IDENTITA’ OVINA

DOSSIER. La paura è che si stia dando il via libera a razze come le israeliane Assf e le francesi Lacaune, o le Meticce.  Due articoli su La Nuova Sardegna del 9 dicembre introduce qui il tema. Uno su L’Unione Sarda del 22 dicembre fa il punto sulla situazione prefestiva.

«Limite del 10% cento alle razze diverse, rispetto alla sarda che produce il latte per il formaggio ‘pecorino romano” (?)».di Antonello Palas, in La Nuova Sardegna 9 dicembre 2021

 

È allarme tra le organizzazioni agricole e i pastori che venti giorni fa si sono riuniti a  Borore nel corso dell’assemblea straordinaria del Consorzio del Pecorino romano Dop in cui i soci saranno chiamati a esprimere la propria opinione sulla proposta di modifica del disciplinare: l’aspetto che ha suscitato preoccupazioni è il punto in cui si prevede che nella misura del 10% la produzione del formaggio potesse avvenire anche con latte di pecora di razze diverse da quelle autoctone presenti storicamente nei territori di produzione, Sardegna, Lazio e provincia di Grosseto.

Insomma la paura è che si stia dando il via libera a razze come le israeliane Assf e le francesi Lacaune, o le Meticce, tutte molto più produttive della Sarda e adatte a un allevamento di tipo intensivo che nulla avrebbe a che vedere con la filosofia del prodotto sardo più noto all’estero, che poggia gran parte della sua immagine e delle sue caratteristiche peculiari sul pascolamento libero.

Ma è proprio così? Possibile che il Consorzio abbia deciso di attuare sic et simpliciter un cambio di rotta così inatteso? «Il problema – spiega il presidente Gianni Maoddi – è che quel programma di modifiche presentato nel novembre 2020 dal Consorzio e che prevedeva l’utilizzo esclusivo di razze autoctone (la Sarda, ma anche quelle utilizzate oltre Tirreno come la Vissana, la Sopravissana e la Maremmana) non è stato poi approvato dal ministero dell’agricoltura ed è dunque stato necessario apportare delle variazioni alla prima proposta: non possono accettare un periodo di riconversione delle greggi di 5 anni. Inoltre, da Lazio e Toscana sarebbero giunte delle segnalazioni sul fatto che l’utilizzo esclusivo delle autoctone creerebbe dei problemi. Da qui l’elaborazione di una nuova proposta di modifica che ora l’assemblea deve discutere e votare».In cosa consiste la variazione? «La proposta che si porterà in discussione è di inserire un elenco di razze (lista in positivo) nella quale verranno indicate tutte le razze autoctone presenti nell’areale di produzione e sarà consentita una tolleranza massima del 10% di “contaminazione” di latte con quello di altre razze, come suggerito dal ministero per superare le criticità». Maoddi ricorda che il disciplinare di produzione in vigore, relativamente al latte da utilizzare, attualmente indica solo che deve provenire da pecore allevate nella zona di origine ovvero Lazio, Sardegna e Maremma. Senza specificare la razza». Insomma, si sta introducendo un obbligo del 90% di utilizzo di autoctone contro lo zero attuale».

Situazione che rimarrebbe se non passasse la nuova proposta: «In teoria la contaminazione potrebbe essere del 100%».

Ma ci sono altri problemi. «È bene che i produttori primari siano consapevoli dei maggiori costi cui si va incontro. L’attuale sistema di controllo della Dop, affidata all’ente di certificazione esterno Ifcq, grazie ad una deroga concessa dal Mipaaf è limitato al 2% annuo (240 aziende), ma nel caso in cui intervenisse tale modifica, dovendosi accertare la presenza di determinate razze verrebbe quantomeno riportata sui valori standard ovvero il 33%: quindi ogni anno dovrebbero essere sottoposti a controllo almeno 4000 dei 12mila allevamenti sardi. Ogni controllo costa 100 euro, che moltiplicato per 4000 fa 400mila euro a carico del sistema allevatoriale».

Occorre poi - secondo Maoddi – rendersi conto che nel Consorzio non c’è solo la Sardegna (dove le razze indigene sono marginali, il 2%), ma la Dop è presente in altre realtà, dove per svariati motivi la presenza di “esogene” ha una incidenza maggiore: il problema dei lupi nelle campagne ha costretto molti allevatori all’utilizzo di razze meno vincolate al pascolamento, ma ci sono più difficoltà di reperimento della mano d’opera e un’evoluzione naturale dei processi di allevamento». Da tenere presente – spiega – che nelle altre grandi Dop, come il Parmigiano Reggiano, non ci sono vincoli di razza, ma solo di alimentazione.Alla fine potrebbe anche prevalere la linea di lasciare tutto invariato e di prendere più avanti una decisione in maniera maggiormente consapevole, al termine di un percorso condiviso sulla scelta delle razze.

