) darsi disponibile alla prospettiva di confermare o no l’alleanza. E comunque, ove quelle certe condizioni non siano date e resti la sola possibilità di un accordo con la minoranza autonomista decisa ormai a farsi carico in toto dell’eredità ideale sardista (e forse a proporsi al PRI come partner esclusivo nell’ormai prossima scadenza elettorale), il congresso avverte anche l’urgenza di una revisione complessiva della propria struttura organizzativa tale da poter reggere, su un piano di parità sostanziale, la partnership.

 

All’appuntamento nuorese – e la sede nuorese risponde in pieno alla centralità che quella provincia ha nella battaglia interna ai Quattro Mori – è attesa la partecipazione dello stesso Ugo La Malfa, infine trattenuto nella penisola dalla morte improvvisa di Mario Pannunzio. Inviato della direzione nazionale è Vittorio Frenquellucci (che di Pannunzio traccia un commosso profilo umano e politico).

 

Copresiedono i lavori Alberto Mario Saba, Antonio Oliva e Arturo Frediani. Il primo ad intervenire, per il saluto di amicizia, è l’on. Melis, che brevemente riporta gli orientamenti emergenti nel dibattito interno al suo partito, auspicando – ma forse dolorosamente non credendoci! – che l’alleanza politico-elettorale con i repubblicani abbia fruttuosa replica a maggio.

 

Toccante l’intervento del sen. Mastino, che combina, da grande oratore quale è stato nella sua vita di avvocato e di parlamentare, le ragioni ideali della storia e quelle della attualità politica, marcando implicitamente il percorso cui sembra destinare repubblicani e sardo-autonomisti: «io sono sempre stato di sensi, di spirito, di convincimento repubblicano; io ho sempre, fin da giovane, ritenuto che uno degli artefici maggiori nel campo del pensiero, il maggiore della unità d’Italia sia stato Giuseppe Mazzini, che apparentemente sconfitto, spesso vilipeso, carcerato, attraverso la sua opera assidua di pensiero e di propaganda svegliò il mondo dei dormienti e trascinò dietro di sé l’Italia fino alla unità. Fu un religioso… Sempre il Partito Sardo è stato unitario e repubblicano: io ricordo uno dei primi comizi, uno dei primi congressi fatti all’insegna dell’idea repubblicana, della forma repubblicana dello Stato. Questo è stato sempre per noi principio vivo, principio vitale…». Accenna all’assenza forzata di Ugo La Malfa, «il capo parlamentare, uno dei capi al parlamento italiano dell’idea repubblicana», e ne loda «la parola opportuna, prudente ma decisa, illuminata sempre» nei dibattiti parlamentari più complessi e insidiosi, come quello sul SIFAR, concludendo con gli auguri: «maggiori fortune al Partito Repubblicano perché queste coincidono con le fortune d’Italia».

 

Espressioni parimenti amichevoli ed anche di adesione agli indirizzi repubblicani rivolge al congresso il consigliere comunale di Nuoro Pasquale Mingioni (indipendente) e, tanto più per esaltare la battaglia moralizzatrice di Ugo La Malfa, don Salvatore Fiori, già cappellano dei minatori dell’Argentiera, ora in dissenso con l’episcopato isolano.

 

Inviato, tra le acclamazioni dei delegati, un telegramma di ossequio al presidente della Repubblica Saragat, e richiamati alla memoria di tutti i nomi dei militanti scomparsi negli ultimi tempi, il segretario uscente Puddu legge quindi la propria relazione integrata da una comunicazione del suo vice Marrazzi, piuttosto orientata alle strette questioni programmatiche.

 

Partecipano alla discussione che segue una decina di delegati delle diverse sezioni territoriali: Anedda e Cossu di Cagliari, Batte di La Maddalena, Angius e Granata di Alghero, Augusto Capriotti (docente di microbiologia agraria) e Pietro Pittalis segretario della sezione di Sassari, Murgia di Guspini, Burrai di Nuoro, Serrenti di Assemini. Conclude Saba.

 

Ecco la mozione finale, votata a larghissima maggioranza dai delegati, nella chiara consapevolezza che il documento potrebbe essere la base di incontro (e un domani di unificazione) con i sardo-autonomisti:

 

«Il Congresso dei Repubblicani della Sardegna, riunito in Nuoro l’11 febbraio 1968, riconferma la sua adesione alla politica generale del partito, ravvisando in essa l’occasione più importante per gli strati avanzati della società italiana di contribuire alla costruzione dello Stato democratico secondo le linee di una nuova, moderna concezione della Sinistra, libera da dogmatismi ottocenteschi e aperta alle nuove conquiste umane della cultura e della tecnica;

 

«Udita la relazione politica e quella sul programma del PRI in Sardegna le approva;

 

«Considerato che il primo dovere delle formazioni che si ispirano ai principi della democrazia autonomistica è quello di contribuire al mantenimento delle istituzioni ma anche e soprattutto di reagire ad ogni aspetto di involuzione e di degenerazione che possono distruggere la originaria carica riformatrice, ritiene che la battaglia del rilancio dell’Autonomia debba essere fondata su:

 

«a) blocco della spesa corrente;

 

«b) riduzione delle spese di funzionamento della Giunta, del Consiglio e degli Enti a partecipazione regionale;

 

«c) attribuzione al P.M. del potere di impugnativa amministrativa ed accentuazione del potere di controllo di legittimità da parte della Corte dei Conti;

 

«d) istituzione del Tribunale amministrativo regionale;

 

«e) definizione dei rapporti fra autorità politica e burocratica;

 

«f) riforma della legge regionale n. 7;

 

«g) attribuzione al Consiglio regionale della nomina per gli incarichi negli Enti pubblici sottraendola alle lotte fra i partiti.

