L’Unione Sarda intervista il presidente della Regione sarda, Christian Solinas, di Giuseppe Meloni

Passerà l’incubo del Covid (si spera), ma lascerà un’Isola stremata, con un’economia a terra e una sanità in affanno.

Christian Solinas vorrebbe trasformare i due problemi in un’opportunità: tra i grandi progetti per il futuro, il presidente della Regione conta di inserire un nuovo ospedale a Cagliari, «nel quartiere tra la Fiera e Sant’Elia, per creare un polo di eccellenza». Quasi un Betile della sanità: Solinas non lo chiama così, ma è inevitabile pensare al vecchio sogno soriano del museo sul mare, ora rispolverato, quando l’attuale governatore immagina «una struttura ospedaliera che abbia anche valori estetici importanti». È uno dei pilastri su cui il presidente sardista spera di edificare la

ripresa della Sardegna, fiaccata dalla pandemia.

 

Quasi alla metà del suo mandato, il primo bilancio per Solinas non può prescindere dall’emergenza sanitaria mondiale:

«Ci ha portato via un anno e mezzo sui due anni e tre mesi trascorsi dal mio insediamento», riflette, «eppure l’attività non si è fermata. Abbiamo mantenuto impegni contenuti nel programma elettorale come le riforme della sanità e degli enti locali, oltre al Piano casa; chiuso partite annose (Corpo forestale e Forestas) e un accordo sulle entrate che ci dà un tesoretto da 1,6 miliardi. Sono state fatte tante cose».

 

L’ultima è quella più discussa: la legge che amplia gli staff della Giunta.

Per l’opposizione è un poltronificio.

«Invece è una riforma che serve a migliorare la qualità dell’amministrazione. Ci avevano provato in molti senza riuscirci: la verità è che, anche dopo l’elezione diretta del presidente, la struttura era rimasta a un’impostazione figlia degli anni ’70, sostanzialmente acefala, con tante direzioni regionali poste sullo stesso livello. La presidenza non aveva la possibilità di intervenire laddove, per esempio, ci fosse qualche ritardo. Ora col segretario generale (che eravamo gli unici in Italia a non avere ancora) si crea un vertice che si preoccupa di tradurre il programma di governo in obiettivi gestionali».

 

Però così si accentra il potere sul governatore.

«No, la legge non sposta poteri: semmai dà al presidente gli strumenti per esercitare quelli che la legge già gli attribuiva. Per altro non è una mia iniziativa estemporanea: era anch’essa nel programma elettorale a cui i sardi hanno concesso un grande consenso».

 

 

Allora perché non è stata ancora pubblicata sul Buras?

«In Consiglio sono stati approvati emendamenti importanti, che richiedevano una revisione e un coordinamento tecnico del testo. Ho chiesto particolare attenzione anche per evitare imprecisioni che necessitassero di errata corrige come accaduto di recente per altre leggi. Comunque sarà promulgata martedì».

 

Molte delle vostre leggi sono state impugnate dal Governo. Come se lo spiega?

«Questo tempo è contraddistinto da un rigurgito di neocentralismo. Il rapporto Stato-Regioni sta arrivando a livelli di contenzioso inaccettabili, e ci sono forti criticità per le autonomie speciali. Il Governo cerca di recuperare spazi che ormai erano consolidati nell’autonomia delle regioni».

 

Spesso però la Corte costituzionale gli dà ragione.

«La Corte legge le competenze delle regioni speciali alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Ma il patto che definisce la ripartizione delle competenze con lo Stato è sancito dagli Statuti speciali, che sono norme di rango costituzionale».

 

Ne ha parlato con gli altri governatori “speciali”?

«Sì, il confronto è costante perché c’è un problema di fondo. Acuito però dalle posizioni ideologiche di alcune forze che usano le impugnazioni per fare crociate politiche».

 

Il ricorso sulle Province è arrivato mentre agli Affari regionali c’è la ministra Gelmini, di Forza Italia.

«La legge sulle Province è entrata in Consiglio dei ministri con una proposta di non impugnazione, supportata da un’istruttoria tecnica. Evidentemente qualcuno avrà sollevato problemi, riuscendo a far passare la propria linea. Ma è chiaro che si tratta di un’impugnazione che si fonda su valutazioni politiche».

 

Per intenderci: pensa che abbia pesato l’ostilità verso le Province, o verso un governatore di centrodestra?