 

SASSARI – Giovedì 09 Dicembre 2021

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SARDI: IDENTTA’ OVINA? Certo!

I leader delle proteste dei pastori: «Qualcuno non vuole prezzi alti per il latte». «Sarebbe la rovina dell’allevamento»


Coldiretti Sardegna si chiede a chi faccia comodo aver aperto la discussione sulla modifica al disciplinare «visto che tra i pastori c’è una diffusa e radicale contrarietà. E se la proposta non viene da chi produce il latte, perché chi lo trasforma vuole che gli stessi pastori lavorino con altre razze?»

L’organizzazione si domanda perché «se il Consorzio rappresenta tutta la filiera, non rispetta la manifesta contrarietà di tutti i pastori?».

E ribadisce il concetto che «il latte destinato alla produzione di Pecorino romano Dop debba essere quello munto dalle pecore delle razze autoctone nei territori di produzione».

Per il presidente Battista Cualbu «è il momento per integrare il disciplinare di produzione specificando anche le razze autoctone da cui deve provenire il latte». Mentre la proposta di introdurre altre razze «appare alquanto fuori luogo e tempo» e che queste possano essere destinate ad altri tipi di formaggio, ma non al Romano.

Secondo il direttore di Coldiretti , Luca Saba, «una decisione cosi importante non può essere presa nell’assemblea del Consorzio dai soli delegati, che devono avere delega specifica da tutti i pastori convocati nelle assemblee delle cooperative. Sono decisioni che richiedono la massima trasparenza e condivisione, è importante capire lo scopo di questa proposta visto che uno dei problemi principali che viene spesso individuato unilateralmente dal mondo della trasformazione come causa del crollo del prezzo del Romano è la sovrapproduzione di latte. Della quale si accusano, senza un dato che lo dimostri, gli allevatori, gli stessi che oggi sono contrari a questa decisione. E includere altre razze, estranee a quelle autoctone, anche con un 10% apparentemente poco significativo, aprirebbe porte sconosciute e pericolose che potrebbe infine accrescere i litri di latte da trasformare in pecorino romano».

«La proposta di permettere anche l’utilizzo di razze non autoctone per la produzione del Pecorino romano, se venisse votata in assemblea sarebbe la rovina dell’allevamento della pecora in Sardegna, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero».

A dirlo sono Nenneddu Sanna e Gianuario Falchi, i leader dei pastori “senza bandiera” e delle proteste per il prezzo del latte. Secondo loro, proprio grazie a quelle lotte il Romano «ha raggiunto una notorietà impensabile con le vendite che hanno superato in maniera importante i quantitativi che prima venivano imposti dal vecchio piano di regolazione dell’offerta (bocciato dai pastori e che serviva solo a consolidare le posizioni dominanti di alcuni a scapito dell’intera filiera), tant’è che la richiesta ha spinto le quotazioni di vendita oltre i 10 euro al kg».

Per Sanna e Falchi questo volo del Romano preoccupa le altre componenti che non siano i pastori perché «modifica il loro approccio tradizionale: vendo a poco, pago poco il latte, i pastori vanno in piazza e recuperano soldi pubblici».

Così c’è chi rema contro perché evidentemente «un formaggio venduto a tali prezzi a qualcuno non fa comodo».Insomma, sospettano che si punti alla sovrapproduzione per fare scendere i prezzi. Fanno notare che «in Spagna l’introduzione massiccia e incontrollata della razza Assaf stanno portando alla scomparsa delle razze locali e a problematiche alle Dop del formaggio».

E si chiedono perché si sia cambiato rotta rispetto a gennaio 2019 quando «si erano raggiunti gli accordi per stipulare un patto di filiera, che tra i vari punti, all’articolo 9 prevedeva che le imprese di trasformazione si impegnassero ad approvare una modifica del disciplinare che definisse le razze autoctone da utilizzare; e al gennaio 2020, quando l’allora presidente del Consorzio annunciò alla stampa l’ok alle modifiche da parte dell’assemblea dei soci, con la riconversione entro 5 anni degli allevamenti che comprendono razze non presenti nell’elenco storico di quelle idonee».«Ora il cambio di rotta – dicono i pastori – ma noi non ci stiamo. La strada intrapresa con la protesta del 2019 non si ferma. Non consentiremo ci siano cambi di rotta rispetto alle strategie individuate. Chiediamo a tutti i presidenti delle cooperative, che si basano quasi esclusivamente sulla produzione di Pecorino Romano, che ragionino come pastori non lasciandosi corrompere dagli industriali. E lanciano un appello «alle associazioni di categoria con la speranza che esercitino le azioni sindacali di loro competenza a difesa e tutela del mondo ovino della Sardegna». (a.palmas)