 

«Per quanto riguarda il problema dell’agricoltura afferma la necessità di provvedere rapidamente all’utilizzo delle opere esistenti a monte dei comprensori irrigui, mentre per il settore della pastorizia ravvisa nella incidenza della proprietà assenteista, nella instabilità del mercato e nella assenza di una adeguata struttura di cooperative le maggiori strozzature della economia delle zone interne.

 

«Per quanto concerne il settore dell’industria, il congresso regionale del PRI mentre condanna recisamente l’attuale politica delle PP.SS. discriminatoria nei confronti della Sardegna, afferma la necessità di una revisione della politica degli incentivi, che devono essere riservati alle iniziative ad alto tasso di occupazione nell’isola.

 

«Per il settore dei trasporti, considerato che l’abbattimento dei costi è di vitale importanza per l’avvenire dell’isola, ravvisa l’urgenza di introdurre nei porti sardi il regime di autonomia funzionale e la rigorosa applicazione della legislazione portuale.

 

«Per il Nuorese e le zone interne in generale i repubblicani chiedono alle forze politiche ed alla classe dirigente dell’isola uno sforzo consapevole mirante a chiudere definitivamente un passato di arretratezza, di sottosviluppo, di sofferenze e, nella visione di un problema che deve investire l’intera comunità nazionale, ritengono che il solidale contributo del paese può essere mediante il lancio di prestito obbligazionario diretto a realizzare condizioni di vita più umane, strumenti di intervento nuovi, capaci di determinare la redenzione del mondo agro-pastorale.

 

«In ordine ai problemi riguardanti la prossima consultazione elettorale, il Congresso impegna gli organi eletti a predisporre immediatamente quanto necessario per assicurare un’efficace presenza del partito nella battaglia elettorale ed indica ai repubblicani il dovere di combattere con fervido slancio per un successo delle liste dell’Edera.

 

«Per quanto concerne infine i rapporti con altre forze politiche che si richiamano agli stessi principi repubblicani democratici ed autonomistici, il Congresso richiama le precedenti deliberazioni degli organi direttivi, riaffermando la disponibilità del partito ad accordi duraturi, non fondati su sole esigenze elettorali, ma estesi ad una piattaforma politica che accolga, senza equivoci e senza tatticismi, le linee della battaglia repubblicana nel Paese, in una visione di impegno chiaramente autonomista che respinga con fermezza qualsiasi prospettiva separatista, che i repubblicani giudicano antistorica, velleitaria e inaccettabile.

 

«Solo in questo quadro il Partito Repubblicano, nel rispetto delle reciproche individualità, può trovare il fondamento di una battaglia che è nella tradizione repubblicana e che ha certamente contribuito al progresso civile del popolo sardo».

 

Come detto, a quello repubblicano segue il XVI congresso sardista che si conclude con deliberati puramente rivendicativi e tendenzialmente separatisti, i quali sono duramente riprovati dalla direzione regionale del PRI, che nella sua riunione del 4 marzo, quando anche rielegge Lello Puddu alla segreteria ed Alberto Mario Saba alla vice segreteria, li considera  «incompatibili con la piattaforma politica generale del PRI» ed elusivi dei «temi espressi dai repubblicani nel congresso di Nuoro», non trovandosi in essi traccia di alcuna pur doverosa «analisi critica del processo degenerativo in atto nelle istituzioni autonomistiche».

 

Preso atto pertanto della «impossibilità di ripristinare l’accordo elettorale col PSd’A» – è detto ancora nel deliberato direzionale – il PRI sardo procederà alla presentazione autonoma della lista dell’Edera, rimanendo aperto «a tutte le forze democratiche, repubblicane autonomiste disposte, senza tatticismi, a combattere la battaglia politica del Partito Repubblicano».

 

A tale deliberato risponde prontamente il direttivo centrale del PSd’A del 10 marzo: prendendo atto delle posizioni assunte dagli ex alleati e, insieme a ciò, dell’invito rivolto all’on. Melis di un incontro nella sede romana di piazza dei Caprettari, si ritiene «di dover preliminarmente conoscere l’oggetto da porre in discussione nel corso dell’eventuale incontro, richiamandosi, per quanto attiene alla piattaforma programmatica ed ai rapporti tra i due Partiti, alle posizioni deliberate dal XIV congresso del Partito Sardo d’Azione».

 

Salta, nel concreto, qualsiasi possibilità di un chiarimento e l’11 marzo la direzione nazionale repubblicana dichiara la decadenza del patto unitario. Sono esplicitamente menzionate, fra le cause di tale deliberato, le nuove opzioni programmatiche del PSd’A: «l’autonomia statuale della Sardegna nell’ambito di uno Stato italiano federale, la riforma del Senato, basata sulla rappresentatività paritetica delle regioni, la partecipazione di queste ultime alla nomina dei giudici costituzionali, la fondazione di autonomi organismi regionali tra di loro federabili».

