Il Partito Sardo d’Azione e il combattentismo nazionale, di Antonello Angioni
L’Autore ha svolto la relazione al convegno dello scorso aprile, pubblicata anche nel periodico EXCALIBUR, organo del l’Associazione Culturale Vico San Lucifero in Cagliari. (Nella foto: i giovani sardi prima che indossassero la divisa militare).
Ringrazio l’Associazione Nazionale Volontari di Guerra e l’Associazione Culturale Vico San Lucifero per aver promosso questo interessante convegno, la cui intitolazione è assai ampia: infatti, non limita il focus alle tematiche riguardanti la Brigata Sassari, il combattentismo e il Partito Sardo d’Azione, ma contiene un inciso “I Sardi e le guerre nazionali” che meriterebbe un convegno a parte.
Al riguardo, quando ho ricevuto la locandina dall’infaticabile Angelo Abis, non ho potuto fare a meno di pensare al libro di Medardo Riccio dal titolo “Il valore dei Sardi in guerra”, il cui primo volume venne pubblicato a Milano nel 1917, dalla Casa Editrice Risorgimento, quando le operazioni militari erano in pieno svolgimento. Preciso che la bella copertina del libro è disegnata da Melkiorre Melis, l’artista autore anche del bozzetto della prima tessera del PSd’Az.
Riccio richiama la tenace abitudine dei Sardi, dimostrata per tanti secoli, nell’esercizio delle armi e il forte sentimento d’indipendenza celebrati, con la sua formidabile eloquenza, anche da Giosuè Carducci. Del resto, le qualità guerriere dei sardi erano state immortalate anche nei canti di Sebastiano Satta che ne richiama il “buon sangue antico”.
Ma – come ho detto – tutto ciò meriterebbe un convegno a parte. E io, fedele a questa premessa, parlerò solo di combattentismo e sardismo limitando quindi il mio intervento ad una tematica e ad un arco temporale assai circoscritti. Parto quindi da un inquadramento della situazione che si presenta in Italia alla fine della grande guerra che, con le sue immani distruzioni, aveva accentuato i limiti presenti nel vecchio Stato liberale e portato alla luce tutte le sue contraddizioni.
È una situazione davvero esplosiva: nella società postbellica si deve dare un ruolo agli operai e ai contadini che rientrano dal fronte, si deve creare un nuovo ordine. In questo contesto, alle classi dirigenti di formazione giolittiana, risulta da subito evidente che non è più possibile governare secondo i vecchi schemi. Ma gli stessi non sono neppure in grado di elaborare strategie diverse, per dare risposte adeguate alle criticità esistenti. La guerra aveva portato al pettine il groviglio di nodi presenti nella società italiana ma la classe dirigente non riusciva a districarli. Peraltro neppure la classe operaia, diciamo l’opposizione per semplificare, aveva la capacità di sciogliere l’intricata matassa. Questo in Italia.
La situazione non si presenta in modo diverso in Sardegna, dove il vecchio Cocco Ortu non è più in grado di offrire una soluzione ai conflitti sociali generati dalla massa di contadini e pastori che rientra dalla trincea assetata di terra e di giustizia. E dove neppure Angelo Corsi, il nuovo leader socialista, riesce a convogliare le richieste di operai e lavoratori delle campagne in una piattaforma di lotta aggregante. Dallo scontro sociale e politico in atto doveva emergere una classe dirigente nuova la cui ossatura è data da intellettuali e proprietari terrieri che avevano combattuto in trincea, soprattutto nella Brigata Sassari.
In questo contesto, ha origine un vasto movimento, di comune radice “combattentistica” ma assai variegato al suo interno, che auspica un nuovo assetto dello Stato italiano e si pone in aperta lotta contro le idee del socialismo e la prassi del movimento operaio.
Anche in Sardegna, come nel resto d’Italia, si sviluppò il movimento dei reduci e dei combattenti, ma con una particolarità in quanto lo stesso ebbe la forza di promuovere un’azione autonoma e consapevole finalizzata al riscatto economico e sociale dell’Isola. Il movimento diede ben presto origine ad un gruppo dirigente nuovo (di cui facevano parte Bellieni, Lussu, Giacobbe, Mastino, Oggiano, Pilia, Puggioni, De Lisi, Senes, Mameli, Pili e Putzolu) che elaborò, e propose sul terreno concreto dell’iniziativa politica, una soluzione al problema di ristabilire un equilibrio sociale ed economico in Sardegna.
