Come un cane. A proposito di cani in letteratura (sarda), di Mario Cubeddu
La comunione tra uomo e animale, è stato detto, ha almeno un elemento comune, incontestabile: la sofferenza. Paolo De Benedetti: Teologia degli animali, Morcelliana 2007
Credo di aver trovato l’elemento sardo in Franco Loi. Mi verrebbe da dire che si tratta di un tema ancestrale, primitivo, ma sbaglierei, mi starei solo adeguando a uno stereotipo, costruito da altri, sui sardi. Non siamo più ancestrali né più primitivi degli altri, viviamo, e abbiamo sempre vissuto, il tempo che tutti vivono nel mondo contemporaneo. No, noi siamo quel che siamo per la storia che abbiamo vissuto, che ha forgiato il nostro modo di vedere l’esistenza umana, dei singoli come delle comunità.
Se un elemento sardo esiste in Franco Loi, un archetipo che lo connette all’inconscio sardo[1], mi sembra si possa individuare nell’insistente metafora “come il cane”, “come i cani”.
È sorprendente la frequenza di questa immagine. Faccio riferimento anzitutto all’antologia “Aria de la memoria” del 2005. L’immagine è presente sin dal primo verso dell’antologia, tratto dalla prima raccolta I cart: La not cucìvi com’un can de bara (La notte mi accucciavo come un cane da carrettieri). Ma non finisce qui, la similitudine è ripresa prima della fine del componimento: sbiancavi, un pù baiavi, com un can, medàn qui can sbanduna che trema… (sbiancavo, un po’ abbaiavo, come un cane/ come quei cani abbandonati che tremano…). Questo testo, dicevo, fa parte della prima raccolta, pubblicata nel 1973, quando Franco Loi ha 43 anni. Passando a L’aria, la raccolta pubblicata da Einaudi nel 1981, cito anzitutto il primo verso di un suo testo famoso, …padrun de can che lecca il cu’ a la serva (padrone di cane che lecca il culo alla serva), anche se la citazione sembra molto diversa da quella precedente e fuorviante rispetto al tema che intendo sviluppare. Ma basta voltare pagina per trovare nel testo successivo questo verso: Mèj l’è sparì, vess surd, bujà, ‘m’ i can (Meglio è sparire, essere sordi, abbaiare come i cani); siamo tornati in tema, il cane inserito in una situazione di avvilimento, di sofferenza, propri della condizione umana. A questo registro ascrivo un verso presente in un altro testo famoso in cui viene rappresentato il padre umiliato dalla condizione di malato in ospedale, un verso che recita l’era lì morta cunt i pè de can (era lì morta con i piedi di cane). Solo un testo pieno di luce e speranza separa dai versi che trovo nel componimento successivo, i più espliciti: la giuentù mia pèrd tra i rod e i can/ i can butà ‘me mì nel bus del mund, ch’j bàia, bàja, bàja, senza fià…(la gioventù mia perdi tra le ruote e i cani,/ i cani gettati come me nel buco del mondo,/ che abbaiano, abbaiano, abbaiano senza fiato…) Siamo appena a pagina 15 di un’antologia che ne comprende 274. Ritengo di aver documentato a sufficienza la presenza di questo tema simbolico nell’opera di Franco Loi, ma mi riprometto di darne un quadro più compiuto. Per ora richiamerò soltanto la conclusione di un testo presente nella raccolta Isman, pubblicato nel 2002 da Einaudi: Oh, baja, baja, tì. Che mì la vita/Sun cume ‘l can che ciama e la sta là,/ freggia de luna sura i cupp la sera/ cun quel silensi che sluntana el mar (Oh, abbaia, abbaia,tu. Che io la vita sono come il cane che chiama e sta là…Trovare la traduzione di Franco). Ma le citazioni, sempre solo da Isman, potrebbero moltiplicarsi, da ‘l frecc d’un can (come il freddo di un cane) di Non mi piace il telefono, a Vess òm e vèss puèta…Cum i can/ che bajen a la luna per natura (essere uomo ed essere poeta….come i cani che abbaiano alla luna per natura). Non c’è alcun dubbio che questa sia una similitudine a cui il poeta è legato, in cui si identifica con convinzione e senza paura di ripetersi. In Franco Loi il cane non appare in un contesto positivo. Il cane soffre, lecca ma non per affetto, soprattutto abbaia. Esprime disagio, malcontento, solitudine.
