Stefano, una vita per gli altri: dall’Ebola al Covid-19, di Silvia Sanna

L’infermiere sassarese: «Ho visto la morte in faccia, ora aiuto chi mi ha curato». L’incontro con Marco, il medico colonnello: «Ci siamo salvati a vicenda».

Ventinove giorni a testa sull’orlo del precipizio, uno che tiene la mano dell’altro. C’era Marco a guidare l’elicottero che ha trasportato Stefano quando Ebola stava per avere la meglio su di lui, e c’era Stefano ad assistere Marco quando il Covid-19 ha aggredito i suoi polmoni e la fame d’aria è diventata sempre più forte.

Ventinove giorni in apnea all’ospedale Spallanzani di Roma: stesso tempo e stesso luogo, insieme ai confini della vita, quando basta un soffio per ricadere indietro. «E invece c’è quella mano che ti tiene su, nonostante i rischi. C’è il coraggio e la tenacia di chi non ti abbandona e ti regala la tua seconda chance».

Quando Stefano Marongiu apre la mente ai ricordi, sembra quasi di vederli quel precipizio e quelle mani strette, e viene da pensare che lo rimarranno per sempre. Perché è solo grazie a quella mano e a quell’elicottero se Stefano ora il burrone lo guarda dall’alto. Ed è lui che aiuta tanti altri a venire su.

Ebola, 2015. È maggio, Stefano Marongiu, infermiere sassarese di 37 anni in servizio al 118 di Cagliari, è appena rientrato da una missione in Sierra Leone come volontario di Emergency.

Il giorno prima di salire sull’aereo che lo riporterà a casa, Stefano aveva assistito uno dei tanti pazienti, una donna poco più che cinquantenne, colpiti dalla “malattia del diavolo”. Per questo, quando compaiono i primi sintomi, sa bene cosa fare. Si autoisola in una stanza nell’appartamento a Sassari in cui abita la madre, e avvisa le autorità sanitarie. Intanto la temperatura sale, in un decorso rapidissimo. Dopo due giorni di ricovero in Infettivi a Sassari, arriva la conferma di quello che Stefano già sapeva: «È Ebola, per sopravvivere devo essere curato in una struttura specializzata. In Italia è l’ospedale Spallanzani di Roma».

È un trasferimento delicatissimo, per via dell’alto rischio di contagio e di contaminazione in volo: «Viene Marco a prendermi, lui non ha dubbi, accetta la sfida e mi salva la vita».

Marco Lastilla è il colonnello medico dell’Aeronautica militare che pilota il C130 dentro il quale Stefano viaggia da Alghero allo Spallanzani, chiuso nella speciale barella per il biocontenimento. Marco lo affida alle mani sapienti dei medici e degli infermieri: 29 giorni dopo Stefano viene dichiarato guarito. Marco ancora non sa che cinque anni dopo i ruoli si invertiranno.

Covid, 2020. È l’inizio di dicembre quando Marco chiama Stefano: «Non sto bene – dice – sento l’affanno». Dal 2015 tra i due è nato un legame profondo, di amicizia e di rispetto. Stefano Marongiu ha sconfitto Ebola dopo quasi un mese di battaglia ma dallo Spallanzani non è mai andato via se non per brevi periodi. «Ho chiesto subito il trasferimento qui, sentivo il desiderio di mettermi a disposizione e aiutare chi aveva aiutato me». E allo Spallanzani Stefano ha anche ritrovato Roberta, conosciuta in Sierra Leone durante la missione di Emergency: «Rivederci era una promessa, il destino ha deciso per noi le circostanze». Roberta, capotecnico di Microbiologia, non lo molla un istante.

Quando il colonnello Marco Lastilla viene ricoverato allo Spallanzani, Stefano e Roberta sono sposati da quattro anni e lui è da alcuni mesi coordinatore delle Usca-R, l’Unità speciale di continuità assistenziale per la Regione Lazio. «Ottocento infermieri in tutto, gruppi d’intervento formati da un minimo di due persone e modulati secondo le necessità, lavoriamo h24 da marzo 2020, da quando il virus ha dilagato nelle Rsa: l’inizio del periodo più complesso dopo il giorno zero, il 29 gennaio, quando furono ricoverati allo Spallanzani i due turisti cinesi in vacanza a Roma, all’hotel Palatino».

Da allora le Usca-R sono intervenute sui vari cluster, per esempio nelle Rsa, e operato nei drive allestiti in aeroporto in agosto, al rientro dalle vacanze: «Dall”attività di testing – dice Stefano Marongiu – era emerso un altissimo numero di positivi provenienti dalla Sardegna. Ma l’isola, si scoprì subito, era vittima di contagi importati dalla Spagna».

Il lavoro non è finito, va avanti con le vaccinazioni «e con i controlli negli arrivi, gli ultimi dal Bangladesh, dall’India, dall’Afghanistan».

Un impegno totalizzante, che nel dicembre 2020 non impedisce però a Stefano di assistere Marco, il suo amico, il suo salvatore: «Ogni sera gli facevo la barba, era il nostro rituale». Con Marco il Covid ci va pesante: «Non è stato intubato ma ha avuto bisogno del casco e della maschera full face per la ventilazione forzata. Insomma, se l’è vista brutta: ha lasciato l’ospedale dopo 29 giorni, come era successo a me cinque anni prima».

E quando Marco lascia l’ospedale, è iniziata da pochissimo la campagna delle vaccinazioni. «La svolta contro il Covid. E ancora una volta – dice Stefano – dobbiamo ringraziare lo Spallanzani». I vaccini, l’appello. È il 27 dicembre del 2020, prima giornata delle vaccinazioni. Stefano Marongiu si commuove: «Ho avuto l’onore di vaccinare la professoressa Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del laboratorio di virologia dell’ospedale Spallanzani. È lei che insieme al suo gruppo di ricerca, tutte donne, ha isolato il Sars-Cov-2. Ed è stato meraviglioso che si sia voluta vaccinare per prima, a dimostrazione della grande fiducia che ha nei confronti di questo vaccino. Io l’ho fatto poco dopo di lei e invito chi ha ancora dubbi a informarsi su cosa sta accadendo negli ospedali: la larghissima maggioranza dei ricoverati in terapia intensiva non è vaccinato. L’anno scorso ho visto tante persone morire per colpa del Covid, tanti anziani privi dell’ultima carezza, di un bacio di un figlio o di un nipote. Sono immagini che resteranno per sempre, solo il vaccino può fare in modo che non si ripetano più». Da LA NUOVA SARDEGNA  7 settembre 2021

 

Condividi su:

    Comments are closed.