Il movimento dei combattenti nasce in Sardegna, e precisamente a Sassari, il 21 novembre 1918, su iniziativa di Camillo Bellieni e Arnaldo Satta-Branca: all’inizio è un’associazione circoscritta ai soli reduci e mutilati dalla trincea che, tra l’altro, si proponeva scopi puramente assistenziali per la categoria. Il 16 marzo 1919, ad opera di Bellieni, inizia le pubblicazioni “La Voce” e lo stesso diventa il punto di riferimento dell’intero schieramento formato da ex combattenti, mutilati e invalidi di guerra. É lui il teorico dell’autonomia regionale, sia nell’organizzazione combattentistica che nel Partito Sardo d’Azione prefascista. Ma ben presto – come avremo modo di vedere – sarà Emilio Lussu a diventare il vero arbitro delle scelte di fondo del nuovo partito.
Va anche detto che quando, il 25 maggio 1919, Bellieni svolgeva a Nuoro la sua appassionata relazione al primo Congresso Regionale della Federazione Sarda dell’Associazione Nazionale Combattenti, il termine “federalismo” non era ancora presente nelle enunciazioni programmatiche del movimento. Vi era invece la rivendicazione di autonomia, sia pure in termini assai vaghi e riduttivi. In ogni caso, grazie al movimento dei combattenti e reduci della prima guerra mondiale, la questione del rapporto tra la Sardegna e lo Stato Italiano, per la prima volta, entrava a far parte della coscienza popolare. Anche nel secondo Congresso Regionale dei Combattenti (svolto a Macomer il 14 settembre 1919) il tema del “federalismo” non veniva neppure sfiorato mentre veniva meglio precisato il concetto di autonomia.
Dalle consultazioni politiche del 16 novembre 1919, nella lista dei combattenti (contrassegnata col simbolo dell’elmetto) risultarono eletti l’avvocato Pietro Mastino, uomo di vaste clientele e principe del foro barbaricino, il professor Mauro Angioni, docente di diritto penale di provata fede monarchica, e il professor Paolo Orano, ex socialista, massone, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi oltre che collaboratore del giornale “Il Popolo d’Italia” di Mussolini: la sua candidatura era stata voluta dal gruppo del “Popolo Sardo” che ruotava intorno all’avvocato Egidio Pilia. Va detto che nessuno dei tre eletti era ex combattente come pure nessuno, per tradizioni familiari e formazione culturale, poteva considerarsi espressione del movimento dei contadini e dei pastori sardi.
A distanza di un secolo, permane l’esigenza di approfondire il fenomeno del combattentismo. Al riguardo, va detto che il movimento fiumano e il movimento dei combattenti sardi sono due esperienze molto vicine dal punto di vista ideologico. Nell’ottobre del 1920 Alceste De Ambris, capo di gabinetto nel governo della città di Fiume, inviò a Emilio Lussu una lettera – che venne pubblicata, il 12 dicembre dello stesso anno, sulla rivista “Il Solco” – con la quale veniva posta in evidenza la stretta affinità tra la “Carta del Carnaro” (vale a dire la nuova costituzione della città indipendente di Fiume), del settembre 1920, e il programma, di matrice sindacalista rivoluzionaria, firmato da Lussu e presentato da Lionello De Lisi l’8-9 agosto 1920 al terzo Congresso dei combattenti sardi svolto a Macomer. In particolare, De Ambris rilevava con piacere come nei due documenti punti fondamentali fossero trattati quasi allo stesso modo.
Secondo De Ambris, la “Carta del Carnaro” esprimeva le stesse esigenze presenti nel programma di Macomer al punto che affermò: «Se avessimo conferito prima fra noi difficilmente avremmo potuto arrivare a una concordanza più perfetta. La concezione dello Stato e del divenire sociale affermata nella Costituzione [vale a dire nel “Programma di Macomer”] è la stessa concezione nostra». É da tener presente che il “Programma di Macomer” esprimeva – inter alia – il seguente concetto: «questo programma trae fondamento dalla necessità oggi sentita in Italia di creare un partito rivoluzionario che, pur mirando a risolvere soprattutto i grandi problemi sociali e a sollevare le condizioni del proletariato, mantenga alte le idealità di patria, superiori ad ogni interesse di classe e di categoria».