Accosto l’importanza della similitudine del cane in Franco Loi alla presenza di questo tema in uno degli scrittori sardi più importanti del XX° secolo, Salvatore Satta. Per capire la sua poetica e la sua concezione dell’uomo, che si forma a confronto con il mondo familiare e la comunità nuorese, è fondamentale la lettura del piccolo saggio Spirito religioso dei sardi, pubblicato sul numero de Il Ponte, uscito nel 1951, interamente dedicato alla Sardegna. In questo articolo Satta sostiene che l’essenza del cristianesimo, il suo messaggio di redenzione dell’umanità grazie al sacrificio di Cristo, non è penetrato tra i sardi. E racconta che la prima intuizione di questa tragica verità si presentò a lui in occasione di un processo che da ragazzo aveva seguito per curiosità. Riporto l’episodio:
L’idea della redenzione, accolta nella religione positiva, esaltata nella grande statua sull’Ortobene, non è riuscita a fondersi nei cuori. Forse la prima rivelazione di questa verità – assai prima di leggerla in me stesso – io l’ebbi da bambino, in un’aula di questo Tribunale, se aula può chiamarsi una squallida stanza priva di luce, il cui unico ornamento era una gabbia. Attratto dalla cupa celebrazione che ivi si compieva (più tardi Bulgaro mi avrebbe sapientemente spiegato trattarsi di un actus trium personarum) ero riuscito, sgattaiolando per le gambe immense di un carabiniere, a insinuarmi tra una folla grave di uomini vestiti di pelli, in una atmosfera ardente di sudore e di attesa. Dentro la gabbia c’era un uomo, simile a un orso: ma il personaggio più importante non sembrava essere lui, bensì un altro uomo piccolo e nero, che libero sedeva davanti al presidente, e appariva l’oggetto di tutte le cure, sue e degli avvocati che gli stavano di fronte, perché tutti lo interrogavano, lo chiamavano per nome (si chiamava, ricordo ancora, Pirastru, che vuol dire pero selvatico), lo accarezzavano, lo lusingavano, lo minacciavano. Egli, indifferente, si ostinava a ripetere alcune parole sempre uguali, delle quali non afferravo il significato. A un tratto il presidente, piegandosi verso di lui, con una voce quasi paterna, gli disse: – Pirastru, perché non dici la verità? – Perché non dovrei dirla, – risponde. – Ci sono tante ragioni per non dirla, e una di queste è la paura. – Allora Pirastru sollevò la testa arrugginita, fissò il Presidente con aria stanca e: – Paura di che? Mormorò. – Signor presidente, morto io, morto un cane. – Le parole suonarono profonde nell’aula, e il presidente imbarazzato, si affrettò a congedare quell’uomo, del quale non riusciva a capire come mai potesse accettare di essere un cane.