«Solitamente la verità sta nel mezzo».

 

Ma serviva davvero riportare a otto gli enti intermedi?

«In campagna elettorale ho girato tutta la Sardegna, e non ho trovato chi non lamentasse lo stato disastroso della viabilità provinciale, dell’edilizia scolastica, dei procedimenti ambientali dopo la distruzione del sistema provinciale. Nell’Isola abbiamo oltre 5.400 chilometri di viabilità provinciale: più di quella statale, e di quella comunale extraurbana. Le Province non sono l’emblema delle poltrone e degli sprechi che un certo populismo senza verità e senza progetto ha voluto costruire in questi anni, ma rappresentano il livello di governo ottimale di funzioni sovracomunali insopprimibili».

 

Però le piccole Province furono cancellate da un referendum che la Giunta Cappellacci, di cui lei faceva parte, aveva cavalcato.

«Noi sardisti non votammo quei referendum. E per essere precisi, in seguito la popolazione si è espressa, in un altro referendum, contro la riforma che cancellava tutte le Province dalla Costituzione. Non possiamo avere una memoria selettiva su queste cose».

 

Così però avremo Province con poche decine di migliaia di abitanti.

«Se vogliamo esser seri, il criterio per valutarle dev’essere territoriale, non demografico. L’estensione della viabilità così come i bacini ottimali per i servizi impongono di tener conto delle nostre peculiarità orografiche, delle distanze tra Comuni e della bassa densità di popolazione. La Sardegna ha 24mila chilometri quadrati di territorio, più della Lombardia. Mi fa sorridere chi argomenta capziosamente cercando il raffronto tra le 12 province lombarde e la nostra riforma, che tende a razionalizzare e semplificare il sistema delle autonomie locali».

 

In che modo?

«La riforma precedente prevedeva una Città metropolitana, una provincia del Sud da Villasimius a Teulada passando per Isili, e decine di unioni di Comuni, persino unioni di unioni… Un florilegio di enti che ha creato confusione e inefficienza. Noi prevediamo tre livelli: Regione, Comuni e le Province o le Città metropolitane come unico ente intermedio, dimensionato su ambiti omogenei».

 

C’è l’ipotesi di dialogare col Governo per risolvere la questione dei referendum? «Assolutamente sì. Non è che noi non vogliamo fare i referendum: ma per 70 anni l’articolo 43 dello Statuto è stato interpretato nel senso che sia necessario quando si modificano una o più circoscrizioni, non quando si procede a un riassetto generale. Tanto che, per tutte le riforme precedenti, non è mai stato sollevato quel tipo di problema. Non escludo a priori un accordo sul referendum preventivo ma segnalo che, questo sì, comporterebbe spese ingenti. Non certo le nuove Province che, come enti di secondo livello, non creano nessuna poltrona retribuita in più».

 

Ritorniamo alla pandemia. Nessun Paese o regione era preparato a un evento simile; ma la Sardegna non poteva gestirlo meglio?

«Quando si scriverà la storia di questo periodo e si guarderanno i numeri e non le opinioni o le strumentalizzazioni, si vedrà che la Sardegna ha avuto il minor numero di settimane di chiusura tra le regioni e una fra le più basse incidenze di casi ogni 100mila abitanti. Nonostante ciò alcuni hanno cercato di favorire una percezione disastrosa senza curarsi del danno d’immagine che potevano arrecare all’Isola».

 

Non erano vere neppure le tensioni tra l’Ats e l’assessorato alla Sanità, che spesso sono trapelate?

«In una situazione di emergenza non puoi dilettarti nei distinguo, devi anzitutto risolvere i problemi. C’è stata una dialettica, è vero, e io sono sempre intervenuto per mettere insieme tutti i protagonisti, e creare le migliori sinergie nell’interesse esclusivo della salute dei sardi».

 

C’è qualcosa che avrebbe voluto fare diversamente?

«Il mio grande rammarico è non aver ottenuto l’anno scorso il via libera ai controlli sugli arrivi».

 

Solo colpa del Governo, o si poteva proporre la cosa in maniera diversa?

«Io a dire il vero avevo anche mandato un’ipotesi di protocollo d’intesa per far sì che non apparisse una vittoria della sola Regione, ma una soluzione condivisa. Non fu presa in considerazione. Ora anche esponenti del Governo di allora hanno pubblicamente ammesso che avevamo ragione».