A conferma della comune matrice “eversiva” che avevano molti dei movimenti di quegli anni, lo storico Girolamo Sotgiu ha osservato come fosse significativo il fatto che D’Annunzio avesse definito il “Programma di Macomer” (approvato dal Movimento dei combattenti sardi l’8 agosto 1920) un monumento di sapienza sociale e che la Reggenza del Carnaro inviò a Lussu la lettera di cui si è detto, a firma del capo di gabinetto De Ambris, nella quale si affermava che la Reggenza ne approvava «tutte le idee generali ed i postulati pratici […] perché rispondono perfettamente al concetto nostro sull’azione da svolgere nel campo sociale e politico per la salvezza dell’Italia e per l’instaurazione di un ordine nuovo rispondente alla necessità dell’ora storica».
Nel complesso il “Programma di Macomer”, elaborato da Lionello De Lisi, esprime la filosofia del combattentismo sardo (che poi ritroviamo nel Partito Sardo d’Azione) e conferma l’incertezza ideologica del movimento pur risultando evidente l’influsso delle istanze sindacaliste rivoluzionarie. Non vi è dubbio che l’esperienza delle trincee e la rivendicazione dei diritti della Sardegna siano legate da un filo diretto che costituisce la colonna portante, prima, del Movimento dei combattenti e, poi, del Partito Sardo. Erano soprattutto gli “intrepidi sardi” che avevano combattuto nella Brigata Sassari ad animare il dibattito che, ben presto (nel 1921), avrebbe dato vita ad una nuova formazione politica, il Partito Sardo d’Azione, in grado di indicare la strada per costruire una diversa organizzazione della vita economica, sociale e politica in chiave autonomista.
Il terzo Congresso Regionale dei Combattenti (agosto 1920) era destinato a segnare l’apogeo e, al tempo stesso, l’inizio della fase discendente del Movimento che, comunque, nelle successive elezioni del 1921, ottenne un risultato lusinghiero. Da tale congresso scaturirà il “Programma di Macomer” che costituì il momento di riflessione più matura sull’istituto autonomistico. E fu anche la sede in cui, per la prima volta, si parlò di “federalismo” e più precisamente di “Sardegna assolutamente autonoma nello Stato repubblicano a federazione amministrativa”. Ormai si parlava di autonomia regionale con piena potestà anche legislativa. E, soprattutto, l’autonomismo diventava un progetto politico moderno e dava vita a un movimento di massa.
Nel quarto Congresso dei Combattenti, aperto a Oristano il 16 aprile 1921, Bellieni propose quattro punti programmatici da approvare senza riserve: sovranità popolare, autonomia amministrativa, libertà di commercio (o autonomia doganale) e questione sociale. I documenti, considerati in armonia col “Programma di Macomer”, ottennero il voto favorevole.
Il programma politico approvato nel Congresso di fondazione del Partito Sardo d’Azione (Oristano, 16-17 aprile 1921), dopo aver chiarito che «il partito sardo d’azione deve essere partito di popolo, deve ricercare di dare coscienza di sé al proletariato affinché sappia redimersi spiritualmente ed economicamente», afferma che «il P.S.d’A. deve combattere ogni tendenza ideale che si richiami alle tradizioni democratiche, ritenendo ormai superate tutte le concezioni giusnaturalistiche e vuota di contenuto ideale la parola democrazia». Va detto che, a partire dal 1921, il Partito Sardo d’Azione e il movimento dei combattenti si identificavano negli stessi gruppi dirigenti. Forse è questa la ragione per la quale la serie di congressi della Federazione Sarda dell’Associazione Nazionale dei Combattenti si concluderà nel 1922. Il movimento, nella sostanza, era stato assorbito dal Partito Sardo d’Azione.
