Come morì Raffaello Sanzio? Si riapre il caso, di Eugenia Tognotti
È passata la metà di un millennio dalla scomparsa a soli 37 anni, il 6 aprile del 1520, di Raffaello Sanzio, il più grande artista del Rinascimento, considerato quasi un dio dai contemporanei, «la manifestazione terrestre di un’anima che parla con gli dèi», secondo il grande pittore francese Eugène Delacroix. Il dibattito sulle cause di quella fine imprevista è ancora aperto: sifilide, malaria, avvelenamento con arsenico da parte di altri artisti che gli invidiavano lo straordinario favore di cui godeva nella corte pontificia?
A 500 anni dalla morte dell’artista faranno luce le indagini previste nel progetto di ricerca scientifica approvato dal Comitato nazionale del Ministero beni culturali promosso da quattro prestigiose istituzioni: la Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon, La Sapienza, i Musei Vaticani e l’Accademia di Belle Arti di Roma.
Cancellato l’anno scorso dalla pandemia che ha avvolto nelle sue spire anche la vita culturale tenendo in sospeso diversi importanti progetti, ha ripreso ora la sua strada con la solenne presentazione, nei giorni scorsi, nell’aula magna della Sapienza e l’autorizzazione a riesumare i resti, ospitati al Pantheon.
Per appurare chi poteva avere interesse alla scomparsa del Sanzio e quale influenza può avere avuto la sua fine nell’evoluzione della storia dell’arte figurativa, non si trascurerà nessun ambito, da quello storico artistico a quello medico-scientifico. Grazie a tecnologie estremamente innovative si potrà giungere, oggi, a risultati importanti sulle cause che hanno determinato la morte di Raffaello dopo alcuni giorni di malattia febbrile, molto verosimilmente infettiva, che ne causò il decesso: un morbo sconosciuto? Avvelenamento?
Le notizie utili a ricostruire una storia patologica sono scarse. Stando alle informazioni contenute nelle “Vite” di Giorgio Vasari, Raffaello era «persona molto amorosa affezionata alle donne e ai diletti carnali». La vita sessuale, «molto disordinata e fuori modo», provocarono la malattia che lo portò alla morte. Nell’aprile del 1520, «dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre».
Ma gli “eccessi amorosi” non conducono automaticamente alla sifilide, una patologia che richiede una lunga incubazione e con sintomi – lesioni cutanee – di cui non si trova traccia in altre fonti. L’ipotesi del “mal francese” – sicuramente diffuso in Italia durante la giovinezza di Raffaello, negli anni di Firenze e Siena in cui dipinge alcuni dei suoi più grandi capolavori (lo “Sposalizio della Vergine” e la “Madonna del Cardellino”) – sembra, dunque, essere stata avanzata solo sulla base del riferimento di Vasari a comportamenti amorosi disordinati. Comportamenti non automaticamente collegati alla malattia che, nelle sue varie fasi implicava un discreto periodo incubazione, anche se meno lungo nel primo decennio del XVI secolo, e la malattia si manifestava con lesioni cutanee e sgradevoli ulcerazioni che non sarebbero sfuggite in un personaggio circondato da tanta concitata attenzione.
Anche l’ipotesi diagnostica di malaria sembra da escludere: malattia conosciuta dall’antichità nella campagna romana, era endemica nel Rinascimento e il carattere ciclico delle manifestazioni febbrili (febbre terzana e quartana) era ben noto ai medici. Nel parlare di febbri improvvise e “continue”, Vasari non alludeva certamente alla malaria.
Poco, o per niente attendibile, anche l’ipotesi – formulata in una cronaca satirica del XVIII secolo- di un avvelenamento arsenicale che avrebbe conservato il corpo del grande pittore in ottime condizioni, circostanza appurata in una supposta inumazione del 1674, e normale anche in una mummia naturale ben conservata, come ha dimostrato lo studio dei corpi mummificati coevi dei nobili spagnoli della Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli.