 

L’emergenza sembra affievolirsi, ma resta una sanità in grandissima difficoltà.

«Stiamo pagando il conto di dieci anni di mancate scelte. Se nella legislatura precedente, per tenere i conti in ordine, sono stati mandati in pensione migliaia di lavoratori del settore senza sostituirli, è logico che poi sorgano problemi. Io ho bandito appena insediato oltre 60 concorsi per assumere più di 1700 figure nel settore medico e sanitario. La pandemia ha rallentato le procedure, ma non può essere considerato responsabile degli inconvenienti attuali chi ha ereditato una situazione disastrosa. Anche per i medici di medicina generale, dopo cinque anni di graduatorie ferme, abbiamo subito recuperato tre anni in uno».

 

Come si fa a risolvere questi problemi senza ripiombare nel buco dei bilanci?

«Noi abbiamo proposto una soluzione con una divisione chiara: le Asl non si occupano più di amministrazione ma solo di erogare le prestazioni sanitarie. L’Ares rimane come soggetto centrale per concorsi, assunzioni, formazione, acquisti. Il prossimo passo sarà la riforma della medicina territoriale, per sviluppare reti di assistenza soprattutto per le cronicità, dai diabetici ai nefropatici, e per chi ha bisogno di cure a bassa intensità».

 

Ora che la pandemia fa meno paura, cosa vede nel futuro della Sardegna?

«Credo che ci siano grandi potenzialità, ma dobbiamo prima di tutto curare la pandemia economica. Ci sono migliaia di operatori economici piccoli e piccolissimi le cui attività sono fortemente compromesse. Siamo già la Regione che ha stanziato più risorse per i sostegni al mondo produttivo, ma a breve vareremo un disegno di legge in favore delle categorie finora non comprese dai vari interventi. A partire dagli agenti di commercio».

 

Non si vive di soli ristori.

«Certo, bisogna avere un grande disegno per il futuro. Il nostro è basato su tre pilastri: il primo sono i grandi investimenti pubblici sui settori infrastrutturali ad alto impatto occupazionale. Abbiamo già interloquito con Anas e Rfi per avviare investimenti che, modernizzando le infrastrutture, creino occupazione. Poi con le risorse dell’accordo sulle entrate finanzieremo i nuovi ospedali e il più grande piano di scavi archeologici, finalizzato alla valorizzazione della civiltà nuragica, mai realizzato finora. In accordo con le Università e le Soprintendenze intendiamo aprire cantieri di scavo in ogni Comune».

 

Qual è l’obiettivo finale?

«Una campagna simile può attrarre ricercatori da tutto il mondo, dare lavoro nel territorio e lasciare un sistema di percorsi senza precedenti per un turismo di tipo culturale. Quante Barumini inespresse ci sono in Sardegna? Abbiamo un quinto del patrimonio archeologico di tutto il Paese. Col ministero della Cultura stiamo progettando una grande promozione mondale dei Giganti di Mont’e Prama».

 

Come si articolerà?

«A breve firmeremo col ministero e il Comune di Cabras l’atto costitutivo della Fondazione che metterà insieme il sistema del Sinis, con Mont’e Prama, Tharros e la chiesa ipogea di San Salvatore. Inoltre alcune delle statue entreranno in un circuito internazionale che le vedrà esposte a San Pietroburgo, Berlino, Napoli e Salonicco».

 

Accennava prima ai nuovi ospedali. Dove saranno?

«Certamente a Cagliari, a Sassari e nel Sulcis. Ma completeremo i lavori già avviati e fermi da anni sul San Francesco di Nuoro, oltre a una serie di interventi di ristrutturazione e adeguamento tecnologico degli ospedali esistenti».

 

Quello di Cagliari dove potrebbe sorgere?

«Penso a un polo sanitario di grande eccellenza nell’area tra la Fiera e Sant’Elia. Un centro per cure ad alta intensità, dove trasferire anche il polo oncologico, per dare a chi soffre il meglio della tecnologia moderna».

 

Quella è una zona vicina al mare, possono esserci problemi paesaggistici?

