Popolazioni in fuga e ‘su disterru sardu’ (1), di Maria Michela Deriu
“Littera de sa muzere de s’emigradu”, di Francesco Masala. Il dolore della lontananza sentita dalla poesia de ‘su disterru’, l’emigrazione sarda.
I recenti fatti accaduti in Afganistan, peraltro non piovuti dal cielo ma prevedibili fin dal febbraio 2020, quando il Presidente Trump sottoscrisse un accordo con i Talebani, pone al mondo occidentale un problema con il quale sopratutto gli italiani e le regioni con le coste piu’ prossime all’Africa, quelle siciliane e quelle sarde, hanno dovuto e devono fare ancora i conti: quella dei profughi.
Il mondo dell’immigrazione e’ difficile e variegato.
Spesso ci viene ricordato di essere anche noi un popolo di emigranti. Nulla di piu’ vero, quello che non viene sufficientemente evidenziato sono i controlli e gli accordi tra i paesi di accoglienza che venivano stipulati. Accordi tra lo stato italiano e il Belgio e la Germania per esempio.
Tanto per citarne alcuni.
L’accordo tra Belgio e Italia venne stipulato nell’ aprile del 1947.
Nel piano di ricostruzione dell’Europa distrutta dalla seconda guerra mondiale era indispensabile promu9overe una forte crescita industriale. Il Belgio mancava di mano d’opera per estrarre il carbone delle sue miniere, l’Italia mancava di carbone (tranne quello sardo … ma è anche un’altra questione …!). In questo accordo si prevedeva che 50.000 italiani di massimo 35 anni potessero essere inviate in Belgio a lavorare in miniera. Ovviamente non si trattava di un assalto indiscriminato verso il Belgio, ma un vero e proprio “arruolamento”. Gli italiani partivano nella misura di 2000 per volta e alla frontiera italo-svizzera si erano istituiti gli uffici incaricati di effettuare le operazioni definitive di arruolamento.
Quanto stesse a cuore la sicurezza dei minatori agli imprenditori Belgi ce lo ricorda il disastro di Marcinelle che costo’ la vita a 135 italiani su 270 minatori.
Nel 1955 analogo accordo veniva stipulato con la Germania e, nonostante le tutele stabilite dall’accordo, non impedi’ ai lavoratori ospiti (”Gastabeiter”) della Volkswagen di alloggiare in campi costruiti durante l’occupazione nazista per i prigionieri russi. Un alto muro di cinta ricordava le recenti atrocita’ dei Lager.
Vorrei sottolineare che questi erano lavoratori con regolare contratto di lavoro, trascorrevano l’intera giornata in fabbrica per contribuire alla costruzione della Grande Germania e della futura Europa.
Poi, gia’ a meta’della prima immigrazione tra il finire dell’ottocento e i primi decenni del XX secolo in molti perseguirono il sogno americano.
Tanti imbonitori, millantando guadagni strepitosi , nella realta’ procacciatori di mano d’opera a buon mercato, assoldavano uomini , donne e bambini che stipati nelle stive avevano scarse possibilita’ di sopravvivenza. Morivano soprattutto bambini. Ricordo che il lavoro minorile non era perseguibile.
Chi come meta aveva gli Stati Uniti doveva sbarcare ad Ellis Islad e qui essere minuziosamente sottoposto a visite mediche e test psicologici.
L’Australia aveva regole molto piu’ elastiche ma era costituita in maggioranza da uomini
“Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata.” Con Alberto Sordi e Claudia Cardinale e’ un racconto verosimile di tante donne che, per sfuggire alla miseria del paese, speravano di fare una vita piu’ agiata con uomini che nella migliore delle ipotesi si facevano presentare dal ruffiano di turno con una foto scattata vent’anni prima.
La ricongiunzione col nucleo familiare era estremamente difficile.
In Svizzera praticamente impossibile, come narrano giovani uomini traumatizzati nell’infanzia perche’ reclusi in casa senza possibilita’ di muoversi.
Ogni sospetto era oggetto di possibile delazione da parte dei vicini.
Sia per le leggi, che non permettevano la ricongiunzione con le famiglie, che per la grande lontananza, il mondo dell’emigrazione ha generato un enorme numero di vedove bianche .
“Littera de sa muzere de s’emigradu”, di Francesco Masala.
Tratto dalla raccolta di poesie “Pane nero”, che vinse il Premio Chianciano nel 1956, ci trasmette la desolazione di una donna lasciata sola dall’uomo che amava.
In lei non c’e’ disperazione, ma e’ come se fosse anestetizzata da una sorda sofferenza.
Niente lacrime e niente gemiti.
Per noi donne sarde e’ troppo difficile piangere.
“Littera de sa muzere de s’emigradu”
Est be’nnidu s’istiu.
Dae ispigas de neula, in su cunzadu,
est fioridu trigu de chigina:
as semenadu in mare.
Su ruinzu e su solopu
an mandigadu pane’e fizu tou:
as semenadu in mare.
In malora as postu
sa falche subra s’anta de sa janna:
as semenadu in mare.
Ohi, iscura s’arzola
chi temet sa frommigia:
as semenadu in mare.
Su entu s’est pesadu ma in sa terra
falat solu paza:
as semenadu in mare.
Prenda mia istimada,
cando torras, si mai as a torrare,
no mi pedas ue est s’aneddu ‘e oro:
est diventadu pane a fizu tou.
Prenda mia stimada, coru meu,
t’iscrio subra su entu,
ammentadi de me.
Ohi, cantos fizos
cherias chi mi nascheren dae su sinu:
ma totu suno mortos
dae candu ses partidu,
in su lettu de paza b’est restadu,
a s’ala tua, unu sulcu chene semene.
Prenda mia istimada,
non isco pius proite ti faeddo,
sos pensamentos mios sunu ch’e s’erva,
a’teros che- i sas nues
a’teros che ispinas.
Intro de a te aia fattu su nidu.
Isco chi non ses nudda
e deo ancora respiro.
Su coru est grogu
che-i sa inza’e sa innenna.
Lettera della moglie dell’emigrato
E’ venuta l’estate.
Dalle spighe di nebbia, nel tuo campo
e’ nato grano di cenere
hai seminato in mare.
La ruggine e scirocco
hanno mangiato il pane di tuo figlio:
hai seminato in mare.
In malora hai appeso
la falce sulla porta:
hai seminato in mare.
Ohi, povera l’aia
che teme la formica:
hai seminato in mare.
Il vento si e’levato ma per terra
cade soltanto paglia:
in malora hai appeso
la falce sulla porta,
hai seminato in mare.
Caro, caro,
quando ritorni, se ritornerai,
non chiedermi dov’e’ l’anello d’oro:
e’ diventato pane per tuo figlio.
Caro, o caro cuore mio,
ti scrivo nel vento:
ricordati di me.
Ohi quanti figli
volevi mi nascessero dal seno,
ma tutti sono morti
da quando sei partito,
sul letto di granturco c’e’ rimasto,
dalla tua parte, un solco senza seme.
Caro, o caro, non so perche’ ti parlo,
i miei pensieri nascono come erba,
altri come le spine.
Dentro di te avevo fatto il nido,
dentro di me avevi fatto il nido.
So che non sei piu’ nulla
ed ancora respiro,
il cuore e’ giallo
come una vigna dopo la vendemmia.