 

Le elezioni politiche del 1968 e le sue conseguenze

 

La Malfa comunica le decisioni della sua direzione a Giovanni Battista Melis, accompagnando all’informativa il suo personale rammarico per una conclusione così traumatica di una collaborazione che era nata su presupposti molto positivi. Questo il testo del messaggio datato da Roma il 12 marzo 1968: «Caro Melis, ieri, la Direzione, che era stata messa da me a conoscenza della mozione approvata dal congresso del PSd’A, ha atteso invano che tu presenziassi alla riunione. Poiché i tempi premono e un rinvio di decisioni non era più possibile, io, con grande rammarico, ho dovuto fare lo stesso la relazione, sulle linee di franchezza e di chiarezza, che ti avevo del resto anticipato.

 

«La Direzione, dopo ampia discussione, ha preso all’unanimità la deliberazione che ti accludo in copia. Puoi immaginare, dati gli affettuosi rapporti di amicizia che abbiamo sempre avuto, quanto ciò mi abbia personalmente dispiaciuto e quanto sia dispiaciuto alla Direzione. Ma l’impegno politico ha le sue ferree e dure leggi e un immutato sentimento di amicizia e di affetto nulla può mutare all’inesorabile legge della chiarezza dei principi e dei rapporti.

 

«Salutami tutti gli amici. Ti abbraccio, Ugo La Malfa» (cf. Carte Puddu, in Repertorio).

 

Secondo le previsioni, la minoranza del PSd’A cerca nel PRI l’interlocutore e il “compagno di viaggio” che possa favorire il proprio disegno politico ed il PRI scorge negli scissionisti coloro che, forse, potrebbero un giorno dar corpo alle proprie strutture sul territorio, ancor più materializzando lo slogan del 1963 lanciato da Reale, secondo cui i sardisti erano «i repubblicani della Sardegna». Così la campagna elettorale vede il partito dell’Edera convinto di poter eleggere, per la prima volta nella sua storia, un proprio esponente, grazie al significativo (ancorché non misurabile) apporto di voti dei sardo-autonomisti.

 

Sul n. 4-5 del 15 febbraio-15 marzo 1968 della Tribuna della Sardegna un redazionale attribuibile a Bruno Josto Anedda così commenta le ultime novità: «Un nuovo partito sta sorgendo in Sardegna: si tratta del Partito Sardo Autonomista. Esso verrà costituito con la ratifica, che avverrà in un congresso appositamente indetto, di una carta statutaria e di un documento contestativo della validità del recente congresso sardista indetto a Cagliari dall’on. G.B. Melis.

 

«Circa la non rappresentatività del Congresso sardista di Cagliari si sono espressi anche uomini al di sopra della mischia come gli avvocati Mastino e Oggiano, tra i fondatori del Partito Sardo, che l’hanno apertamente giudicato quale congresso “di corrente”.

 

«Lo stesso svolgimento dei lavori congressuali di Cagliari avallerebbe la tesi della cosiddetta “minoranza autonomistica”. Infatti, dopo accorati appelli all’unità del partito, la corrente scissionista decise di inviare un delegato al Congresso per esprimere, tramite suo, i motivi del dissenso dalla “linea Melis” e le critiche circa la rappresentatività del Congresso stesso. Fu designato a tale scopo il dott. Armando Corona, consigliere provinciale sardista. Ma giunto alla Fiera, dove si svolgevano i lavori, il dott. Corona venne a sapere che non gli sarebbe stato concesso di parlare.

 

«In seguito a questi fatti la minoranza autonomista ha ritenuto di non poter restare più dentro il Partito Sardo d’Azione e ha deciso di costituire un nuovo partito che vorrebbe essere il vero depositario del filone politico sardista, tanto più che nel Congresso di Cagliari è stato persino accettato di modificare lo statuto del partito secondo le pressioni “federaliste” e “rivoluzionarie”».

 

Di seguito a tale nota, un’altra breve dal titolo “Il PRI da solo alle politiche”: «Il Partito Repubblicano si presenterà in Sardegna con una lista “edera” costituita autonomamente. La Direzione regionale del PRI ha infatti deciso – e La Malfa ne ha preso atto – che, vista la situazione ed esaminati i risultati del Congresso sardista di Cagliari, un accordo elettorale era pressoché impossibile.

 

«A parte la questione dell’autonomia statuale, richiesta non meglio chiaramente dai sardisti di Melis, altre impostazioni politiche dividono ormai i due partiti: ad esempio il giudizio diverso sulla politica dei redditi, sulla politica meridionalistica, sulla revisione critica dell’autonomia regione etc.».

 

Le realtà sono speculari. Il sardismo dissidente guarda ormai al PRI come alla casa in cui esso potrà esprimere compiutamente i propri valori tradizionali, nel necessario aggiornamento imposto dai tempi. E’ significativa, da questo punto di vista, la lettera datata 28 aprile 1968, dal taglio evidentemente didascalico, che l’anziano sen. Mastino diffonde nella base, soprattutto nuorese, del PSd’A.  Eccone il punto centrale: «Il nostro simbolo, quello che bisogna segnare, votando per i Sardisti è quello dell’Edera. Ciò perché, nel Congresso recente di Cagliari, è stato cambiato il vecchio programma; prima eravamo solo autonomisti, adesso, secondo il cosiddetto congresso, dovremmo diventare separatisti. Noi siamo quello che eravamo, sardisti autonomisti ma non separatisti, sia perché italiani, sia perché la Sardegna, separata dal continente italiano, non potrebbe vivere.

 

«I nuovi sardisti, che hanno modificato il vecchio statuto e che hanno, così, creato un nuovo partito, hanno mantenuto il vecchio simbolo dei quattro mori, per quanto abbiano cambiato le idee.