Occorre considerare che, avendo la nuova legge elettorale introdotto lo scrutinio di lista su base regionale, alle elezioni politiche del 1921, venne presentata una sola lista sorretta dal Partito Sardo d’Azione dove furono eletti ben quattro deputati: oltre i citati Mastino e Orano, ottennero il seggio Umberto Cao e Emilio Lussu (che costituiva la vera novità). Cao dovette l’elezione, oltre che all’attivismo dei nipoti Giovanni e Vitale Cao, alla fama di teorico dell’autonomia regionale dovuta ad un libretto pubblicato nel 1918, in cui la concessione di norme di autogoverno a beneficio dell’Isola veniva presentata come una sorta di ricompensa o indennizzo da parte dello Stato a fronte del sacrificio dei Sardi nelle trincee.
Si è visto che il PSd’Az nasce a Oristano, il 17 aprile 1921, in concomitanza al quarto Congresso della Federazione Sarda dell’Associazione Nazionale Combattenti, inaugurato il giorno prima. La concezione autonomista viene riassunta da Bellieni: conferimento di nuove funzioni alle province in materia di lavori pubblici, commercio e agricoltura; possibilità, attribuita alle stesse, di adattare alle particolari condizioni della regione tutti gli istituti e i provvedimenti sociali dello Stato senza peraltro alterarne le linee fondamentali. Secondo Bellieni l’attività delle province doveva essere «libera da ogni ingerenza e da ogni controllo statale, meno che in materia di legislazione sociale e tributaria».
La caratteristica dell’elaborazione sardista, espressa da Bellieni, risiede nel carattere pragmatico, vale a dire nella ricerca continua e nella verifica costante delle soluzioni, in quanto – egli sostiene – «i partiti vivono non di soluzioni già pronte, ma di problemi in continuo tormento di soluzione». Osservava altresì come: «Autonomia è per noi completo trionfo dello spirito della Sardegna… è fiducia nell’originalità del nostro operare, è conquista del nostro volere creativo». Il richiamo alla creatività poneva in luce la natura antidogmatica della concezione autonomista. Peraltro, come si vede, in tale elaborazione manca ancora il concetto di amministrazione regionale, ben presente invece nel pensiero di Angelo Corsi e di Egidio Pilia.
Il primo Congresso del Partito Sardo d’Azione (1921) aveva evidenziato le varie anime emerse nei precedenti congressi dei combattenti. Da una parte c’era Camillo Bellieni, di solida formazione filosofica e sensibile alle tematiche meridionaliste (grazie anche alla sua amicizia con Salvemini), le cui posizioni avevano notevole seguito tra i sardisti sassaresi e nuoresi. Dall’altra troviamo il gruppo “cagliaritano”, portatore delle istanze del sindacalismo rivoluzionario e influenzato dalle suggestioni di D’Annunzio, che esprimeva le figure di Emilio Lussu, Lionello De Lisi, Egidio Pilia e Paolo Orano.
Nel primo congresso sardista veniva finalmente chiarita la differenza, davvero sostanziale, tra l’autonomia intesa come decentramento amministrativo e l’autonomia come diritto della Sardegna di legiferare per sé stessa. In tale assise si parlò chiaramente di “autogoverno del popolo sardo”, con finanze separate da quelle statali. Per lo Stato si reclamava la trasformazione in Repubblica, da organizzarsi in federazione di regioni autonome. Su tale impostazione, ed in particolare sul concetto di autonomia legislativa, si registra la convergenza delle diverse anime del sardismo.
Vi è poi un documento, invero poco studiato, che risale al 20 settembre 1921 e sancisce il «Patto d’alleanza tra il Partito Sardo d’Azione e il Partito Molisano d’Azione», che contiene affermazioni altrettanto significative. I due partiti, infatti, si proclamano «avversari del socialismo perché non possono tollerare ogni soffocazione della libertà individuale; […] avversari del Partito popolare perché difensori della libertà di coscienza; […] avversari del liberalismo perché vuota formula di inerti rassegnati alle condizioni presenti e celanti sotto questa formula il più cieco conservatorismo; […] avversari al nazionalismo perché incitamento a folli imprese guerresche; […] avversari del repubblicanesimo perché stantìo bolscevismo borghese».
