IL BELLO DELLA VITA? IMMERGERSI NEGLI ALTRI, di Domenico Agasso
Don Luigi Ciotti, 75 anni, nato a Pieve di Cadore ma torinese di adozione. Presbitero e attivista. Da ‘torinosette’, 23 aprile 2021.
Da decenni don Luigi Ciotti pronuncia messaggi di gustizia, pace e solidarietà che emozionano, coinvolgono e incoraggiano a gettare i cuore oltre ogni ostacolo. La sua voce è appassionata, oltre che credibile. Ha sfidato a viso aperto i mafgiosi, irritando il ‘boss dei boss’ Totò Riina, che lo voleva morto ammazzato. La gente gli vuole bene perché ‘ama gli ultimi’, come dice di lui Vasco Rossi. E perché da sempre predica ‘una Chiesa che guarda il cielo senza dimenticare le responsabilità he la legano alla Terra”.
Chi è oggi, a 75 anni, don Ciotti?
«Sono una persona alla ricerca, con una forte passione per la vita acominciare da quella degli altri».
E che bambino era il piccolo Luigi?
«Ero piuttosto esuberante, come emerge anche da certi passi di “L’amore non basta” il libro pubblicato l’anno scorso da Giunti».
Chi sono stati.i suoi maestri?
«Oltre ai miei genitori certamente Padre Michele Pellegrino – così voleva essere
chiamato, al posto di eminenza o eccellenza che miordinò sacerdote e mi affidò come parrocchia la strada, lasciandomi così nelmio ”habitat”, perché la strada avevo cominciato a viverla già nella prima gioventù, a metà degli anni ’60, nelle periferie di Torino. Poi maestri mi sono stati tanti “poveri cristi” incontrati lungo la strada, che mi hanno dato la forza e le motivazioni per non desistere, per proseguire. Paradossalmente, si potrebbe dire che è dentro, non fuori dalla “selva oscura” dantesca, che ho trovatola “retta via”. Per me la rettitudine è stata la fedeltà alla strada».
Le minacce, la scorta, l’impossibilità di qualche momento in tranquillità: non ha momenti.di stanchezza, difrustrazione? Non la assale la tentazione dìlascìare tutto per una «meritata pensione»?
«Momenti di stanchezza comprensibilmente sì, di frustrazione no. La frustrazione nasce quando si è troppo centrati in se stessi, e contingenze della vita o limiti propri ignorati impediscono di realizzare un’aspirazione o un desiderio. Ma i miei obiettivi non sono mai stati personali».
Quali sono stati?
«Sempre mi sono sentito, nel mio piccolo, ho cercato di contribuire: la dignità e la libertà delle persone. Un impegno difficile, oneroso, ma che restituisce con gli interessi tutte le fatiche perché fa sentire vivi. Occuparsi degli altri non è un merito ma un privilegio.Io mi ritengo un privilegiato perché ho avuto e continuo ad avere una vita intensa, viva, perché immersa in quella degli altri».
Ha avuto paura?
«Leintimidazioni mi hanno provocato turbamento e preoccupazione, com’è normale che sia. A maggior ragione quando l’ordine di uccidermi è venuto dal vertice della “cupola”, come è stato con Totò Riìna. Ciò detto, ho sempre tirato dritto».
Come è riuscito?
«Sulla base di due considerazioni. La prima: le minacce sono il segno che il nostro impegno dà fastidio, tocca punti nevralgici. La seconda riguardali “noi”. Non sono solo: a condividere il mio impegno sono tante persone. E una persona la puoi fermare, un movimento d’impegno, di idee, di speranze no».
Com’è il suo rapporto con Torino?
Torino è la città che mi ha adottato. Un legame ormai profondo, solido, perché ci arrivai da bambino dall’amato Cadore. Una relazione non sempre facile, soprattutto all’inizio, ma sempre vera, intensa. Torino passa per città austera, “distante”: mi permetto di dire che è uno stereotipo, un luogo comune.Dietro una facciata impassibile, Torino nasconde oasi di umanità e tenerezza. Non è un caso che sia la città che ha visto nascere, già nell’Ottocento, l’impegno che lega carità e giustizia. Mi riferisco ai “santi sociali”, ovviamente, ai quali, beninteso, non ho l’ardire di paragonarmi. A Torino ci sono tante realtà generose, attente alle forme di povertà e d’isolamento, alla fragilità umana: penso ad esempio al Sermig, a Casa Oz, alla Fondazione Paideia, a tante cooperative sociali. Ci sono anche persone economicamentemolto solide che non hanno perduto la capacità empatica, la visione sociale, il desiderio di condividere».