 

«I nostri amici, così come cinque anni fa, sono candidati nelle liste dell’Edera, alleati con il Partito Repubblicano Italiano che da decenni conduce al nostro fianco la battaglia per l’affermazione delle idee Autonomiste» (cf. Carte Mastino, in Repertorio).

 

Alle elezioni del maggio 1968 la lista dell’Edera comprenderà, per metà, candidati sardo-autonomisti per i quali, come già accennato, scatterà presto, ben comprensibile, la espulsione dal Partito Sardo. Una querelle sorgerà anche riguardo al sen. Mastino il quale avvertirà di non avere lui rinnovato la tessera, atteso che avrebbe dovuto farlo di un partito altro (indipendentista) da quello nel quale aveva militato per mezzo secolo! Alle espulsioni decretate dalla direzione del PSd’A si combinerà la rottura nel gruppo consiliare in Consiglio regionale. Giuseppe Puligheddu e Nino Ruju, insieme con Salvatore Ghirra consigliere indipendente, costituiranno infatti il gruppo Sardista Autonomista. In quello ufficiale del PSd’A rimarranno iscritti gli onn. Anselmo Contu, Pietro Melis e Carlo Sanna.

 

Una testimonianza sulla scissione sardista del 1968

 

Al convegno che si svolgerà a Sassari il 30 marzo 1985 “in onore di Michele Saba” e ad iniziativa della Unione Comunale del PRI cittadino, Marcello Tuveri presenterà una ampia comunicazione riepilogativa degli eventi del 1967-68 (cf. “Una testimonianza sulla scissione sardista del 1968”, in Archivio Trimestrale, Roma, 1985, n. 3, numero speciale monografico riportante gli atti del convegno “Il movimento democratico e repubblicano nella Sardegna contemporanea. Studi in onore di Michele Saba”). Eccone il testo:

 

La testimonianza su un avvenimento così recente come la scissione sardista del 1968 non può limitarsi alla vicenda – in sé modesta – di una minoranza che, lasciando quel partito, contribuì con la costituzione del Movimento Sardista Autonomista, prima, e con l’ingresso nel Partito Repubblicano, poi, allo sviluppo ininterrotto di quest’ultimo. I fatti da cui quell’avvenimento fu preceduto ed alcune conseguenze non sufficientemente avvertiti dalla cronaca di ieri e di oggi meritano una certa considerazione.

 

Non è facile individuare il punto di partenza di quella crisi che indusse uomini di spicco come l’onorevole Pietro Mastino, fondatore del Partito con Lussu e Bellieni, già senatore della Repubblica o l’onorevole Giuseppe Puligheddu, ex assessore all’Agricoltura, giovani di forti capacità politiche come Nino Ruju, Nino Mele, Sergio Bellisai, Vincenzo Racugno e Giovanni Merella, a lasciare il Partito Sardo dopo aver ritenuto impossibile ogni azione per riportarlo alla sua funzione storica. È tanto più difficile spiegare come il Partito Sardo d’Azione, raggruppamento di tipo centrista alleato della DC per circa vent’anni, con interruzioni più o meno lunghe, nel governo della Regione, si sia potuto trasformare nel giro di pochi anni in un movimento di tipo estremistico con venature extraparlamentari ma solidamente alleato del Partito Comunista Italiano. Le cause di questa evoluzione non possono farsi risalire soltanto al logorio della lunga pratica di governo centrista, né all’atteggiamento separatista di alcune frange. Sul corso della vicenda sono state involontariamente tenute in ombra cause come la gestione autoritario-clientelare del Partito, la insufficiente coerenza politico-ideologica e lo scarso apprezzamento per i nuovi fermenti culturali che in quegli anni facevano capolino nella vita sarda. Per cui, a distanza di 15-20 anni sembra che i sardisti autonomisti siano usciti dalla destra del Partito Sardo d’Azione mentre, in verità, furono espulsi perché uomini di sinistra. Sembra che la scissione sia stata determinata da una mera contrapposizione di forze mentre la spaccatura verticale era di metodo, di contenuto e persino di costume politico. E come sempre, in ogni vicenda di questo tipo, questioni individuali, rapporti umani, atteggiarsi di persone e gruppi in rapporto ai propri interessi materiali o spirituali furono importanti anche se non sempre palesi.

 

2 – Fin dalla precedente scissione lussiana del 1948 il Partito Sardo era stato gestito, con più o meno forti condizionamenti dall’avvocato Giovanni Battista Melis, da allora quasi ininterrottamente Direttore Regionale del Partito, carica che secondo lo statuto vigente dal 1921, corrispondeva a quella attuale di Segretario generale ed insieme Presidente del partito. Deputato al Parlamento nel 1948, Melis aveva aderito al gruppo repubblicano.

 

Rieletto nel 1963 sotto il simbolo dell’edera, in una lista comune di sardisti e repubblicani, aveva ripercorso la stessa esperienza. Ma la sua adesione al gruppo di La Malfa, come del resto l’alleanza con i repubblicani, non era un dato costante della politica del PSd’A. Il debito dei sardisti verso gli ideali risorgimentali non aveva impedito loro di presentarsi alle elezioni politiche del 1953, quelle per intendersi svolte col premio di maggioranza, «apparentati» in modo autonomo alla DC, né di aderire nel 1958 alla lista che si era formata attorno ad Adriano Olivetti nel Movimento di Comunità assieme al Partito dei contadini d’Italia. Ma nel complesso quadro del secondo dopoguerra il Partito Sardo aveva coperto in Sardegna lo spazio politico del PRI mentre «nazionalmente» si collegava a tale forza politica.