Come si vede, la lotta contro il vecchio stato liberale è condotta, a livello nazionale, unitamente alla lotta contro il socialismo (che è lotta contro il movimento operaio). Del resto, sono ben noti gli scontri avvenuti a Cagliari tra ex combattenti e socialisti. E, a conferma di un orientamento diffuso e profondo, le posizioni antisocialiste assumono forme ancora più esplicite ed esasperate in un articolo di Luigi Battista Puggioni, intitolato I sardi e la rivoluzione, pubblicato su “La Voce” del 18 aprile 1920, nel quale si afferma che, nell’ipotesi in cui nell’Italia dovesse realizzarsi la rivoluzione socialista, la Sardegna non potrebbe che separarsi dal resto del Paese non esistendo in Sardegna le condizioni per il socialismo. Ciò – ad avviso di chi scrive – è il frutto della matrice contadina, sostanzialmente moderata, del Partito Sardo d’Azione.
A questo punto, occorre cercare di dare una giusta collocazione al fenomeno sardismo che, in Sardegna, occupa la scena quando, a livello nazionale, si manifesta il fascismo. Nel primo dopoguerra infatti, in Sardegna, non emerge il fascismo ma il movimento dei combattenti che, in larghissima misura, si identifica col sardismo. Il fascismo diventa nell’Isola il fenomeno centrale solo dopo la “Marcia su Roma” quando, nel 1923, si realizza la fusione tra fascisti e sardisti.
Occorre considerare che, agli inizi degli anni Venti, il nascente fascismo, ben consapevole del valore e del forte radicamento del movimento sardista, cercò in tutti i modi di attuare la fusione tra le due forze politiche. Nonostante una percentuale significativa dei quadri e dei militanti del Partito Sardo d’Azione diede testimonianza della propria opposizione al fascismo, la fusione riguardò buona parte dei quadri sardisti, alcuni dei quali, volendo la rinascita della Sardegna, aderirono al nuovo progetto politico, ricco di fermenti e animato da un’indubbia ansia di rinnovamento sociale, sperando di far accettare allo stesso alcune delle rivendicazioni fondamentali del Partito Sardo d’Azione.
Il “sardofascismo” racchiude un periodo storico della Sardegna contemporanea che identifica gli anni che vanno dal sesto congresso dell’Associazione dei Combattenti, svolto a Nuoro al 28 ottobre 1922, sino alla crisi della segreteria di Paolo Pili nel Partito Nazionale Fascista (13 novembre 1927). Tale periodo ha continuato ad avere riflessi, sul piano culturale, ancora per qualche anno (almeno fino al 1931), attraverso la pubblicazione della rivista “Mediterranea” diretta da Antonio Putzolu. L’asse dell’intervento economico di questo periodo è costituito – oltre che dalla “legge del miliardo” – dai progetti sull’agricoltura, attraverso opere irrigue e bonifiche, e dallo sbocco commerciale dei prodotti delle cooperative agricole e pastorali. In particolare, i produttori di latte e di formaggio si erano associati nella “Federazione delle latterie sociali della Sardegna”.
La “fusione” consentì a diversi transfughi del PSd’Az – i “sardofascisti” – di ottenere posizioni di primo piano nel Partito Nazionale Fascista sardo. É il caso di Paolo Pili (1891-1985), segretario federale di Cagliari dal 1923 al 1927, che promuoverà la nascita di latterie cooperative – da far confluire nella Federazione di cui si è appena detto – allo scopo di consentire ai pastori di liberarsi dalle imposizioni degli industriali caseari e di ottenere un prezzo del latte più vantaggioso (è questa una battaglia ancora oggi di viva attualità). Oltre Pili, la componente di matrice sardista espresse altre personalità di primo livello: ricordiamo Enrico Endrich, Vittorio Tredici, Antonio Putzolu, Vitale e Giovannino Cao di San Marco e Umberto Cao il cui opuscolo Per l’«Autonomia» (che è del maggio 1918) aveva tanto contribuito al rilancio dell’idea autonomista. Essi formeranno, la classe dirigente del Ventennio.
