NELLE ROTTE D’ORIENTE LE TRACCE NURAGICHE, di Paolo Curreli
La vicenda degli elmi cornuti ritrovati in Danimarca che per gli archeologi di Stoccolma potrebbero essere ispirati alla civiltà nuragica – ed erroneamente riferiti ai vichinghi ma sicuramente reperti dell’età del bronzo nordica 1200- 700 a.C. -, riapre una questione estremamente interessante: quanto viaggiavano i nuragici? Fino a dove si sono spinti lontano dell’isola?
Questo sembra il momento migliore per avere informazioni più dettagliate perché l’archeometria, disciplina poliforme che mette a disposizione degli archeologi gli strumenti delle cosiddette “scienze dure”: chimica, fisica, mineralogia, genetica ecc…, negli ultimi anni ha svelato e reso concrete alcune ipotesi.
Intanto un cambio di paradigma sulla rappresentazione della civiltà nuragica. Non più un popolo rinchiuso nella fortezza di pietra delle migliaia di nuraghi ma una società policentrica capace di progettare “a tavolino” le sue straordinarie torri e santuari, in grado di pianificare agricoltura, allevamento e le risorse economiche fondamentali.
Una condizione di crescita che per forza di cose si doveva proiettare all’esterno dell’isola. Come ci spiega Mauro Perra, archeologo direttore degli scavi di uno dei monumenti preistorici più significativi dell’Occidente: il nuraghe Arrùbiu di Orroli nonché del museo di Villanovafranca: «Nel 2015 l’archeologo britannico Cyprian Broodbank nel suo volume “Il Mediterraneo dalla Preistoria alla nascita del Mondo Classico”, edito da Einaudi, scrive: “una società fissata con le torri (quella nuragica, ndr), che al suo interno faceva ancora uso di ossidiana, sotto molti aspetti diversa da altri popoli del Mediterraneo e ancora schiava (in modo piuttosto insolito viste le circostanze) di molte delle proprie idiosincrasie insulari, si aprì in modo incredibile ai contatti esterni”.
In questa frase si coglie l’imbarazzo di Broodbank davanti all’incapacità di molti studiosi di far rientrare la Sardegna nuragica, come le comunità preistoriche del Mediterraneo centro-occidentale dell’età del Bronzo, in modelli precostituiti che non riescono a interpretare questa inattesa e originale consuetudine dei sardi nuragici a fuoriuscire da schemi consolidati e del tutto anacronistici di certa letteratura archeologica».
Gli schemi di cui parla Mauro Perra sono le città stato del Mediterraneo orientale, gli imperi egizio e ittita, che dal mare Egeo faranno nascere la civiltà occidentale con la scrittura, la religione gerarchizzata, la filosofia, il diritto e la democrazia e, dall’altra parte, il Mediterraneo d’occidente, quello dei villaggi, dell’assenza di centri urbani importanti e senza la piramide di potere dei sacerdoti. «Per me non si tratta di una gerarchia di civiltà una più importante dell’altra, ma di un modo diverso di partecipare allo sviluppo dell’umanità – sottolinea Perra -. Il policentrismo nuragico non è quello delle comunità dei villaggi neolitici sardi, ma un sistema “politico” capace di mobilitare uomini e risorse nella costruzione spesso molto complessa degli innumerevoli nuraghi e riuscire a farlo in tutto il territorio (perfino nelle isolette). Una struttura economica agropastorale ed artigianale salda in grado di creare surplus. Basti un esempio per tutti: L’analisi dei pollini nel nuraghe Arrùbiu ha rivelato come quei contadini di tremilacinquecento anni fa utilizzavano il metodo del taglia-e-brucia per creare spazi nella foresta per coltivare cereali, legumi e creare il pascolo per il bestiame. L’impatto di questa economia fra XIV e XIII secolo a. C. fu tale da provocare fra XII e XI secolo un progressivo impoverimento del suolo».
Per forza di cose questa società si trovò nelle condizioni di dover scambiare il surplus prodotto e rivolgersi ad altri popoli per accedere a risorse che mancavano. Una vecchia ma immutabile legge che spinge gli uomini oltre i propri confini. «Tra la fine del Bronzo Recente e tutto il Bronzo Finale fra XII e X secolo a. C. la civiltà nuragica raggiunge il suo momento più alto. Si tratta di una fase di grandi trasformazioni sociali visibili nel venir meno del nuraghe quale principale punto di riferimento politico e nella diffusione di templi a pozzo, fonti sacre, le rotonde, i templi a megaron, le capanne delle riunioni, spesso il nuraghe diventa luogo di culto. Sono queste strutture a restituirci modelli di nuraghe, spade votive, ripostigli di bronzi d’uso e di lingotti di rame ciprioti o provenienti dal Levante mediterraneo, bronzetti figurati di persone e animali».
