…1… “Non abbiamo risposte ….”, di Elisa Mura
«Non abbiamo risposte», esordisce uno di noi all’inizio dell’ultimo incontro. Non abbiamo risposte davanti alla perdita del senso religioso.
Metto insieme questo sbigottimento , che è anche una dichiarazione di onestà intellettuale, con il fatto che , qua e là, nelle nostre come in più diffuse riflessioni, ricorre l’esigenza di ripensare la struttura ministeriale della Chiesa. Cosa c’entra questo? Non resisto all’affacciarsi di una battuta: istituiamo il ministero della solitudine! La cosa è ambigua e tragica: ambigua perché potrebbe fare pensare all’esperienza religiosa intima del solus cum solo; tragica perché, purtroppo, non è così. La mia amara battuta guarda, infatti, all’esperienza della solitudine, larghissima nella nostra società, al punto da meritare una istituzionalizzazione. Questo tipo di solitudine è propriamente una forma di isolamento, di s-collegamento, ed è visibilità di dinamiche divisive, non facili da analizzare qui, ma che si manifestano come quanto di più lontano dalle categorie bibliche di dialogo e ascolto. Ecco perché c’entra: il senso religioso ha (anche) una natura dialogale e sociale reale, non è solo formato nel segreto dell’anima, ma anche si apprende, principalmente nella santa assemblea, come si apprende una lingua madre dal proprio contesto di vita. Non da soli, dunque!
Il “ non è bene che sia solo” non è stata la prima urgenza affrontata dallo stesso Creatore? È un proclama sfidante anche per noi, allora, come gruppo sinodale, in termini di motivazione, di consapevolezza e di partecipazione. Scivola, del tutto secondaria, la preoccupazione circa le statistiche sul calo dei presenti alle celebrazioni eucaristiche o sull’ “estinzione” dei presbiteri per raggiunti limiti di età, o sui crimini sessuali (che sono sempre, in primis, crimini di abuso di potere) di certa parte del clero.
Forse una linea di metodo, o quantomeno una linea tematica del nostro (anzitutto nostro!) percorso sinodale, può essere quella di cogliere e isolare alcuni fili dalla trama di questa diffusa solitudine e, insieme, guardare a pratiche che la contrastano. Potrà, così, succedere di rivolgere l’attenzione a casi concreti di vivere insieme come esperienze gioiose e inclusive, non necessariamente ecclesiali, da cui imparare.
Penso che questa sfida dovrebbe anche partire dal linguaggio come questione strutturale e strutturante le esperienze. Infatti, nel nostro linguaggio si intravede e si incoraggia un corrispondente modello relazionale ed ecclesiale. Per capirci, cominciare a prendere sul serio l’idea di chiesa proposta con ferma freschezza dal magistero di Francesco, sarebbe come imbattersi, forse inciampare, nella parola “fratellanza” o “fraternità”. Che sia termine chiave, di quelli che aprono il senso della nostra realtà di chiesa, ne abbiamo le prove fin dagli inizi, fin da quando Tommaso ha affondato le sue stesse mani nella carne di quella “Parola prima”, ferita e non distrutta, che rende possibile, anche solo sognare, l’essere divenuti fratelli. Ne abbiamo le prove fin da quando persone, forse confuse e scoraggiate non meno di noi, fecero l’esperienza di procedere con la compagnia calda, persino bruciante, di Gesù. Verso dove? Verso una comunione gustata a tal punto da implorarne il rinnovo: “resta con noi!”, Fratello tra fratelli.
Vorrei che, nella nostra mentalità sinodale, la fratellanza sia una categoria per pensare, solo quando sarà pensata come esperienza donata, quando se ne cercherà la memoria con il corredo delle nostre “prove” personali, quando la si sperimenterà come una verifica, forse impietosa, di un percorso fatto e segnato dal fallimento e dal tradimento, ma soprattutto quando ci suonerà come il nome incoraggiante dell’inizio di un percorso nuovo, fuori da ogni ira di giudizio, fuori da ogni noia mondana.
Fratellanza non è una parola sfinita, dentro una retorica buonista e accasciata, un oggetto immancabile tra le collezioni da salotto cristiano. Essa è l’atto con cui lo stesso volto del perdono si volge, perfino in questo stesso istante, a riaprire gli orizzonti finiti, invita a non restare fermi, propone di andare oltre le meschinità umane, e mette in pari i passi delle storie di uomini e donne assai diversi e, perfino, conflittuali.