«Ho in mente un’opera che abbia anche alti valori estetici e paesaggistici, con zone verdi e parcheggi totalmente interrati. Attorno si potrebbe sviluppare un quartiere modello strutturato per le giovani coppie che emigrano di continuo dalla città; che offra soluzioni abitative per i lavoratori del plesso ospedaliero, e anche strutture per ospitare i parenti dei ricoverati per il tempo necessario».

 

Ne ha parlato col sindaco di Cagliari? A volte sembra che il rapporto tra voi due non sia idilliaco.

«La pandemia ha assorbito entrambi proprio ruolo: mi auguro che ora si aprano spazi di collaborazione più ampi, nell’interesse del capoluogo e di tutta la Sardegna». Prima ha parlato di tre pilastri. Gli altri due? «Intanto vorrei consolidare l’immagine della Sardegna come ecosistema favorevole alla ricerca e all’innovazione. In questo senso abbiamo candidato la Sardegna per ospitare l’Einstein Telescope, stiamo scommettendo sulla riqualificazione degli ex pozzi minerari, vorremmo fare dell’Isola l’hub europeo dell’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili. Il terzo pilastro invece è la salvaguardia e valorizzazione delle zone interne».

 

Tema annoso. Cosa si può fare, nel concreto?

«Serve una politica di incentivi alla natalità. Ma stiamo anche studiando un sistema per la piena copertura di tutti i Comuni con la rete 5G. Il concetto di continuità territoriale digitale, che cito spesso, significa che, con le dovute infrastrutture, puoi fare attività in tutto il mondo restando in qualsiasi punto della Sardegna. Le zone interne devono poter sfruttare al meglio gli investimenti che faremo sulla civiltà nuragica, sulla connettività e la ricerca, rilanciando settori strategici come l’agroalimentare».

 

A tal proposito: non teme che, sul fronte della peste suina, con gli avvicendamenti nell’unità di progetto si stia rischiando di vanificare gli sforzi fatti negli ultimi anni per debellare il morbo?

«No. L’impegno per restituire al settore la possibilità di commercializzazione delle carni suine fuori dalla Sardegna è per noi strategico, e non ha colori politici. Abbiamo fatto, in continuità col passato, tutto ciò che ci è stato richiesto; ora, con la nomina alla guida dell’Istituto zooprofilattico del dottor Filippini, un grande esperto che ha un rapporto diretto con gli uffici dell’Ue, contiamo di dare un’accelerazione a questa battaglia».

 

Lei ha esposto un “vasto programma”: con chi intende realizzarlo? Sente l’esigenza di aggiornare la squadra della Giunta?

«Non ho mai negato, a chi l’ha richiesta, la possibilità di una riflessione serena su ciò che funziona e ciò che va migliorato. A metà del percorso è fisiologico verificare l’attuazione del programma. Ma dev’essere chiaro a tutti che, perché si cambi, devono esserci proposte e profili di altissimo livello, che possano essere concretamente avvertiti come un salto di qualità». Quando intende fare il rimpasto? «Anzitutto metterò insieme tutta la maggioranza, magari stando insieme per due o tre giorni, per discutere serenamente sull’attuazione del programma, sui prossimi obiettivi e su eventuali discontinuità che si rendano necessarie».

 

La sua coalizione appare molto litigiosa: Udc contro Lega, Lega contro Psd’Az…

«In un’alleanza con nove componenti, il confronto serrato è un valore. Abbiamo molti volti nuovi, serve tempo per amalgamare esperienze e attitudini differenti. La dialettica interna, anche se a volte viene estremizzata, non è diversa da quella che si è vista in casi simili del passato».

 

Ma lei è più propenso a un rimpasto ampio, o solo a qualche piccolo ritocco?

«Finché non si fa quella discussione collegiale, non posso dire quale ampiezza potranno avere gli eventuali aggiustamenti. Di sicuro, le ripeto, sarò molto esigente con i curricula». Terrà conto dei nuovi rapporti di forza tra i gruppi consiliari, o solo dei risultati elettorali del 2019? «Intanto faccio notare che, contrariamente a quel che succede di solito, la nostra maggioranza si è allargata per ora di due unità, anziché perdere pezzi. Gli spostamenti tra gruppi, ai fini della coalizione, sono ininfluenti; però è chiaro che si dovrà contemperare il rispetto dei voti espressi dai cittadini alle elezioni con l’attuale consistenza numerica dei gruppi consiliari».

Giuseppe Meloni, per  L’UNIONE SARDA DEL 20  giugno 2021

 

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