 

Come accade spesso nei partiti politici alla vocazione democratica all’esterno, cioè alla lotta per la diffusione dei principi di sovranità popolare e di rappresentatività parlamentare, non corrispondeva sempre altrettanta libertà di dialogo e di dibattito all’interno. L’egemonia di Melis e della sua vasta e ben radicata corrente avevano provocato, ben prima del 1968, l’abbandono del Partito da parte di gruppi e di personalità notevoli. La collaborazione del Partito Sardo con la Democrazia Cristiana nelle dieci giunte regionali che si erano succedute dal 1949 era stata assicurata negli ultimi otto anni dal professore Pietro Melis, fratello del Direttore regionale ed assessore all’industria tra la metà degli anni ’50 ed il 1965.

 

La vicenda interna del sardismo era, dunque, caratterizzata da una organizzazione di tipo clientelare volontaristico nella quale le strutture formali (organi, uffici, assemblee, congressi) avevano un valore reso assai relativo dalla forte personalità del suo leader. Tale personalità era stata contrastata, nei primi anni sessanta, da alcuni gruppi che costituivano isole elettorali o isole organizzative. Di questi gruppi il più rilevante era quello facente capo agli onorevoli Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Giuseppe Puligheddu e che comprendeva le sezioni di gran parte della provincia di Nuoro. Un’altra componente notevole era costituita dai giovani universitari che a metà degli anni ’50 avevano preso, sotto la guida di Nino Ruju e di Nino Mele, in mano la bandiera del sardismo in provincia di Sassari cercando di rinnovare metodi e linea politica. L’influsso del movimento universitario legato alla esperienza dell’Unione Goliardica Italiana aveva come base Sassari, nella quale Nino Ruju era divenuto Direttore provinciale del Partito. Ma i legami andavano oltre. Nella provincia di Nuoro vi erano gruppi che formavano la corrente di «Nuovo azionismo», attorno ad un giornale di ispirazione laico-progressista diretto (sarebbe meglio dire «fatto») da Giannetto Massaiu, Gianni Mereu e Annico Pau. A Cagliari, negli anni precedenti la scissione, un altro gruppo formato da Armando Corona, Sergio Bellisai, Vincenzo Racugno e Marcello Tuveri si muoveva nella direzione di una funzionalità democratica delle strutture assieme ad una diversa considerazione dei problemi sociali. Il gruppo prenderà il nome, non a caso, di «democrazia sardista». Di questo insieme di gruppi e delle sezioni (spesso organizzate solo sulla carta) che formavano il Partito Sardo il Congresso regionale non si teneva dal 1960, anno in cui un’assemblea aveva esaurito in una domenica l’ascolto di alcuni discorsi che facevano contorno a quello del Direttore regionale in un’atmosfera laudativa più che di dibattito politico.

 

3 – Quando Antonio Simon Mossa irrompe nella scena politica del Partito e della Sardegna con le sue istanze separatiste alcune situazioni sono da tempo in movimento. Di tendenze liberali, poi radicaleggiante, poi filo-catalane l’architetto algherese aveva un passato giornalistico e culturale di tutto rispetto: un certo cosmopolitismo si fondeva con il provincialismo etnico (per riprendere un’espressione del Pigliaru) e con una notevole carica umana. Il suo incontro politico con Melis coincise con una fase di polemica tra il gruppo dei giovani di Sassari e la Direzione regionale.

 

I temi dello scontro sono evidenti a chi confronti le relazioni di Ruju e di Salvatorangelo Razzu al Congresso provinciale tenutosi ad Ozieri il 21 novembre 1965 e gli scritti di Antonio Simon Mossa contenuti nel volume «L’autonomia politica della Sardegna». Da un lato si teorizza il partito-movimento nel quale alla preminenza dei temi politici generali si associa un’attenzione verso la democrazia interna e la libertà di organizzare il dissenso. Dall’altro la difesa strenua del recente passato (l’industrializzazione promossa dal Partito attraverso l’assessorato retto dall’onorevole Pietro Melis) unita ad una esplicita domanda politica nuova fondata su basi etniche e geo-politiche nel quale si uniscono alla denuncia dell’oppressione colonialista professioni di fede nominalmente labourista, alla difesa della lingua la richiesta di un sindacato sardista, sotto la guida di un partito leninista e di tipo sudamericano. La scelta era insomma tra il partito democratico, laico, progressista, aperto alle istanze della società occidentale ed il partito rivoluzionario e anticolonialista. Tra La Malfa e Che Guevara G.B. Melis scelse Che Guevara. Infatti prima del Congresso un ben alto numero di tessere e di tesserati erano stati «concessi» ad Antonio Simon consentendogli di creare sezioni, di vincere i giovani, che dal 1956 avevano ricostruito su basi nuove un partito estinto in quella provincia. Se la dirigenza sardista non avesse incontrato nel suo cammino Simon Mossa, il separatismo avrebbe avuto una vita ben difficile. Se. Antonio Simon e i suoi amici nazionalisti non fossero stati accolti dal Partito Sardo avrebbero continuato la loro opera a livello giornalistico culturale od al più nei gruppuscoli dai quali provenivano. Per la prima volta in un’assise sardista si creava una maggioranza composta da sei elementi (Nino Piretta, Ferruccio Oggiano, Antonio Cambule, Antonio Simon Mossa, Giovanni Meloni e Giampiero Marras) ed una minoranza formata da Gavino Lai, Nino Mele e Davide Melis.