E naturalmente i più tardi modelli di navi. Ne sono state ritrovate varie centinaia in ceramica, sicuramente utilizzate come lucerne, e centocinquanta in bronzo. Oggetti, di difficile datazione, con una forte carica simbolica, ex voto deposti nei luoghi di culto, forse per ringraziare per un viaggio concluso felicemente. Omaggio reso alla divinità non solo nell’isola. Nel 1987 nel santuario di Hera Lacinia presso Crotone viene ritrovato un tesoro: tra i doni votivi una navicella nuragica di bronzo, molto più antica del tempio stesso, così spiegano gli studiosi del museo calabrese: «un oggetto che deve riferirsi ad un contatto avvenuto tra due mondi, quello sardo e quello della Magna Grecia, che evidentemente a quei tempi non trovavano nel mare un ostacolo ma, al contrario, un fondamentale veicolo di comunicazione».
Un ritrovamento che segna una rotta, un approdo dove i navigatori ringraziavano la dea Hera con un raffinato ex voto. Sono 14 le navicelle che hanno varcato il Tirreno, oltre quella di Crotone, una nelle Puglie e dodici fra Toscana e Lazio. «La civiltà nuragica fra il XIV ed il XII-XI a. C. subisce una grande trasformazione, si passa dalla produzione legata alla sfera familiare a quella marittima, due modi che forse coesistono – spiega Perra -. Mentre il veliero dei miei pensieri si incaglia nelle coste insicure dei cosiddetti “Popoli del Mare” e soprattutto dei mitici Shardana, perché abbiamo ancora bisogno di molto altro per associarli ai nuragici. Invece sono documentati i traffici mediterranei fra XIII e XII secolo a. C., periodo nel quale si concentrano le evidenze dei contatti fra i nuragici e l’Egeo. Diamo uno sguardo alla situazione geopolitica del Mediterraneo. I potentati dell’epoca, l’Egitto di Ramses II e l’impero ittita attraversano un periodo di debolezza e il controllo centralizzato e “istituzionale” dei commerci si sposta verso altri poli. Così Cipro, soprattutto nel corso del XIII secolo sviluppa la propria ascesa. Diversi centri urbani e scali portuali potenziano il loro ruolo di mediatori tra l’Egitto ed il vicino oriente, ma anche con l’occidente. Risalgono a questo periodo i ritrovamenti di stoviglie di uso quotidiano in alcune strutture abitative e sepolture di Cipro (Pyla Kokkinokremos e soprattutto Hala Sultan Tekke) l’analisi dei materiali, le argille e il piombo usato per ripararle, dicono che provengono dalla Sardegna».
Sono oggetti di uso comune, non preziosi regali e sono state accettate nei riti funerari locali. A chi appartenevano? Sardi che si erano trasferiti a Cipro? O a schiavi che servivano le élites cipriote? «I pozzetti votivi di Hala hanno restituito ceramiche nuragiche da mensa provenienti dal nuraghe Arrùbiu inserite in contesti rituali ciprioti, inducono a pensare che gli elementi nuragici non avessero il solo ruolo di rematori e tanto meno di schiavi – spiega l’archeologo -. Le élites nuragiche dei distretti territoriali più evoluti da un punto di vista economico, politico e sociale, avrebbero ben potuto costituire dei partners commerciali affidabili agli occhi dei Ciprioti. Bisogna anche capire quale era il ruolo delle marinerie nuragiche in questo mosaico multicolore dei traffici e contatti del XIII e XII secolo a. C. Come svelare quale funzione ebbero le élites nuragiche: Erano forse in grado di armare o quantomeno partecipare alla preparazione di vascelli carichi di beni e materiali? Di sicuro non tutte le comunità dell’isola ebbero basi economiche tali da permettere di partecipare ai traffici marittimi, solo alcune di esse, ad esempio le élites del Pran’e Muru di Orroli e Nurri con il nuraghe Arrùbiu, o quelle del Sinis, solo per citarne alcune, avrebbero potuto partecipare. Sappiamo che Cipro era priva di risorse aurifere e argentifere, nonché di giacimenti di stagno. Possiamo ipotizzare che i nuragici avessero il ruolo di intermediari nei traffici di argento e dello stagno, magari quest’ultimo proveniente dai giacimenti della Cornovaglia o comunque del Mediterraneo occidentale. Certo l’archeologia è ben lungi dall’aver dimostrato questa che, allo stato attuale, è ancora una ipotesi di lavoro. Un dato interessante arriverà dalle analisi del dna degli inumati. Ricordiamo però che il Sulcis era ricco di giacimenti di piombo argentifero. Una risorsa che ha attirato nel medioevo Pisa e poi gli aragonesi, sfruttata a tal punto che oggi gli archeologi non trovano più nessuna testimonianza di estrazione».
Tramontata la potenza di Cipro, un nuovo potente materiale sarà la ricchezza da cercare e il segno della civiltà che avanza: il ferro. Intorno al 900 a.C. saranno Cartagine e l’Etruria tirrenica a restituire manufatti nuragici e la penisola iberica, fino al ritrovamento più occidentale di Sabugal, città sul confine tra Portogallo e Spagna che migliaia di anni fa era un importante centro minerario. Qui sono state trovate ceramiche risalenti all’età del Ferro (nono secolo a.C.) ornate con le classiche decorazioni nuragiche. L’ipotesi è che i sardi si siano spinti a occidente e a Nord sulle coste del Tirreno alla ricerca di nuovi scambi.
La Nuova Sardegna, 30 gennaio 2022