22 dicembre 2021 Minaccia grave al Pecorino Dop, di Mario Serpillo Presidente Unione Coltivatori Italiani

 

Il Pecorino Romano dop si appresta a scrivere una nuova pagina nella sua millenaria esistenza. Potremmo essere di fronte alla modifica più significativa dal riconoscimento del Consorzio di tutela, avvenuto nel 1981. L’assemblea generale dei soci è chiamata a votare su di un odg che promette di rivoluzionare le modalità produttive del celebre formaggio; si intende intervenire sul disciplinare, che ad oggi non prevede limite alcuno nella individuazione delle razze di ovini utili alla produzione. In sostanza, oggi tutto il latte prodotto da pecore di qualsiasi razza può essere trasformato a Pecorino Romano Dop, purché queste pascolino in Sardegna. Leggendola al contrario potremmo dire che, addirittura, oggi la DOP del Pecorino Sardo nel suo disciplinare non prevede che il latte utilizzato venga prodotto esclusivamente da pecore di razza sarda, e già tale elemento ci induce a parlare di stranezza. Il senso delle Dop, così come si intese caratterizzarlo fin dall’inizio, era proprio quello di fungere da collante tra i vari elementi del territorio. Anzi la ratio della normativa, europea prima e nazionale poi, andava proprio in tale direzione, intendendo esaltare produzioni locali fatte con elementi umani, tecnici ed artigianali tipici di un certo tessuto e molto delimitate geograficamente. In tal modo si ottiene il perfetto connubio tra materia prima, prodotta secondo tecniche antiche in un predefinito territorio, e modalità di lavorazione ben precise che spesso, è il caso del pecorino romano, affondano le radici nei millenni. Improvvisamente, il consorzio rischia di andare da tutt’altra parte. La proposta è quella di aprire la possibilità di produrre Pecorino Romano dop con latte di greggi di qualunque tipo, comprese quelle che vivono (si fa per dire) in allevamento intensivo. Quindi, oltre a non essere prodotto con latte sardo si rischia di produrre Pecorino con latte raccolto chissà dove e proveniente da pecore con caratteristiche diverse da quelle sarde.

Noi siamo contrari per diversi motivi. L’unicità di un prodotto che ha più di 2.000 anni è a rischio e la sua identità sarebbe, in questo caso, compromessa. Verrebbe meno il legame col territorio, quel continuum che conferisce l’elemento di tipicità e di unicità alla forma di pecorino, proprio mentre la normativa europea sta andando nella direzione di caratterizzare sempre più i prodotti con il legame al territorio. Come sarebbe possibile definire Romano o Sardo un pecorino fatto in questo modo? E come potremmo difenderci dall’Italian sounding se andiamo sistematicamente a smontare i tasselli della costruzione della Dop? Sarebbe una terribile falla, che andrebbe a detrimento non solo della credibilità del prodotto (e del consorzio) ma anche dei già disastrati pastori sardi che in questo modo si troverebbero competitors continentali che riescono ad avere costi più bassi perché rinunciando alla tipicità riescono ad avere economie di scala. Prevediamo un brutto futuro per gli altopiani della Sardegna, che rischiano davvero di spopolarsi. Tutto ciò andrebbe a vantaggio dei soliti noti, palazzinari, installatori di pannelli fotovoltaici e di pale eoliche. Non ci sono le sorti del pecorino in gioco ma l’identità stessa dell’Isola. In più ci chiediamo in che modo si pensa di porre in essere la tanto decantata “transizione ecologica” se non perdiamo occasione di mettere a repentaglio l’assetto ambientale. Le filiere, le tradizioni hanno anche una valenza conservativa sul territorio, una difesa naturale che rischiamo di perdere. L’identità delle filiere è anche antropologica ed ecosistemica. L’atteggiamento cinico dell’Europa, la passività di regione e Mipaaf, che sulla questione non hanno sollevato nessun dubbio di legittimità, non sposano la logica della transizione né tanto meno quella della lotta al climate change ed hanno la conseguenza di produrre disagio sociale.

 

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