 

Nel Congresso di Ozieri vinse la linea della «autonomia statuale» uno degli eufemismi, assieme a quello federalista, indipendentista etc. a cui si ricorse per caratterizzare il movimento separatista.

 

Qualche mese prima del Congresso di Ozieri il Direttorio provinciale di Nuoro, su proposta di Sebastiano Maccioni, aveva chiesto che la rappresentanza sardista nella Giunta regionale venisse rinnovata nell’Assessorato dal PSd’A e nella persona dell’Assessore. Nelle elezioni del giugno erano stati eletti per il Partito Sardo d’Azione cinque consiglieri (Pietro Melis e Carlo Sanna nel Collegio di Cagliari, Anselmo Contu e Giuseppe Puligheddu a Nuoro e Nino Ruju a Sassari). La richiesta di cambiare assessorato significava una svolta politica. In questi primi mesi della quinta legislatura si poneva così la premessa per un rivolgimento della linea sardista. Il PSd’A cessava di essere il partito dell’industrializzazione a tutti i costi e tornava ad occuparsi di quel mondo contadino e pastorale di cui era stato espressione fin dal primo dopoguerra. La richiesta dell’assessorato all’agricoltura per l’onorevole Puligheddu comportava uno spostamento di potere dal gruppo Melis e dalla provincia di Cagliari verso il gruppo Mastino-Puligheddu della provincia di Nuoro e più in generale dalla Direzione regionale verso quanti non gli erano decisamente e totalitariamente favorevoli. La frattura non si riformerà al rapporto tra i vertici del gruppo consiliare (Melis e Sanna da un lato, Puligheddu e Ruju dall’altro ed Anselmo Contu che tentava di mediare). Andrà oltre e scenderà nelle sezioni delle tre province creando gruppi contrapposti. Ma nel congresso provinciale di Nuoro il Gruppo Mastino-Puligheddu e Maccioni che era il Direttore provinciale, prevalse sugli oppositori. Per la maggioranza venivano eletti Sebastiano Maccioni, Luigi Marcello, Stefano Balata, Batore Corronca, Narduccio Usai, Sebastiano Sauna, Angelo Stocchino. Per la minoranza Dario Capelli, Antonio Colli, Giacomo Mameli e Piero Mureu. Anche in provincia di Cagliari la polemica tra gli avversari del gruppo Melis ed il resto del partito si faceva acuta negli anni che vanno dal 1963 al 1965. Qui la polemica si colorava soprattutto dell’esigenza di dare respiro e struttura democratica al Partito, di scegliere una linea politica che ponesse il polo laico e socialista all’avanguardia della politica di sviluppo, di riaccostare il Partito Sardo ai lavoratori ed ai ceti subalterni, senza cadere preda del PCI. Un partito democratico, laico e progressista si legge nella mozione presentata da Sergio Bellisai alla Sezione di Cagliari sul finire del 1965, deve ritornare ad essere espressione della sovranità popolare. La ricerca della forma partito non serviva solo a fissare la prevalenza «sull’elettorato indistinto e talvolta organizzato in clientele» ma a fissare «la potestà degli organi nei confronti degli eletti».

 

Al Congresso provinciale di Cagliari del 30 gennaio 1966 si confrontarono tre posizioni: una Mozione sardista – zona Sulcis sottoscritta da un folto gruppo di delegati di quella zona e dall’onorevole Pietro Melis; una mozione dal titolo «Democrazia sardista» sottoscritta da Vincenzo Racugno, Armando Corona, Marcello Tuveri, Sergio Bellisai, Francesco Cesare Casula, Italo Ortu ed altri; una terza mozione dal titolo «Avanguardia sardista» sottoscritta da Pietro Deledda, Bachisio Morittu, Mario Pinna e altri nella quale veniva contestata la politica di centro sinistra e richiesta la riforma della Giunta regionale onde consentire con l’aumento del numero degli assessorati la copertura di un secondo assessorato da parte del Partito Sardo.

 

Il dibattito fu molto acceso come dicono le cronache dei giornali e mentre fu dominato dai contenuti e dalle scelte della minoranza di «Democrazia sardista» si concluse con la negazione del diritto al riconoscimento delle correnti ed al contenimento del dibattito interno. Il rapporto numerico tra i due schieramenti registrava 1.275 voti alla unica lista di minoranza e 3.225 voti alla lista di maggioranza. Per la maggioranza furono eletti l’avocato Piero Soggiu, ex consigliere regionale, dottor Bruno Fadda, Gino Fadda, Salvatore Brenau, Eliseo Mocci, Giovanni Piras, Gustavo Puddu, Antonello Pilloni, Battista Tipula ed Ettore Tronci. Per la lista di minoranza vennero eletti Ovidio Addis, Marcello Tuveri, Tonino Uras, Italo Ortu e Sergio Bellisai.

 

Il tema di fondo del Congresso era stato anche a Cagliari la richiesta di «aperture di dialogo produttive attraverso la contrapposizione di valide tesi» ed il riconoscimento ufficiale di «forze operanti con prospettive diverse e tendenti ad apportare nuove linfe al vigoroso tronco della tradizione». In sostanza il riconoscimento delle correnti ed il rispetto delle minoranze venne negato.