Devo confessare che queste sono le righe che più mi hanno colpito dell’opera intera di Salvatore Satta, più significative delle pur sublimi pagine de Il giorno del giudizio. Nella sua opera maggiore c’è comunque un episodio che richiama questo tema, la pagina terribile in cui si racconta del sacrificio del cane, crocifisso per placare una divinità malvagia, risentita per sue ragioni misteriose contro l’umanità; al punto da negargli l’acqua che gli consente di far vivere erbe e animali e di sopravvivere. A compiere l’atto scellerato è un altro uomo/cane, Nanneddu Titule, il mezzadro disperato del padre dello scrittore. Scrive Satta:
Scesero il breve pendio sotto la quercia, e si trovarono davanti alla casa. Dal mezzo battente chiuso della porta pendeva un cane crocifisso con le gambe anteriori divaricate e inchiodate nel legno, e la testa abbandonata sul petto un po’ di traverso. “Ecco che cosa ha salvato il podere!”. Don Sebastiano restò pietrificato. Gli vennero alla memoria i sacrifici rituali di cui aveva letto senza crederci troppo nell’enciclopedia del circolo, o quei crocifissi con la testa d’asino che i pagani dipingevano a scherno dei cristiani. “Ha urlato per tre giorni, poi è morto e il vento che piegava gli alberi di là dalla Costa è subito cessato”. Don Sebastiano avrebbe voluto buttarlo giù dal muraglione che sosteneva la terra dell’orto: ma il mezzadro aveva gli occhi allucinati, e gli fece quasi paura, sebbene con un dito avrebbe potuto schiacciarlo. “Staccalo subito, e seppelliscilo, e non dirlo a nessuno, ricordati!” “Va bene, padrone”.
Se i personaggi evocati da Satta alludono a radici socio-economiche della riduzione dell’uomo a bestia, in realtà il “sentirsi come dei cani” sembra avere ragioni ben diverse, visto che è lo scrittore magistrato a dirci di avere riscontrato questa condizione non solo in Pirastru, ma di averla successivamente letta in se stesso. Si tratta di una condizione spirituale, prima che sociale. L’uomo di Satta, il sardo come lui, e gli uomini che lo circondano, non sono stati redenti, resi liberi, vivono ancora sotto il giogo di un dominio misterioso. In Satta i riferimenti alla storia, e in particolare alla storia sarda sono rarissimi e, quando sono presenti, sono generalmente più mitici (Nuoro come “nido di corvi“) che non verificati nella realtà storica. Io non ho ben capito perché Satta abbia accettato di scrivere “Spirito religioso dei sardi” per la rivista di Calamandrei, visto che, a quanto mi è sembrato di capire, questo spirito sembra piuttosto assente che presente tra i sardi. L’articolo si conclude con queste parole:
Molte volte, pensando ai Sardi, pensando a me stesso, mi sono chiesto se noi crediamo veramente in Dio. E’ una domanda alla quale è difficile rispondere, perché bisognerebbe prima intendersi sull’idea di Dio. Certo, il Dio “che atterra e suscita” sembra lontano da noi, né il principio del bene raggiunge per noi tanta assolutezza da non ammettere, quasi in un’eco di eresia, il principio del male. D’altra parte, chi ha il senso così vivo e così agitante della legge e del peccato (il senso della morte, si può dire brevemente, perché nessuno come il Sardo sa che deve morire) ha qualcosa più della fede, ha una vocazione di santità: assurda, anacronistica vocazione, che ci vieta di inserirci nel processo della storia, e ci porta fatalmente a risolvere la storia nell’utopia. Forse, come i nostri padri, sotto la spinta dei pirati e della malaria, fuggirono le coste, e si costruirono sulle alture le loro capanne, i villaggi di oggi, così noi, aggrappati alla nostra utopia, in una luce di crepuscolo, fuggiamo quasi d’istinto il torbido mare della vita.
