Se non c’è più la compassione, di Dafni Ruscetta
Qualche giorno fa leggevo un’intervista in cui l’attuale sottosegretario di Stato al Ministero della salute sottolineava la necessità di una nuova fase nella gestione dell’epidemia, soprattutto riferendosi allo spazio da recuperare nelle relazioni umane tra i pazienti ospedalizzati e i loro parenti, che dall’inizio dell’emergenza Covid sono state spesso negate. Questa notizia mi ha fatto tornare a riflettere su una pratica che, sebbene forse inevitabile in una prima fase emergenziale, da subito mi era sembrata dolorosa e inumana.
Molte persone, purtroppo non solo quelle con diagnosi Covid, in questi due anni di pandemia hanno dovuto affrontare da sole l’ultimo viaggio, senza un volto familiare, senza un minimo conforto, una presenza.
In casi simili il paziente vive un’esperienza traumatica, la privazione dei suoi punti di riferimento (casa, familiari, amici, animali, etc), circondato da sanitari a cui spesso non riesce nemmeno a dare un volto, perché anch’essi costretti a proteggersi con dispositivi mascheranti per scongiurare i contatti con il virus.
Mi piace immaginare che per molti di quegli uomini e donne – pur privati della vicinanza amica di un volto e di una voce, di una presa in carico psicologica – possa esserci stata almeno la possibilità di stringere la mano di un’infermiera, dell’anestesista, di un sanitario gentile, prima del passaggio finale verso la sedazione profonda.
Perché l’impossibilità di un contatto nel momento della fine è forse una delle forme più terribili di spoliazione, in cui può negata la stessa dignità dell’essere umano. Quando si proibiscono le visite dei propri cari, alla disperazione della prossimità della morte si aggiunge quella di una vita che termina con un confinamento. L’angoscia – più o meno metafisica – della morte lascia il posto alla paura di non rivedere più gli affetti, di morire nella più drammatica impersonalità. L’ospedalizzazione in rianimazione, così, può essere vissuta da molti individui come una forma di violenza fisica e psichica.
Ci siamo tutti un po’ assuefatti a questa brutale dinamica, forse non ci impressiona neanche più; ci siamo convinti che l’emergenza della pandemia non permettesse altre modalità di azione e di intervento, perché non eravamo preparati all’idea che la morte esistesse davvero e per tutti, nessuno escluso.
Abbiamo così cercato di continuare a tenerla “lontana” il più possibile.
Ma questa crudeltà dell’abbandono, una sorta di deriva arcaica del senso di umanità, non può essere considerata in maniera così cinica, con nonchalance. La morte è pur sempre un passaggio, simbolicamente caratterizzato – nel senso sociale del termine – dai riti di accompagnamento verso l’ultimo respiro, dai rituali funerari, importanti anche per i familiari e amici, come un momento iniziatico necessario verso l’elaborazione del lutto.
Forse questa pratica, quella dell’abbandono, non è stata sufficientemente considerata nel discorso pubblico (politico e mediatico) affidando così, provvisoriamente, all’apparato amministrativo di gestione dello stato d’emergenza il monopolio radicale della morte.
Dobbiamo pertanto sperare che, al di là della retorica dello stato di necessità, della salvaguardia della salute pubblica, a distanza di due anni dall’avvento di questa catastrofe globale, ci si possa spingere oltre. Magari considerando come salute anche il sacrosanto diritto a un accompagnamento psicologico, il poter lasciare questo mondo con un ultimo commiato, con uno sguardo alle persone amate, una stretta di mano che ci restituisca il calore, la dignità di essere vissuti.
Forse è proprio questo il vero passaggio mancante, la transizione verso una normalità che ha un solo nome: compassione.
L’UNIONE SARDA, 26 gennaio 2022