ALCIDE DE GASPERI, di Mario Missiroli
Cattolico ma fedele alla tradizione liberale: De Gasperi, l’uomo che visse due volte.
Si dirà dell’uomo insigne (Alcide De Gasperi, ndr) che ci ha lasciato, del grande italiano, che si avvantaggerà del tempo, che, salito al governo in uno dei momenti più tragici della nostra storia, all’indomani di una disfatta militare quasi senza precedenti, aggravata dalla guerra civile, ebbe la forza e l’animo di assumere tutte le responsabilità imposte dalle circostanze e che dopo pochi, ma intensissimi anni di un lavoro tenace, animato da una volontà incrollabile, restituì alla Patria nostra dignità, ordine, una certa prosperità, un prestigio morale e politico nel mondo, che, dopo tante vicende, tanti lutti, tante sciagure, tante rovine, pareva quasi follia sperare. Al di sopra di ogni riserva, di ogni casistica, di ogni eccezione, questo sarà il giudizio della storia, in perfetta armonia con quello degli stranieri nostri contemporanei. Non si deve esitare a riconoscere che la sua autorità nel mondo internazionale fu tale da compensare non di rado le molte lacune della nostra vita politica, che suscitavano impressioni incerte e valutazioni erronee. La sua parola, la sua persona bastavano a garantirci dovunque.
Egli traeva la sua massima forza dalla sua fede religiosa, che era profondissima, senza ostentazioni e senza bigotterie. Cresciuto in altri ambienti, educato ad altre scuole, forte di esperienze lontanissime da quelle della vita italiana, seppe, per così dire, farsi una coscienza nazionale saldissima e degna di essere indicata come un esempio ai giovani delle nuove generazioni. Qµesta trasformazione psicologica e morale fu, probabilmente, il dramma intimo della sua coscienza, un dramma silenzioso e profondamente poeetico. Nessuno ne seppe mai nulla, ché egli non amava confidarsi con alcuno, ma non era difficile scorgere da tanti segni il fuoco interno che lo animava e Io consumava. Avrebbe potuto far suo il motto di Bismarck: amore patriae consumor.
In certo senso, si potrebbe dire che visse due vite. Educato ad una scuola rigorosamente cattolica, anzi, confessionale, fu chiamato a governare una nazione che aveva conquistato indipendenza e unità in opposizione alla Chiesa, una nnazione nella quale i diritti dell’incredulità erano sempre stati pari a quelli della fede; abituato ad esperienze statali di tutt’altro genere, a governi tipicamente federali, doveva proporsi come primissimo scopo quello di rinsaldare l’unità nazionale, compromessa dalla disfatta, dalla caduta della monarchia e dalle sempre rinascenti tendenze regionalistiche. Alieno, per naturale disposizione dell’animo, da ogni nazionalismo, doveva farsi interprete del sentimento naziooffeso e mortificato da un iniquo trattato di pace e riconquistare un prestigio perduto e questo senza iattanze scomposte e irritanti, ma con la serietà delle richieste, con la moderazione, svegliando nei nemici di ieri il senso dell’equità e della misura.
È, questo, indubbiamente, l’aspetto patetico della sua opera di rappresentante dell’Italia nei consessi internazionali. Accolto con diffidenza e talvolta con dispetto, umiliato per colpe e responsabilità non sue, egli seppe ispirare rispetto, poi fiducia e, infine, simpatia. L’uomo che a Parìgì, quando si presentò per subire il trattato di pace, non fu quasi salutato da alcuno e che si vide indicare da Bidault il posto a lui riservato nella tribuna con un gesto degno di un presidente di tribunale, aveva finito per diventare uno dei massimi artefici della politica europea e il più autorevole ispiratore di quegli ideali di pace e di solidale collaborazione internazionale nei quali si compendiano le speranze di quanti non disperano di salvare la civiltà occidentale.
