Dietro i nomi, delle ‘cose’ formidabili … dalla nostra Terra, di Daniela Pinna
La pecora nera di Arbus, la patata viola di Scano Montiferro, sa gioghedda di Castelsardo. Tesori della biodiversità di Sardegna, piccoli capolavori della genetica, modellati nei secoli dall’interazione con il suolo e col vento, con l’acqua o con la siccità, con i fiori, gli arbusti, gli alberi e i loro profumi. E con l’opera degli uomini e delle donne, che li hanno protetti, salvati e usati. Gemme a rischio di scomparsa per la concorrenza dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi. E anche a rischio di rapina, perché la loro capacità di resistenza alle emergenze climatiche li rendono attraenti per le multinazionali dell’agribusiness e dei farmaci, che spesso convivono negli stessi conglomerati economici. La sorveglianza Ora sulla biodiversità vegetale e animale della Sardegna veglia una Commissione tecnico-scientifica regionale, con l’incarico preciso di individuarla, registrarla, custodirne il germoplasma, mettere in rete gli agricoltori e gli allevatori che ne saranno i custodi. Il tutto perché le varietà animali e vegetali tradizionali tornino a essere fonte di reddito per le comunità di appartenenza, e perché eventuali ricerche sulle loro caratteristiche garantiscano un ritorno economico alla Sardegna. Nessuno potrà più brevettare il trifoglio sardo in Australia e rivendercelo a caro prezzo. «Si adempie così a un aspetto importante della Legge 16 sull’agrobiodiversità, approvata nell’agosto 2014» dice Tonino Costa. Cinquantasette anni, agronomo, nuorese, è funzionario di Laore, l’agenzia della Regione Sardegna che promuove lo sviluppo agricolo e rurale. «Negli ultimi 20 anni – spiega – soprattutto dopo il Protocollo di Rio, c’è stata una mobilitazione dal basso contro la perdita di biodiversità dovuta alla affermazione delle cosiddette supervarietà». Ovvero, varietà di cereali, ortaggi o frutta iperproduttive, capaci di crescere a qualunque latitudine, ma solo se sostenute da tanta acqua, concimi e antiparassitari chimici, spesso altamente inquinanti. «Invece l’agricoltura tradizionale aveva sviluppato nei secoli varietà più resistenti, che si erano adattate ai terreni e al clima», riferisce Costa. «Spesso sono stati i cittadini, organizzati in comitati spontanei, a ricercare catalogare, salvare le sementi e ricominciare a coltivare i cereali o gli ortaggi della tradizione». Gruppi radicali, motivati da un mix di tecnica e ideali. «Agivano per passione. La legge regionale del 2014, in anticipo di un anno su quella nazionale, ha dato una cornice a questa azione». La riscossa La commissione è presieduta da Antonella Rocchi dell’assessorato all’Agricoltura e comprende rappresentanti del mondo tecnico produttivo (da Agris e Laore a Coldiretti, Copagri, Cia) della ricerca (le università di Cagliari e Sassari e il Cnr) ma anche dei comitati e delle associazioni di base. L’obiettivo è duplice: conservazione ma anche valorizzazione economica. Lo sottolinea con enfasi Gianni Bacchetta, ordinario di Botanica all’Università di Cagliari e direttore della Banca del Germoplasma all’Orto botanico. Il luogo dove potenti frigoriferi conservano i semi di tutte le varietà vegetali della Sardegna, sin dall’epoca nuragica. «È importante – dice – riconoscere e schedare l’agrobiodiversità. Ci sono ancora tante varietà non riconosciute nei cataloghi nazionali. come la facussa, e alcune varietà di angurie, le colture cerealicole non irrigue e le leguminose». Non c’è solo un interesse scientifico. «Il fine ultimo è dare valore alla nostra agrodiversità e benefici concreti ai nostri agricoltori. Non potendo competere per quantità, ci possiamo rivolgere a un mercato internazionale di qualità». Buongustai che apprezzino le certificazioni attribuite dalla storia. «Le indagini archeologiche dimostrano che l’agrodiversità in Sardegna è antica, radicata», ribadisce Bacchetta. «Ogni varietà agricola è un pezzo di storia. Rappresenta il territorio e le popolazioni». Argomento caro ai nuovi contadini e ai comitati spontanei. «Non si tratta solo di risorse genetiche. Si sono evolute insieme alla comunità. È la nostra storia che condividiamo con gli altri esseri viventi, la nostra e la loro memoria», spiega l’imprenditore e attivista Francesco Mascia, che in un dotto libro a metà fra agricoltura e linguistica, ha catalogato i grani antichi e le loro denominazioni in sardo, gallurese, corso. Sulla stessa linea l’antropolga Alessandra Guigoni, esperta di agrobiodiversità e di tradizioni alimentari in Sardegna. Sarà il collegamento fra i mondi della produzione, quelli della ricerca e quelli della tecno-burocrazia. «Da antropologa applicata credo, da molti anni, che l’agrobiodiversità possa aiutare lo sviluppo locale delle comunità rurali», afferma Guigoni. «Sono onorata di far parte della commissione». Nessuna paura Il rischio è, forse, la burocratizzazione della biodiversità. I movimenti spontanei e radicali accetteranno di finire dentro la macchina regionale? Il dottor Costa scommette di sì. «Le resistenze ci sono. Per esempio i coltivatori della cipolla di Alghero erano dubbiosi. Però, è una scommessa. Se entri in una rete, proteggi ancor più la lenticchia di Calasetta a la Trempa Orrubia, la mela rossa di Ussassai». Costa non sembra temere neanche le guerre di campanile per il controllo della susina o del grano ultralocale. «Se le risorse sono in circolazione e sono custodite da più operatori, sarà più difficile che vadano perdute».
L’Unione Sarda, 10 ottobre 2021