Fratellanza è sfondamento del recinto di chi “coltiva in proprio”. Eppure, questa parola non riesce a scalfire dove non c’è partecipazione esistenziale e disponibilità ad aprire una “crisi” anzitutto personale, poi collettiva. Papa Francesco, infatti, si mostra convinto del fatto che i passi concreti di fratellanza hanno impatto sulla vita pubblica: dopotutto lo scopo ecclesiale è, per forza, pubblico, non settario o da organigramma ecclesiastico. Una fratellanza vissuta, non lasciata a sole considerazioni razionalizzanti, è argine e medicina a dinamiche divisive, escludenti, repulsive, violente della solitudine sociale. Siamo al punto.
Possiamo rimettere a fuoco questo stimolo in molti modi, intrecciando svariate domande e problemi. Un modo è quello di mettersi sulle tracce della fraternità nel suo luogo più originario e stravolto: il rapporto uomo donna. Esso investe la vita di ognuno, senza esclusione, a prescindere dallo status, e non c’è scampo. Aggiungo il fatto che la questione femminile, ancora così bruciante e aperta, è solo uno dei nomi dell’anti-fratellanza.
Ne è prova la crisi degli abusi a tutti i livelli, l’ebbrezza di potere e certa calibrata (studiata) violenza che permeano il reticolato dei nostri rapporti sociali e, perfino, l’architettura relazionale intraecclesiale. Potere su qualcuno è lo stile attualmente diffuso e distorto dell’autorità. La beffa ecclesiale è che quanto importa è avere tra le mani un qualche ministero del sacro sopra qualcuno, con tutti i ritorni narcisistici che ciò comporta. Poco lascia impressionati che questo ministero rischi di tramutarsi in un qualche “pressione” o esercizio di violenza sacrale e, quindi, legittimata.
Il racconto di creazione mostra che lo stare, uno davanti all’altro, di uomo e donna è possibilità di comunione sempre donata, ma sempre minacciata e, perciò, da incoraggiare e ratificare nella storia. La fraternità “naturale” tra uomo e donna non basta a se stessa, non è un assicurazione ontologicamente data contro la solitudine o i conflitti.
Se la fraternità cristiana non supera la fraternità mondana, ancora schiava della subordinazione della donna all’uomo, allora la donna, il piccolo, l’indifeso, il disorganizzato, il povero, lo straniero, e altre minoranze continueranno a soggiacere, nel ruolo di scarti-vittime, per far funzionare il sistema patriarcale e gerarchico. Di tale sistema socio-culturale che adultera il piano di comunione del creatore, noi tutti respiriamo l’aria, beviamo l’acqua, mangiamo il cibo. Rendiamoci almeno consapevoli di ciò, per non stare ad assistere al balcone ad una tale perversa mutazione degli scopi di esistenza e azione della chiesa.
Se la fraternità non è un’assicurazione ontologica e non è un automatismo in nessun luogo, nemmeno nella chiesa, allora come si diventa fratelli e sorelle, come si “entra” nel dono pasquale? Ci sono istituzioni che possono farsi carico di costruire esperienze di fraternità? Questo è un terreno da esplorare.
Dal canto suo, la chiesa, maestra sapienziale, ha bisogno anche di imparare dalle lacrime della gente, di mettersi come discepola in ascolto, ai piedi dei rapporti falliti, ma poi ricostruiti e rinnovati. Nessuna romanticheria: “leggere” la strada e, talvolta, le scie di sangue in essa, ha poco di tenero. Ci si può fare male, tanto male. Dopotutto, l’esperienza di Gesù di Nazareth è una scia di sangue nelle strade di un sistema religioso gravemente malato che aveva bisogno di uno come lui, mentre ne decideva il linciaggio.
Dovremmo guardare dalla parte della strada e delle sue istituzioni “minuscole”, e dalla parte delle vittime. Il punto, infatti, non è fare un sinodo per salvare il clero, ma percorrere strade per apprendere e raggiungere un’autoconsapevolezza di popolo-chiesa, in vista di un servizio al mondo. Il sensus fidei, credo, non è solo quel senso semplice e centrato delle cose di Dio, ma anche il senso di essere cosa propria di Dio e non, per questo , “separata” nel mondo. Anzi, abilitata a costruire fraternità, creativamente con Lui.