Per me la memoria dell’articolo rimane soprattutto connessa alle parole di Pirastru. Che attesta la considerazione problematica in cui viene tenuto un animale oggi tanto amato. In sardo il cane viene utilizzato per la peggiore caratterizzazione estetica (“ledzu che cane”, brutto come un cane) e per gli insulti più offensivi (cane de istredzu, cane da avanzi, miserabile). Mi sembra evidente, anche per averlo conosciuto nell’ambito familiare, che questo atteggiamento si forma nel mondo contadino in cui il cane sembra non avere alcuna utilità ed essere solo all’origine di potenziali danni. Certamente avrà influito sul mondo contadino sardo la concezione, trasmessa dal clero, prevalente nel mondo ebraico-cristiano, e islamico, e indiano, che considera il cane un animale impuro. Nel linguaggio quotidiano dei sardi il cane torna in altre locuzioni. Una di queste è “su cane maccu”, “il cane pazzo”; è l’espressione che si usa per indicare chi ha detto una cosa sciocca, qualcosa di cui avrebbe potuto fare a meno. Non è considerato un insulto, qualcosa come “ma sei scemo…”. C’è anche il gioco che facevano un tempo i bambini, un gioco che consisteva nel confronto tra squadre in cui vinceva gli avversari chi riusciva ad afferrarli uno dopo l’altro. Il prigioniero veniva obbligato a dichiarare la propria sottomissione con l’ordine di dire “cane”. Chi pronunciava la parola, riconoscendo quindi di essere cane, cambiava identità, e squadra, avendo cessato di essere uomo.
Numerose sono le attestazioni in terra sarda di un suo uso come simbolo di una condizione umana degradata. Faccio alcuni esempi tratti da contesti disparati. Comincio con una testimonianza in cui la condizione dei cani viene accostata a quella vissuta dai sardi sconfitti e privati della libertà. L’ultimo eroe dell‘età giudicale, l’ultimo che innalzò il vessillo con l’albero sradicato degli Arborea a difesa dei sardi dal dominio aragonese, Leonardo Alagon Cubello, viene sconfitto a Macomer nel 1478. Arrestato, viene sottoposto a processo. Tra i capi d’accusa ci sono affermazioni sulle condizioni dei sardi. Si chiede di accertare la verità su questo punto: Se Leonardo andasse dicendo che il re voleva distruggere la Casata d’Arborea in modo che Sardi non avessero più difensori e potessero essere trattati come schiavi e peggio dei cani. Non c’è forma di esistenza peggiore di quella dei cani.
A questa condizione viene assimilata quella di Gesù Cristo nella poesia religiosa in lingua sarda del Settecento. L’immagine di Cristo legato, flagellato, coperto di sangue, costretto a percorrere a fatica la strada per il Calvario, è accostata a quella del cane legato e strascinato per le vie, in fin di vita e poi morto straziato. Nei componimenti dedicati alla Passione, rivissuta nei riti della Settimana Santa, Bonaventura Licheri, il più importante poeta religioso del XVIII° secolo, la similitudine del cane compare sovente. Cristo è trascinato per strada come un cane. Al più accettabile cane ligadu si affianca il sorprendente cane mortu che prospetta un quadro di sevizie e di oltraggio ai resti senza vita dell’animale:
Lu portan cun tyrannia
Comente cane ligadu. Lo trascinano a prepotenza/ come un cane legato. Gosos della Vergine.
Cun funes che cane mortu
L’istrazzan peri sa hia, Con funi come un cane morto/ lo trascinano per strada.
Nei componimenti sacri del Licheri troviamo infine il contrasto tra i potenti che lo giudicano seduti sulla cattedra e Cristo davanti a loro in piedi, ancora come cane ligadu.
