La lunga crisi del matrimonio, di Roberto Volpi
Nel 1973 in Italia si celebrarono 7,6 nozze ogni mille abitanti, adesso siamo a 3,1. In cifra assoluta siamo scesi da 418 mila a 184 mila. E’ crollato il rito religioso, ridotto a una percentuale minoritaria, ma quello civile non è decollato.
Matrimoni nel 2019:184.088; 11.690 meno di un anno prima, un tonfo cha il suono di una campana a ·morto. Nei fenomeni con una valenza demografica l’Italia passa da un tracollo all’altro. Diversamente da quello, delle nascite, però; quello dei matrimoni, per quanto ben più accentuato, non ha sollevato clamori. Altro segno del fatto che non ha mai goduto di una così scarsa considerazione.
Si deve porre attenzione alle date, per capire com’è cominciata la lunga, infinita decadenza del matrimonio in Italia. Per semplificare il discorso si usa farla iniziare dall’introduzione, nel 1970, ·della legislazione sul divorzìo. Ma si tratta di semplificazioni, appunto, perché ancora nel· 1973, dopo che tale legislazione ha tre anni pieni di vita, l’indice di nuzialità, lungi dall’arretrare, con 7,6 matrimoni annui ogni mille abitanti, sopravanza i 7,3 del 1970.
Sempre nel 1973 si celebrano in Italia oltre 418 mila matrimoni con quello de 1972 il numero di matrimoni più alto · di sempre. Che scendono a meno di 374 mila appena due anni dopo, nel 1975. La frana si è messa in moto e comincia a precipitare a valle. Che cosa c’è stato dunque tra il 1973 e il 1975 di tanto forte da “costare” la perdita di 45 mila matrimoni in ·due anni? C’è stato il referendum del ·1974. La crisi del matrimonio sarebbe sopravvenuta ugualmente, è fuori discussione. Ma chissà se così repentinamente e di queste proporzioni. Chissà se sarebbe diventata decadenza. E’ la battaglia politico-culturale del referendum, con la vittoria per 6o a 40 di quanti si opponevano alla cancellazione dell’appena nata legislazione sul divorzio, a fare da vero spartiacque tra un prima e un dopo nella storia del matrimonio in Italia.
Nessun Paese è passato attraverso una prova così combattuta e aspra per inscrivere il divorzio nel novero dei diritti civili.
Quella battaglia non ha semplicemente difeso il divorzio; perché per farlo ha dovuto giocoforza assestare un colpo micidiale al significato, al valore e si dica pure al “mito” del matrimonio in Italia. Il matrimonio perde ad un tratto quell’aura di sacralità che l’ammantava per venire sbalzato, senza paracadute, nell’arena di una laicità che proprio attraverso quella prova acquista piena coscienza di sè.
Se questa può sembrare una lettura azzardata, si consideri che ancora nel 1970, anno del divorzio, si erano celebrati in chiesa, davanti all’altare e al prete, e dunque in modo sacramentale, 98 matrimoni su 100. Nessuno obbligava gli italiani a sposarsi in chiesa, con rito religioso. Ma nell’Italia del più grande partito comunista d’Occidente e ancora sul finire dei pur rivoluzionari anni Sessanta, tutti si sposavano in chiesa. Anzi, meglio ancora: tutti si sposavano in chiesa in età giovanili.
Questa era la realtà al di là di ogni giudizio di valore; una realtà che dopo non già il divorzio, ma la prova referendaria per confermarlo, vira bruscamente. Negli anni 1974 e 1975 non solo flette la nuzialità ma si registra il primo serio arretramento nella storia del Paese dei matrimoni religiosi, che da 98 scendono a rappresentare neppure 92 matrimoni su 100. Ancora moltissimi, certo, ma si tenga conto che la proporzione dei matrimoni religiosi era risultata fino ad allora a tal punto anelastica da oscillare, dagli inizi del secolo, entro il ridottissimo range di 97-99 matrimoni religiosi ogni 100 matrimoni celebrati. Un autentico monopolio. Che comincia a sgretolarsi proprio a partire dal 1974. Uno sgretolarsi che porterà, cedimento dopo cedimento, il matrimonio religioso a scendere sotto il matrimonio civile nel 2018, quando di 195.778 matrimoni quelli celebrati conrito religioso sono 97.596: il 49,9%.