Il movente non sembra giustificato dalle invidie di altri artisti per le grandi ricchezze accumulate e l’enorme credito di cui godeva il giovane artista presso il papa e altri ricchi committenti, come Agostino Chigi; nonché dalla competizione, non priva di asprezze, tra Raffaello e Sebastiano del Piombo, alimentata, anche, dal sodalizio stretto dell’autore della “Resurrezione di Lazzaro” con un altro grandissimo, Michelangelo Buonarroti.
Ma il progetto seguirà una nuova pista per risalire alla causa di morte: la pericolosità delle sostanze utilizzate per nuove miscele di colore. Non ci sono tracce di una sua vicinanza al mondo dell’alchimia. Ma la sua accertata curiosità di sperimentare nuove tecniche come l’affumicatura col nerofumo da stampatori utilizzato per la “Trasfigurazione” e, ancora, del blu egizio, individuato da poco tra i colori del “Trionfo di Galatea”, un pigmento di cui non si servivano i pittori rinascimentali.
Quale, dunque, la causa di morte di Raffaello, ricco, invidiato, potente, giovane e di fulgida bellezza così come lo raffigura uno dei suoi maestri, il Pinturicchio, negli splendidi affreschi della Libreria Piccolomini nel duomo di Siena?
L’impresa di restituire, dopo cinque secoli, la verità storica alla vicenda della scomparsa dell’artista non potrebbe essere in mani migliori. L’esercito di esperti di comprovata fama e professionalità coinvolti nel progetto Enigma Raffaello – medici, paleopatologi, restauratori, genetisti, esperti in modellazione digitale 3D, paleografi, operatori di rendering e metodologie multimediali di ricostruzione virtuale dell’immagine – riscriveranno, con un approccio interdisciplinare, e col supporto di archivisti, storici dell’arte e dell’architettura, una storia ancora avvolta nel mistero.
La prevista riesumazione, dei resti ospitati nel Pantheon, non è la prima: l’ultima, tra mille polemiche, è avvenuta nel 1833, e ha consentito la realizzazione di un calco del cranio e la ricostruzione del volto. Le nuove tecnologie dell’antropologia forense aprono nuove strade.
Le esumazioni di personaggi illustri, effettuate a fini di studio e di ricostruzione di eventi storici sono state numerose negli ultimi anni e le conseguenti indagini hanno dimostrato il grande interesse che rivestono sul piano antropologico, storico e medico. Tra le varie esumazioni quelle di Sant’Antonio di Padova, di Cangrande della Scala, condottiero ghibellino e mecenate di Dante Alighieri, deceduto improvvisamente a Treviso nel 1329, a causa dell’intossicazione seguita alla somministrazione orale di un infuso o di un decotto a base di camomilla e gelso in cui era contenuta la digitale (Digitalis sp. forse purpurea). E, ancora, del leggendario capitano di ventura Giovanni de’ Medici, detto dalle Bande Nere (1498-1526), colpito ad una gamba mentre combatteva per bloccare in Lombardia la discesa dei Lanzichenecchi. Ad ucciderlo non fu un complotto politico, ma il colpo di falconetto (un cannoncino) e l’amputazione della gamba, con la successiva setticemia, come ha stabilito il gruppo di ricerca del paleopatologo Gino Fornaciari, dell’Università di Pisa.
Durante la presentazione del progetto Enigma Raffaello, alla Sapienza, lo studioso ha spiegato che lo studio antropologico – e il recupero di piccoli frammenti ossei per gli isotopi stabili e il DNA antico – consentirà, attraverso raffinate metodiche bioarcheologiche, una ricostruzione affidabile dello stile di vita dell’artista e delle patologie a esso associabili, nonché ipotesi verosimili sulle cause della sua morte che provocò un “ismisurato dolore” nel papa e lasciò attonita la corte pontificia. Raffaello ha disseminato le sue opere di messaggi cifrati il cui significato resta tuttora oscuro.
Riusciranno arte, scienza e tecnologia a svelare l’enigma di un uomo che era considerato quasi un dio dai suoi contemporanei? Nel Pantheon, dove riposa, si trova un’epigrafe scritta dal cardinale-poeta Pietro Bembo: «Qui c’è quel Raffaello, dal quale finché visse, Madre Natura credette di essere vinta e quando morì temette di morire con lui».
Da La Nuova Sardegna, 12 dicembre 2021