Ho accennato all’avversione del mondo contadino nei confronti del cane, visto come un pericolo non solo per la salute umana ma anche per i raccolti. C’è un curioso Capitolo, una prescrizione presente nel Capitolato che detta le regole di gestione del territorio della comunità di Sadali, risalente al 1835, con cui si prescrive che, quando l’uva è matura e si avvicina la vendemmia, tutti i cani vanno tenuti alla catena perché non entrino nelle vigne e si mangino i grappoli. Chi non rispetterà l’ordinanza pagherà una multa. Il contadino non usa il cane per fare la guardia a un frutteto perché rischia di perderci con la frutta anche l’animale, che può essere avvelenato o eliminato in altro modo. Sino al raccolto le ciliegie venivano quindi custodite da un guardiano. Grazia Deledda non smentisce la considerazione avversa e sospettosa che i sardi rivolgono al cane. Che non si deve lasciare avvicinare, come se fosse portatore delle peggiori infezioni. Molte madri sarde hanno un vero terrore che possano arrivare a contatto con i loro bambini. “Tira cane!!!” è l’espressione che passa a fatica tra le labbra strette e i denti che digrignano verso una persona nei confronti della quale si nutre il massimo disprezzo. In uno dei suoi primi romanzi, La via del male, il protagonista Pietro si rivolge al suo cane, di nome Malafede, proponendogli un’analogia tra la sua condizione di servitore e quella dell’animale:
Non era la prima volta che servo e cane discorrevano, ciascuno a modo suo, e s’intendevano. Spesso Pietro gli diceva: “Che differenza c’è fra me e te? Nessuna. Soltanto, io sono un cane che parla”. Quella sera, poi, egli aggiunse, fra sé: “Arrivare, mangiare, ripartire, guardare la roba altrui; io e Malafede siamo nati per questo. Nessuno pretende altro da noi. Chi ci vuol bene? Nessuno. Se Malafede ha un’avventura amorosa, un momento dopo non se ne ricorda più; s’io vado dalla moglie del bettoliere toscano, il giorno dopo incontrandola non la guardo neanche in faccia, ed ella fa altrettanto. Cane e servo, servo e cane: è lo stesso”.
Grazia Deledda sottolinea che la privazione maggiore subita da chi è degradato socialmente – e quindi costretto ad asservirsi – consiste nella privazione della felicità affettiva e sessuale, strettamente collegate l’una all’altra. Non c’è sessualità soddisfacente senza riconoscimento sociale. Diversamente si rimane “come i cani”. La scrittrice enfatizza questo elemento di privazione rendendolo il cardine della sua visione della società sarda del suo tempo; ne fa una delle spinte narrative principali per il rapporto tra i personaggi e lo sviluppo dell’azione romanzesca. Questa tensione alla felicità affettiva e sessuale, all’uscita dall’irrilevanza del cane, è naturale e irrefrenabile e allo stesso tempo colpevole. La spinta all’autorealizzazione, alla ricerca della felicità, è allo stesso tempo essenzialmente spinta alla libertà. Questo è l’aspetto “politico” nascosto nella narrativa della Deledda. La ricerca della libertà da parte dei sardi è colpevole, deve essere scontata, ogni tentativo in questo senso sarà necessariamente punito.
L’elemento simbolico del cane non poteva mancare nei maggiori poeti sardi che usano la lingua del popolo: Peppino Mereu, Benvenuto Lobina, Cicitu Masala. Nel componimento in “ottava lira”, datato 1895 e dedicato a Genesio Lamberti, la condizione di miseria dei sardi nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia è assimilata da Peppino Mereu a quella dei cani. Questi però non subiscono senza lamentarsi ma Su cane a urulare/ s’alzan si no li dan a mandigare ( i cani sollevano la testa ad abbaiare /se non viene dato loro da mangiare). Al sardo invece rimprovera:
Ses peus de su cane,
vile servis e mudu:
linghes sa man’ingrata e faghes festa
a chie ti deridet,
cando, pedinde, a manu tesa t’idet!