La decadenza del matrimonio si compone di due aspetti: 1) il crollo del matrimonio religoso; 2) la mediocre riuscita di quello civile. Ora, mentre sul primo c’è identità di vedute, sul secondo no. Del secondo, visto considerato oltretutto che con il 2019 la forbice tra matrimoni celebrati con rito civile e matrimoni celebrati con rito religioso si è alquanto allargata (52,6 contro 47,4%), si trova frequentemente sottolineato il presunto successo. Ma, a parte il fatto che nel 2019 anche i matrimoni civili hanno subito un arretramento, c’è da considerare che dagli inizi degli anni Settanta i matrimoni religiosi sono crollati di oltre 300 mila all’anno, mentre i matrimoni civili sono aumentati di 65 mila. Insomma, il matrimonio civile raccatta le briciole del crollo del matrimonio religioso. Briciole che diventano ancora più minute se si considera che i 300 mila matrimoni religiosi persi sono tutti celibi e nubili, mentre nell’aumento di 65 mila matrimoni civili 25 mila almeno sono divorziati e, molto in subordine, di vedovi. Ed ecco allora quel che dicono i calcoli: di 300 mila matrimoni annui di celibi e nubili persi dal matrimonio religioso il matrimonio civile non ne recupera più di 40 mila. Pochi, molto pochi. Concludendo: il matrimonio civile sta a sua volta dimostrando un ben scarso appeal sui celibi e i nubili, che hanno smesso di sposarsi in chiesa senza però scegliere di farlo in Comune. Del resto, se il matrimonio civile avesse successo l’Italia non si troverebbe con l’indice di nuzialità più basso d’Europa.
Nella decadenza del matrimonio due sono i punti di crisi, oltre quello rappresentato dal matrimonio religioso: il Centro Nord e la grandi città. Nel Centro Nord l’indice di nuzialità – che è, ricordiamolo, di 3,1 a livello nazionale – non arriva a 2,8 matrimoni annui ogni milla abitanti, valore che sfiora i 3,7 matrimoni annui nel Mezzogiorno. La divaricazione massima è tra la Lombardia, con 2,6 e la Campania, con 4 matrimoni annui ogni mille abitanti. La gravità della condizione del matrimonio in Italia si ricava dalla constatazione che neppure la Campania ha un indice di nuzialità che avvicina quello medio dell’Unione Europea, largamente sopra i 4 matrimoni per mille abitanti, cosicchè si può dire che anche in quel Sud ritenuto, ormai a torto, ‘facile’ alle nozze i matrimonio ha perso buona parte del ruolo e del prestigio sociale.
Spostando il fuoco sulle venti più grandi città italiane – 14 delle quali nel Centro – Nord – per il matrimonio la notte si fa ancora più fonda. Complessivamente in queste venti città la nuzialità scende ad appena 2,6 matrimoni annui per mille abitanti (lo stesso valore della regione, la Lombardia, con la più bassa natalitità) con punte sotto il 2 a Torino, attorno a 2 a Parma e Prato e di poco superirori a 2 matrimoni annui per mille abitanti a Milano e Genova.
Nelle grandi città del Centro – Nord a ‘fissare’ indici di nuzialità al confine con l’inconsistenza è quasi la scomparsa del matrimonio religioso, la cui almeno relativa resistenza è invece alla base della maggiore tenuta del matrimonio nel Mezzogiorno. E se nel complesso delle venti più grandi città si celebra con rito religioso la ‘miseria’ di un matrimonio all’anno ogni mille abitanti, in quelle del Nord il valore scende addirittura a 0,6. Per meglio dare l’idea: in una cittadina di 10 mila abitanti questo valore equivale a 6 matrimoni religiosi all’anno, uno ogni due mesi. In quella stessa cittadina prima del 1974 erano mediamente 6 i matrimoni celebrati mensilmente.
Più in generale, nel Centro – Nord di tre matrimoni solo uno è celebrato con rito religioso. Proporzione esattamente rovesciata nel Mezzogiorno, di di tre solo un matrimonio è celebrato con rito civile. Ma quasi i due terzi della popolazione italiana abitano dove il matrimonio religioso è già una rarità, cosicchè il suo futuro appare ancora più fosco. E in questi formidabili squilibri che sono sì territoriali, ma un tempo anche socio economici e culturali, c’è materia a profusione per una riflessione della stessa Chiesa cattolica, che pure al matrimonio e alla famiglia ha dedicato sinodi senza, a giudicare dai risultati, trovare il bandolo della matassa. Riflessione che potrebbe utilmente prendere le mosse dal dato dell’età media degli italiani al primo matrimonio, che nel Centro – Nord sfiora i 37 anni per gli uomini e i 34 anni per le donne, mentre nel Mezzogiorno è di quasi due anni e mezzo più basso. Valori tanto elevati per il matrimonio di celibi e nubili implicano l’agire nella società italiana di fattori fortissimi avversi al matrimonio. Ora, non è male avere presente che, quale che sia il giudizio sul matrimonio, non c’è speranza di risollevare la natalità, se lo si lascia soffocare da questi fattori.
Da LA LETTURA dei Il corriere della sera, 3 maggio 2021