NUORO, Corte d’Assise, in 40 anni lo specchio di un’epoca, di Luca Urgu
L’istituzione nuorese tra omicidi, faide e sequestri di persona. In continuo dialogo con la comunità.
Ha quasi 40 anni di vita.E in otto lustri ha visto celebrarsi 114 processi, migliaia di udienze e infliggere pene lunghe, compreso qualche ergastolo. È la Corte d’Assise di Nuoro, istituita nel 1982 ed entrata in funzione l’anno successivo. Per punire – codice alla mano – delitti gravi ed efferati come gli omicidi, i sequestri di persona, e la catena dei delitti legati alle faide.
La Corte d’Assise di Nuoro ha colmato un vuoto nella amministrazione della giustizia nella Sardegna centrale, perché fino a quella data esistevano solo le Corti d’Assise di Cagliari e di Sassari.
La legge era stata voluta dal Parlamento per «… avvicinare l’amministrazione della giustizia, per gli affari penali di maggiore rilievo, ai bisogni delle popolazioni, nelle aree nelle quali la criminalità tradizionale si esprime in modi più diretti», come si legge nella relazione allegata alla proposta di legge del 1981, ma anche per considerazioni di carattere meramente statistico, ovvero per il fatto che quasi la metà dei processi celebrati dalla Corte d’assise di Sassari proveniva dal circondario di Nuoro (negli ultimi cinque anni precedenti al 1981 ben 45 procedimenti su 97).
Si deve certamente anche alla pressione dei parlamentari sardi e nuoresi in particolare l’istituzione della la Corte, non un vezzo ma una necessità. E in effetti, in quegli anni la complessa e preoccupante situazione sul fronte della criminalità nel Nuorese (Ogliastra inclusa) fece andare subito a regime quest’organo giudicante composto da un Presidente (magistrato di Corte d’Appello), da un “giudice a latere” (magistrato di Tribunale) e da sei giudici popolari (uno dei pochi casi in cui entra il popolo nell’amministrazione della giustizia).
Basta esaminare l’attività di quegli anni per tanti versi “bui” per capire quale fosse la situazione non solo per il numero dei processi in calendario (nel 1983 al primo anno di funzionamento della Corte con il presidente Francesco Pittalis sono due i procedimenti trattati, nel 1984 crescono subito a dieci, e nel 1985 a tredici) ma anche per lo spessore criminale dei protagonisti e per l’efferatezza dei delitti.
Nuoro poi in quel periodo, come se non avesse già del suo, ovvero un proprio patrimonio e un dna legati alla criminalità tradizionale – dagli omicidi, alle faide e ai sequestri di persona – diventa, grazie (si fa per dire) al carcere di massima sicurezza di Badu’ e Carros, l’epicentro del gotha della criminalità organizzata (camorra napoletana e mafia siciliana in particolare) e dell’eversione politica nazionale con molti nomi di primo piano delle Brigate rosse che passeranno non proprio inosservati nel penitenziario di massima sicurezza che l’allora procuratore Francesco Marcello definiva «il braciere sempre acceso».
A Badu’ e Carros il mix di popolazione carceraria detenuta era davvero ad alta combustione. Le tensioni potenti e sanguinose non tardarono a deflagrare dando vita ad episodi ad alto contenuto di violenza. I processi per i fatti più eclatanti approdarono per competenza territoriale verso l’appena istituita Corte d’assise, ed ebbero un’eco nazionale dato il calibro dei personaggi coinvolti. Tra questi episodi va sicuramente ricordato il delitto compiuto dal killer agli ordini del capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo (scomparso qualche giorno fa) Pasquale Barra (detto ‘o animale) che uccise il 17 agosto del 1981, nel cortile del carcere assieme a dei complici, il boss mafioso milanese Francis Turatello. Un omicidio di una crudeltà inaudita per le modalità (centinaia le coltellate che colpirono la vittima tenuto fermo dai complici di Barra) e soprattutto per il messaggio che nei rapporti di forza doveva arrivare ai nemici della Nuova Camorra Organizzata.
Tutti aspetti di quell’omicidio che chiarì il processo celebrato a Nuoro nel 1986 davanti ai giudici della Corte d’assise (Barra insieme ad altri 20 imputati). E la cui sentenza, con una raffica di condanne, mise nero su bianco su quei fatti tragici di ormai 35 anni fa.