 

L’atteggiamento di preclusione per ogni dibattito interno era coerente alle posizioni assunte in altri documenti ed in tutto il comportamento della direzione che era ostile non alla discussione ma «non ammetteva l’esistenza di correnti organizzate fomentatrici di disgregazione». Tuttavia è esatto il giudizio con cui «La Nuova Sardegna» sosteneva che nel Congresso di Cagliari «era la prima volta nella storia del Partito che si teneva il congresso degli iscritti. Generalmente gli organi dirigenti erano designati dai congressi regionali o dall’esecutivo regionale».

 

4 – Il conflitto tra le due anime del sardismo, quella democratica ed aperta alle nuove esperienze e quella legata alla visione integralista del sardismo con propensioni cripto-separatiste non si esaurì. Il Congresso regionale che doveva tenersi nel 1966 venne convocato solo per il febbraio del 1968. L’intervallo di tempo fu riempito da una serie di avvenimenti dei quali non è facile neppure l’elencazione, data la loro intensità.

 

La crisi della giunta regionale con la sostituzione alla presidenza dell’onorevole Efisio Corrias con uno dei leaders dc dei «giovani turchi» di Sassari, l’onorevole Paolo Dettori, si chiuse con un cambio della guardia. Tuttavia la presenza dell’onorevole Puligheddu all’Assessorato costituiva un pericolo per il gruppo dell’onorevole Melis che, frattanto, andava rafforzandosi sul piano organizzativo utilizzando il vento filo-indipendentista che spirava fuori e dentro il Partito Sardo. I convegni dei sardisti autonomisti, corrente nella quale si erano unificate le opposizioni delle diverse province, furono diversi.

 

Il 30 dicembre 1967, partecipe anche l’onorevole Salvatore Ghirra (consigliere del gruppo comunista che aveva aderito al gruppo del PSd’A e non condivideva le posizioni separatiste), si tenne un primo convegno a Macomer nel quale i sardisti autonomisti chiedevano la sconfessione delle tendenze separatiste e la condanna della ventilata adesione ad un «fronte popolare», in antitesi con la tradizione democratica e autonomista del Partito.

 

Il 4 febbraio 1968 si tenne a Nuoro il Convegno, decisivo per la corrente e la futura scissione, che ormai appariva inevitabile. Qui, alla presenza di alcune centinaia di persone si ponevano le basi di una possibile rottura e di rifiuto delle istanze conciliative e si giudicava il Congresso del 24-25 febbraio «un fatto interno al gruppo dell’onorevole Melis». La solidarietà con il PRI, rifuggendo da strumentalizzazioni elettorali, sarebbe dovuta essere effettiva.

 

Ma ormai la Direzione del PSd’A e la corrente sardista autonomista correvano su strade parallele, in una ridda di comunicati contenenti accese smentite che dovevano arricchire le pagine dei giornali senza suscitare alcun accostamento di posizioni tra le parti.

 

Momento cruciale della lotta tra le due linee, prima del Congresso era stata la riunione del Consiglio regionale sardista, tenutasi ad Oristano il 27 novembre 1967 e della quale Gianfranco Murtas ha dato conto ne «La Voce repubblicana» del 10 gennaio 1985. In quel Consiglio l’onorevole Puligheddu esprimeva a nome dei sardisti autonomisti la sfiducia nel Direttore generale e l’invito a sconfessare le tendenze separatistiche di cui si erano fatti portatori i Segretari provinciali. La mozione fu votata e respinta con 22 voti contro 10. Fu questa l’ultima riunione in cui le parti si incontravano. La lettera con cui, tra molti condizionamenti, si accettava la collaborazione del PRI nelle imminenti elezioni politiche fu votata dalla stessa maggioranza.

 

La corrente autonomista decideva di non partecipare al Congresso se non con un proprio rappresentante in quanto alla riunione erano mancati i presupposti di un dibattito libero delle Sezioni ed il tesseramento era stato compiuto in maniera discriminatoria.

 

Il Congresso tenuto alla data stabilita vide tre mozioni: una illustrata da Piero Soggiu e sottoscritta da Antonio Simon Mossa e dai rappresentanti separatisti della provincia di Sassari e da Michele Columbu e le altre mozioni presentate da Antonello Pilloni (Sulcis-Iglesiente) e Antonio Verachi (Nuoro). La lista del Sulcis confluì, come era già accaduto al Congresso provinciale di Cagliari, con la maggioranza che prese 5.230 voti contro i 1.745 della minoranza. La mozione di maggioranza riprendeva testualmente le posizioni separatiste affermando che per la prima volta in un documento ufficiale la battaglia del Partito «per una più radicale riforma dello stato in senso federalistico, che abbia come meta il riconoscimento dell’autonomia della Sardegna nell’ambito dello Stato italiano concepito come repubblica federale». In quella stessa mozione la conferma dell’alleanza con il PRI era adombrata con espressioni quale «condizione assoluta della sua validità resta la misura nella quale il PRI saprà vedere e intendere i problemi particolari della Sardegna ed impegnare nella soluzione di essi, senza riserve, la propria incidenza politica».

 

La corrente autonomista in un suo comunicato avvertiva l’opinione pubblica che il gruppo Melis era confluito su posizioni separatiste e denunciava come fosse stato impedito al proprio rappresentante di parlare al Congresso. Incominciarono le espulsioni. A Nuoro Sebastiano Maccioni, Luigi Marcello e Salvador Marletta dichiararono che il PSd’A non era più il partito cui avevano aderito.