(Sei peggiore del cane/, vilmente stai a servizio e non ti lamenti/ lecchi la mano ingrata e fai festa/ a chi ti deride/ quando ti vede con la mano tesa a chiedere! )
Peppino Mereu è morto prima dei trent’anni nel paese d’origine, Tonara, dove era rientrato dopo aver lasciato l’arma dei carabinieri, anche perché ammalato di tubercolosi. Sono suoi i testi che descrivono meglio le condizioni dei sardi che cascan che cane/ gritende forte/ cherimus pane (sbadigliano come i cani/ gridando ad alta voce/ vogliamo pane!). Cale cane de tottus iscacciadu (come cane scacciato da tutti), cale cane issoltu ‘e cadena (come cane sciolto dalla catena) sono similitudini presenti in testi di protesta sociale. E quando nel componimento Agonia parla delle sue condizioni disperate dice che Annunziande sa triste fine mia/ urulare s’intendet unu cane (annunziando la mia triste fine/ si sente ululare un cane). Peppino Mereu è morto nel 1901. Le sue opere ebbero in Sardegna una enorme diffusione, il sardo era ancora la lingua che tutti parlavano, i poveri come il clero e i ceti superiori della società sarda. Dopo la metà del secolo operano invece gli altri due autori a cui faccio riferimento. Di Cicito Masala, che ha scritto sia in sardo che in italiano, ricordo la quartina con cui colpisce il servilismo degli intellettuali sardi:
Un tempo ero un giovane cane
Senza fune né pane
Ora ho la pancia piena
Son diventato un cane da catena
Di Benvenuto Lobina ricordo la struggente Canzoni naramia i(Dimmi, canzone) in cui il poeta si rivolge alla sua arte perché gli racconti il mondo dei sardi che vivono, lavorano, soffrono, emigrano:
Canta po chini ti scurtat in galera,
canta po chini ti scurtat in presoni,
canta po chini bolis ma, cantzoni,
no cantis cun boxi furistera.
(Canta per chi ti ascolta in galera/ canta per chi ti ascolta in prigione/ canta per chi vuoi ma, canzone/ non cantare con voce straniera.)
Il poeta condivide la condizione del sardo oppresso e deprivato. Chiede che almeno la canzone rimanga accanto a lui. Una cosa ha capito infine:
Est beru su chi beru no creia:
sa vida est unu cani chentza de meri.
(È vero ciò che non credevo vero: la vita è un cane senza padrone.)
L’ultimo autore che voglio citare è una delle maggiori autrici di poesia italiane. E’ anche sarda, Antonella Anedda Angioj, nata a Roma da una famiglia che discende da Giomaria Angioj, uno dei padri della patria sarda. Con lei i sentieri che sto percorrendo si congiungono quando trovo in “Limba”, una delle poesie “sarde” di Antonella Anedda, questi versi:
Non tenes baùle ‘e istrisinare in supr’e nie
Ma unu cane a tremula in s’iscuriu.
(Non possiedi un baule da strascinare sopra la neve/ ma un cane tremante al buio).
Non credo di riuscire a trovare in Antonella Anedda tracce di un atavismo, di una regione (o nazione) sarda dell’inconscio collettivo; credo piuttosto che il rapporto si debba cercare nella lettura attenta e appassionata che lei ha fatto della poesia di Franco Loi, a cui ha anche dedicato delle poesie.
E per chiudere torno a lui, al al nostro maestro di poesia. Gli animali, non solo i cani, sono una costante nella poesia di Franco Loi. Servono a rappresentare le varie forme della vita. In una notte, su cui sovrasta l’amata luna con il suo faccione, il poeta nota le voci di una civetta, di una vacca e, poteva mancare, guàia, ‘me massass, el can marsc ne la starla (guaisce, come ammazzarsi, il cane rognoso nella stalla). In un altro testo, sempre ne L’aria del 1981, sono presenti varie specie di volatili, un cigno immacolato, un’anitra, colombi che amoreggiano. Nell’aria rappresentano la bellezza del mondo, della donna, la dolcezza della vita. Sono il contraltare di una storia che ha tradito[2]. E il cane è la faccia oscura, l’ombra indispensabile, la costrizione, il decadere, la coscienza dolorante: par can” che venta cui urègg la mort che passa.
(Sembra un cane che venti con le orecchie la morte che passa.)