Il sangue scorre a fiumi nelle migliaia di pagina delle sentenze della Corte d’assise che giudica su omicidi di paese, dove la violenza non sempre mette la parola fine a vecchi rancori o a offese pagate con la morte anche per futili motivi. Ci sono vicende che nella loro tragicità riguardano intere comunità come le faide di centri divisi e riappacificati solo dopo tanti anni dopo una lunga scia di lutti e di croci. I casi di Mamoiada, Orune, Benetutti e Oniferi, comunità devastate dalla spirale di odio e violenza che tra la metà degli anni Ottanta fino in alcuni casi alla fine del decennio successivo lasciano una scia di morte, di sospetti, di rancori e un clima sociale ed economico e di convivenza civile da ricostruire faticosamente.
Dalle faide all’eversione nazionale con le Brigate Rosse e quella di stampo indipendentista con l’emergere sulla scena criminale del Mas (movimento armato sardo) che sembra mischiare le carte più che assumere la patente di un movimento politico che sfida lo Stato. Si cerca di ammantare con l’ideologia l’attività criminale (sequestri di persona, rapine ed altro) quando in realtà il movente è sempre il vil denaro, che fagocita l’idealismo sempre più di facciata.
Processi in un’epoca ancora non digitale molto seguiti anche dalla gente con la folla che raggiungeva il tribunale per le udienze. Dibattimenti dove hanno mostrato tutto il loro valore autentici principi del foro come gli avvocati della scuola nuorese Antonio Busia, Giannino Guiso, (non più in vita), Gianni Sannio e Mario Lai, ma anche il cagliaritano Luigi Concas e il sassarese Franco Luigi Satta. Questo terribile trend di delitti inizia a subire un decremento alla metà degli anni Novanta, quando anche il numero delle sentenze della Corte diminuisce (nel 1994 le decisioni sono sette, nel 1995 due, nel 1996 quattro, 3 nel 1997, 2 nel 1998 e nei due anni successivi), tanto che nel biennio 2002 – 2003 non si celebra alcun processo.
Procedimenti che poi riprendono a cadenza regolare nelle stagioni successive raramente più di due all’anno (l’eccezione è di tre nel 2018). Tra fatti vecchi e datate modalità che ogni tanto riemergono dalle ombre del passato e altri nuovi, si avverte il timbro di una criminalità che cambia e si adegua ai tempi. La droga diventa anche in Sardegna il vero business che sgretola anche i codici apparentemente consolidati. I nuovi orrori che omologano questo territorio a realtà malavitose della Penisola prendono il nome sempre più mediatico del femminicidio con dinamiche simili a quelle metropolitane di Milano, di Roma o della provincia italiana: da Voghera a Monopoli. Negli ultimi quindici anni sono stati diversi i delitti di questo tipo che hanno visto come vittima la donna in quanto moglie e compagna, uccisa per gelosia, rancore o altro. Solo un paio di questi casi sono approdati in Corte d’assise (Gianfranco Cherubini nel 2004 e Francesco Rocca nel 2018), altri si sono conclusi nell’udienza preliminare senza passare per il dibattimento con il rito abbreviato scelto dai difensori degli imputati.
Quest’anno i processi in calendario sono due: il primo per il sequestro lampo del bancario di Orosei e di sua moglie, fatti di 13 anni fa mentre l’altro riguarda un presunto giro di sfruttamento della prostituzione con tre imputati a giudizio.
«A distanza di quasi quarant’anni dalla istituzione della Corte d’assise, è possibile verificare ancora oggi non soltanto il forte legame esistente con il territorio e la comunità (in virtù, fra l’altro, della democraticità che caratterizza la composizione dell’organo giurisdizionale), ma anche l’importanza dell’attività continuativamente svolta dalla Corte per valutare “il fatto umano”, anche gravissimo, non soltanto con il rigore tecnico e con la tutela incondizionata dei diritti degli imputati in un processo regolato dalla legge, ma con la cura e con l’attenzione proprie della società civile, prima ragione del legame necessario tra la giustizia e il popolo.
In questo modo forse contribuendo a far superare antiche diffidenze verso una giustizia talvolta vista e vissuta come un fattore estraneo e imposto dall’esterno, e a farla invece apprezzare come un importante doveroso contributo allo sviluppo culturale, sociale e economico della popolazione e del territorio», ha detto il giudice Vincenzo Amato, dal 2015 presidente del Tribunale di Nuoro. Cagliaritano, fine giurista, è arrivato in Barbagia non con la mentalità a volte un po’ troppo intrisa di pregiudizi dei suoi colleghi del capo di sotto ma con un interesse anche extraprofessionale per un territorio che non ha bisogno di facili e superficiali letture.
La Nuova Sardegna, 25 aprile 2021