 

La Direzione regionale del PRI il 4 marzo successivo osservava che il Congresso sardista aveva proposto istanze incompatibili con la piattaforma politica generale del partito ed apriva le proprie liste elettorali a tutte le forze democratiche, repubblicane e autonomiste disposte a combattere la battaglia politica generale del PRI.

 

5 – Mentre il PRI si apprestava ad accogliere i sardisti autonomisti nelle sue liste, questi davano vita al Movimento Sardista Autonomista. Un opuscolo in dimessa edizione tipografica conteneva il programma del Movimento. La critica all’istituto autonomistico, che aveva esaurito la sua carica di rinnovamento si univa a quella verso i partiti che si erano venuti configurando come gruppi di interesse. Il sardismo era rivalutato, ma la crisi del PSd’A veniva collegata alle insufficienze dei partiti che erano rifiutati in quanto strutture organizzative inadeguate a risolvere i problemi della società. Pertanto, pur accettando di combattere la battaglia col PRI si arrivava alla conclusione che solo un movimento politico nuovo avrebbe potuto recuperare il moto antiautoritario che pervadeva la coscienza dei cittadini a favorire la partecipazione «senza altri mediatori che quelli che si veniva scegliendo di volta in volta, in assoluta libertà di giudizio e fuori di ogni obbedienza di gruppo». A quella prima presa di posizione, rivolta a continuare il sardismo in modo nuovo ed originale secondo un’ispirazione che era dominante in Nino Ruju ed in chi scrive, seguì l’assemblea regionale del movimento in cui i temi della lotta politica, gli schematismi delle organizzazioni partitiche venivano duramente contestati.

 

Il Movimento Sardista Autonomista ebbe, specie in provincia di Cagliari e grazie all’opera dell’onorevole Salvatore Ghirra, uno sviluppo organizzativo notevole, espresso attraverso numerose assemblee di base e convegni zonali. Il Movimento visse anche oltre le elezioni politiche proseguì la sua azione in cooperazione col PRI ma mantenendo integra la sua fisionomia.

 

Alle elezioni politiche del maggio successivo il PRI e sardisti autonomisti conseguivano in Sardegna l’1,9916 dei voti con una lista nella quale l’edera e l’impronta della Sardegna erano unite. L’avvocato Pietro Mastino e l’onorevole Peppino Puligheddu venivano espulsi dal PSd’A. La stessa sorte toccava successivamente a Corona, Tuveri, Racugno, Bellisai, Pinna Ruju, Merella, Maccioni ed a tutti gli altri che avevano operato per il successo delle liste dell’edera. Le espulsioni erano in genere tardive e motivate da espressioni come tradimento, indegnità morale etc.

 

L’onorevole Giovanni Battista Melis, presentatosi come candidato in una lista sotto il simbolo dei quattro mori, non veniva rieletto alla Camera dei deputati. Nel Partito Sardo d’Azione, che aveva lasciato nel febbraio 1967 la Giunta regionale e le collaborazioni con la DC, si aprì un processo di successivo spostamento verso la sinistra comunista e l’accettazione sempre più diffusa delle istanze separatiste.

 

In questo conflitto giocarono un ruolo fondamentale le forze politiche più forti e cioè la DC ed il PCI. La Democrazia Cristiana, pur lamentando a parole la scissione sardista, aveva contribuito obiettivamente alla sua accelerazione negando ai sardisti la proporzionale rappresentanza nella giunta Dettori e quindi quell’equilibrio tra il gruppo Melis e l’opposizione che avrebbe consentito, forse, la compresenza delle diverse componenti. Il Partito Comunista, pur essendo un partito di convinzioni rigorosamente unitarie, aveva prestato particolare attenzione ai fermenti regional-nazionalistici. Ma soprattutto vedeva nella scissione sardista un modo per rompere il suo isolamento dopo la confluenza del Partito Socialista anche in Sardegna sulle posizioni di centro-sinistra.

 

Si vuole adombrare in questa breve testimonianza, che la scissione del 1968 contribuì non poco ad accrescere il bipolarismo politico in Sardegna. All’indebolimento del Partito Sardo d’Azione corrispose un rafforzamento del Partito Repubblicano nell’Isola. Ma le forze della sinistra democratica torneranno a svolgere un ruolo di governo solo nel 1977 con la seconda Giunta Soddu. Il Partito Sardo d’Azione contribuirà alla fine dell’80 alla formazione di una giunta di sinistra nella quale la dominanza del PCI sarà temperata dalla presenza del PSI e del PSDI. Il Partito Sardo, persa la corrente che si ispirava alla democrazia di sinistra, si trasformò, paradossalmente, nel partito più vicino alle posizioni radicali e popular-separatiste, sino all’ultimo successo elettorale.

 

La sua presenza ha potuto fruire della neutrale attenzione del PCI e del suo sostegno indiretto in più occasioni. Nel PRI la componente sardista autonomista è venuta a fondersi completamente col nucleo storico originario e con le nuove leve del partito della democrazia senza aggettivi.

 

Si apre qui la stagione, che si prolungherà per circa tre anni, della stretta collaborazione, anche elettorale, del Movimento Sardista Autonomista con i repubblicani. Il 21 marzo 1971 i sardo-autonomisti confluiranno nel Partito Repubblicano Italiano in un congresso di quest’ultimo cui parteciperà lo stesso on. Ugo La Malfa.

 

 

***

 

 

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

 

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