Un’altra conferma di questa intuizione del tema del destino che avvicina l’uomo al cane la trovo in un testo molto importante, quello che contiene tra l’altro l’espressione “Aria de la memoria” che dà il titolo all’antologia del 2005. Al centro vi è “l’umbra d’un diu” (somiglia molto al sardo). A questo dio che si aggira dentro di lui il poeta alla fine chiede:
Oh diu, che te sté scund, sensa pietâ,
ti cerca i can e sculta se sun mì,
che l’òmm urmai l’è mort, el s’è scurdà.
Oh dio che te ne stai nascosto, senza pietà,
tu cerca i cani e ascolta se sono io,
che l’uomo ormai è morto, si è dimenticato.
Sembra di capire che la parvenza d’uomo che sopravvive a quanto di umano lo caratterizzava si può assimilare alla condizione dei cani. In questa condizione il poeta vede se stesso, come aveva fatto Salvatore Satta, quando si era identificato con Pirastru nell’aula del Tribunale di Nuoro. E mi piace terminare con una citazione da Strolegh, l’opera del 1975 che ha consacrato la grandezza di Franco Loi. Il poeta descrive la sua anima cume qui can / che van nel mund se scund la rogna, (come quei cani/ che vanno dove nel mondo si nasconde la sventura).
Leggere la poesia di Franco Loi porta a constatare quanto essa è viva, vitale, piena d’aria e di fede; accanto al giorno c’è però anche la notte e lo splendore cammina accanto all’oscurità.
Fonti:
Franco Loi: Aria de la memoria. Einaudi 2005
Isman Einaudi 2002
L’Angel Mondadori 1994
Salvatore Satta: Spirito religioso dei sardi. Il Ponte 1951
Il giorno del giudizio Adelphi 1979
Bonaventura Licheri, Gaudia Ilisso. 2010
Benvenuto Lobina, Is Canzonis
Francesco Masala Poesias in duas limbas
Antonella Anedda Limba, sta in….
[1] Azzardo un’incursione nel campo della psicoanalisi junghiana solo perché Jung ritornava molto spesso delle riflessioni di Franco Loi. E’ su indicazione sua, e anche della moglie Silvana, che ho letto alcune opere di Jung, che non bastano a poter azzardare più di una tesi suggestiva.
[2] [ la similitudine col mondo animale in Franco Loi, per la cura con cui viene sviluppata, si stacca dalla sintesi simbolica della poesia moderna e sembra riportare a una dimensione classica, omerica, a Diomede che si aggira tra i soldati troiani come un leone tra le gazzelle. Ne L’angel il Franco ragazzo che cammina solitario per le strade di Milano, rasentando i muri delle ville coperte di mughetti e glicini, è paragonato a una lucertola:
Streppi ‘l mughett, vu sciur, e trasi, pagà
che la cità sa no due che vu
,me la luserta ch’i so mister al su
La scund, e fregg la g’à sota la pell,
-quaicoss la scalda?- ma la va drè i so sciamp,
quasi nient i ugett ne la scorsa segreta,
e, se nissun la varda, o la vardass
quaivun snujà dré na fenestra,
o ‘na muccia de fiò tra ‘n giogh e l’alter
la pudaria savè che quel che la fa
de ciapà l’ su e sentiss quel can d’un fregg,
e dispiasegh e fengess de rubà calur,
nel savè no sé fa, diversament.
Strappo il mughetto, cammino come un signore e mi espando, soddisfatto,
che la città non sappia dove vado,
al modo della lucertola che i suoi misteri al sole
nasconde, e freddo ha sotto la pelle,
-Qualcosa la riscalda?- ma va dietro le sue zampe,
quasi niente gli occhietti nella scorza segreta,
e se nessuno la guarda, o la guardasse,
qualcuno annoiato dietro una finestra
o un gruppo di bambini tra un gioco e l’altro
o curiosi della crudeltà, lei nient’altro
potrebbe sapere che quel che fa,
di prendere il sole e sentire quel cane d’un freddo
e dispiacergli, e fingere di rubare calore,
nel non sapere cosa fare, diversamente.]