Come tutto ciò gli sia riuscito possibile, dati i suoi punti di partenza e la diversa provenienza, è un problema che tenterà gli storici di domani e quanti ameranno inoltrarsi nei riposti labirinti della psicologia. Certo è che egli riuscì a conciliare le esigenze più opposte. Capo del governo di uno Stato di origine rivoluzionaria e cattolico di stretta osservanza, seppe mantenersi fedele alla tradizione liberale e, contemporaneamente, servire quelle idealità religiose, che erano la sostanza stessa dell’anima sua. Grandi furono i servigi che egli rese all’Italia, ma grandissimi quelli che rese alla Chiesa. Questa azione obbediva ad una logica profonda ed era il suo segreto. ( … )
Convinto che i dati storici dell’Italia contemporanea erano immutabili e che nessun governo potrà mai reggersi all’infuori della tradizione liberale, si richiamò intimamente e apertamente a quella corrente del Risorgimento che vantava dei nomi grandissimi, quali il Manzoni, il Capponi, il Tommaseo, e pose ogni studio, ogni sua cura, a mitigare, a contenere le esigenze, sempre latenti e sempre rinascenti, della corrente uscita vittoriosa dalla nostra formazione unitaria. ( … ) L’aiutarono, in questo, la vivissima, sentitissima, vocazione democratica, il senso acutissimo della giustizia sociale, l’amorevole disposizione verso i diseredati. Di qui il suo riformismo, che per i suoi sottintesi politici, quale remora a porre sul tappeto problemi politici scottanti e talvolta inattuali, aveva non pochi punti di contatto con quello di Giolitti. E di qui, egualmente, il suo fervore europeistico( … )
Fu aiutato, in quest’opera, dalla sua natura. Una volontà tenacissima e un candore, talvolta, quasi infantile, poi una tolleranza infinita, che proveniva dalla sua naturale bontà, dalla intemerata coscienza cristiana; e tutto questo non disgiunto da un fervore, da un ardore che potevano, talvolta, assumere le apparenze del fanatismo. «Guardate ai comunisti – esclamò, una volta, in un convegno a Grottaferrata, parlando ai giovani -. Guardate ai comunisti e prendete esempio eia loro! Guardate a quel che sanno fare pur muovendosi nell’errore. E voi non riuscirete a fare altrettanto, voi, che avete con voi Cristo?». Erano questi i momenti nei quali l’uomo rivelava tutto se stesso e metteva a nudo l’anima, senza reticenze e senza pudori; erano queste le proposizioni che accendevano i giovani e che restavano incancellabili nel loro cuore e perpetuavano il fascino della sua persona. Poi sopravvenivano momenti di tristezza e profonde malinconie per la miseria degli uomini, per le ingratitudini, per le incomprensioni di ogni genere. L’invadeva un senso di sfiducia, fino a desiderare la morte se questo pensiero non gli fosse sembrato un peccato mortale. Il Vangelo cedeva il posto all’ «imitazione di Cristo». Immerso nell’azione come pochi, assalito da innumerevoli miserie, che gli davano la misura degli uomini, eppure pazientissimo, si era abituato, assecondato dal suo temperamento ascetico, a considerare solo le idee generali, le idee universali e a dare poca importanza agli uomini. Di qui quel suo distacco da tante cose minute e dagli ambienti che lo circondavano. Si disse che non si occupava degli uomini, che viveva in solitudine. Ed è vero. Viveva in solitudine perché non riusciva a prendere in considerazione le piccole cose, le miserevoli ambizioni, le vanità, che nella sua altezza spirituale non poteva nemmeno concepire.
Come accade sempre, questa regola di vita offuscò, a un certo momento, la sua popolarità. Ed egli parve dolersene più del necessario, immemore che l’ingratitudine degli uomini è quasi sempre la misura della grandezza morale. ·Ora non ci resta che rimpiangerlo e onorarlo nel nostro cuore. Si addicono a lui queste parole sante: «Camminerò al cospetto del Signore nella terra dei viventi».
Il corriere della sera, 20 agosto 1954