Per che cosa si arrabbia?
«Per le ingiustizie, per i giudizi e i pregiudizi, frutti velenosi di vuoti di conoscenza e di vita. Per la politica usata come strnmento di potere e non di servizio. Per l’indifferenza al bene comune di chi pensa che l”‘io” e il “noi” siano antagonisti e vive come un parassita del “noi”, un ladro di opportunità e disperanze».
Quali sono le gioie più grandi della sua vita?
«Vedere rinascere o rigenerarsi le vite degli altri. Una persona ritrovare la speranza, la fiducia, la dignità. La gioia è un bene che tocca il suo apice quando viene condivisa».
Nel lontano 1965 ha creato il Gruppo Abele: che cos’è oggi?
«Una realtà con 55 anni di storia che, come dal primo giorno, cerca di saldare accoglienza e cultura. Senza smettere d’interrogarsi, di mettersi in discussione. Ma anche una realtà che fatica e a volte arranca, perché nella società del profitto l’attività sociale viene declassata a faccenda di idealisti o sognatori e considerata perciò più un costo che un investimento, sganciata com’è dalle logiche economico-produttive».
Trent’anni dopo ha fondato Libera, «Associazioni, nomi e numeri contro le mafie»: qual è la missione in questa epoca storica così confusa e sospesa?
«E la stessa del Gruppo: diffondere un impegno che trasmetta o risvegli il “virus” benefico della consapevolezza».
Di che cosa?
«La necessità di un cambiamento radicale di sistema, o, come dice PapaFrancesco, di paradigma. Un paradigma “tecnocratico” ha prodotto ingiustizie e diseguaglianze sociali intollerabili e distrutto il pianeta. È appurato che questo virus non sia nato dal nulla ma in seguito a violenze inflitte all’ecosistema, ai suoi vitali e delicatissimi equilibri. È una risposta della natura all’azione scelleratamente aggressiva dell’uomo».
Quali sono oggi i pericoli che derivano dalle mafie?
«Da sempre approfittano dei momenti di crisi e oggi sono più che mai operative, in virtù di una enorme disponibilità di denaro, per estendere la già diffusa presenza nel tessuto economico e quindi la loro azione di parassiti del bene comune. Azione che avviene in gran parte sottotraccia, senza spargimenti di sangue, usando il denaro come arma. Ecco perchéilpiùgrandepericolo oggi è la normalizzazione del fenomeno mafioso, l’idea che, siccome i fatti di sangue sono pressoché scomparsi dalle cronache, le mafie si sono indebolite o persino sparite. E quella che tecnicamente, nel linguaggio della psicanalisi, si chiama rimozione: quando qualcosa ci angoscia o ci richiama alle nostre responsabilità la si espelle dal nostro orizzonte psichico e si continua a vivere come se non ci fosse».
Di che cosa ha bisogno la Chiesa?
«Di Vangelo perché è il Vangelo a definire da sempre il suo orizzonte non solo spirituale ma umano, sociale, etico. La Chiesa è forte, credibile, quando esprime una fede capace di farsi impegno per costruire qui e ora un frammento del Regno, operando nella storia perché diventi spazio di speranza e di giustizia. Ma questa è proprio la Chiesa che auspica e per cui s’impegna Papa Francesco. Un Papa straordinario, che dal primo giorno ha parlato di “Chiesa in uscita” e di “Chiesa povera peri poveri”. Un Pontefice che non si limita a predicare il Vangelo perché lo vive. Vedo che nella nostra Chiesa torinese questo messaggio si rispecchia fedelmente: c’è un’attenzione concreta agli ultimi, ai poveri accolti dall’Arcivescovo Nosiglia dentro il palazzo vescovile, ai lavoratori che rischiano il licenziamento, alle famiglie provate dalla crisi».
Che cosa significa nel 2021 celebrare il 25 prile? A parte il Covid, contro chi o che cosa dobbiamo “resistere”? E come “liberarci” oggi?
«Dalle premesse morali e materiali che hanno permesso il Covid che, come detto, non è una fatalità ma un male scaturito da mali pregressi: l’indifferenza e la neutralità; l’egoismo e la sete d ipotere; il divorzio tra la libertà e la responsabilità; la connivenza con le mafie e altri parassiti; la mercificazione e quantificazione della vita sulla base del profitto; la devastazione della Terra nostra nutrice; una mentalità che ha distrutto l’idea di società e, prima ancora, di comunità. È una liberazione lunga quella che ci aspetta, perché implica una profonda trasformazione strutturale, un Nuovo Umanesimo che riconduca l’uomo al suo ·compito di strumento di vita e non di morte».-