Anche a Sassari si verifica un fenomeno di analoga portata. A Nuoro – elevata a capoluogo di Provincia nel 1927 proprio dal fascismo – la situazione era più complessa in quanto il regime dovette misurarsi con lo zoccolo duro rappresentato da un gruppo di avvocati – tra cui spiccavano i sardisti Pietro Mastino, Giovanni Battista Melis e Luigi Oggiano, il repubblicano Gonario Pinna e il cattolico di formazione sturziana Salvatore Mannironi – che rimarranno sempre “non allineati”.
Attraverso il Partito Sardo d’Azione trovava espressione popolare e sintesi organizzativa la plurisecolare aspirazione dei Sardi di affrancarsi da una condizione di dominio che li aveva impoveriti o comunque aveva determinato uno sviluppo della Sardegna assai minore rispetto ad altre parti del territorio nazionale, accentuandone l’isolamento e la marginalità. Tale denominatore comune, tale esigenza di riscatto e di rinascita, peraltro, si esprimeva in posizioni diverse.
Il blocco storico e sociale intorno al quale ruota il Partito Sardo e che costituisce la base su cui si sviluppa l’elaborazione di Bellieni è rappresentato dalla saldatura tra intellettuali, professionisti borghesi e pastori proprietari di bestiame o di terre (blocco che rispecchiava la composizione socio-economica della parte centro-settentrionale dell’Isola). Nella Sardegna Meridionale invece i sardisti avevano la loro base prevalente tra i contadini e i braccianti agricoli. La convergenza tra le diverse anime si ha nella dottrina economica del sardismo che si rifà all’analisi di Attilio Deffenu (cooperativismo, liberismo economico e antiprotezionismo) ma che, avuto riguardo alle scelte concrete, si connota per un forte pragmatismo. Tra le due correnti del primo sardismo (quella meridionalista e quella sindacalista-rivoluzionaria) si inserisce la nuova corrente dei delegati nuoresi che fa capo agli avvocati Pietro Mastino e Luigi Oggiano.
Il 29 gennaio del 1922 si svolse a Oristano anche il secondo congresso del PSd’Az. In tale sede vennero ribadite e meglio puntualizzate le posizioni sardiste. Fecero seguito, il 28-29 ottobre del 1922, a Nuoro, il terzo congresso e, il 4 marzo del 1923, a Macomer, il quarto congresso. In tale frangente, il partito attraversava una profonda crisi ideologica e programmatica e molti dei suoi iscritti e dirigenti aderivano al fascismo. Il quinto ed ultimo congresso del sardismo prefascista si svolse a Macomer il 27 novembre del 1925. Il fascismo si era ormai assestato e mancavano pochi mesi alla promulgazione delle leggi eccezionali che avrebbero portato allo scioglimento dei partiti di opposizione.
In tale quadro di profonda incertezza, secondo il programma del Partito Sardo d’Azione, il rinnovamento si sarebbe dovuto realizzare su un duplice terreno: quello delle riforme economiche e sociali e quello della riforma dello Stato attraverso la costituzione delle Regioni che, spezzando l’accentramento, avrebbero dovuto porre le basi dell’autogoverno, indispensabile strumento per una crescita civile e democratica. Per quanto concerne la proposta economica del Partito Sardo d’Azione, la stessa si ricollegava principalmente alle elaborazioni del movimento antiprotezionista (Deffenu) che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, avevano avuto – come in altre regioni del Meridione – una certa diffusione. La protesta, orientata in termini positivi, si esprimeva anche nella richiesta, per la Sardegna, dell’istituzione della “zona franca” (questione ancora oggi di stringente attualità).
Nella battaglia per l’autonomia della Sardegna, un posto di particolare rilievo è ricoperto da Egidio Pilia (1888-1938). Strenuo sostenitore dell’autonomia regionale, nel 1921 ipotizzò l’eventualità di separare la Sardegna dal resto dell’Italia qualora la vittoria dei bolscevichi avesse smembrato la penisola italiana in regioni di tipo sovietico. Pilia aderì al movimento dei combattenti ed elaborò l’idea sardista che ne caratterizzerà il pensiero e l’opera. Nel 1921 lo troviamo tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione e poi tra coloro che condivisero il progetto di adesione al Partito Nazionale Fascista dal quale peraltro verrà espulso nel 1926.
Da allora, pur non occupandosi più di politica attiva, Pilia continuò a difendere le proprie idee autonomiste e a pubblicare saggi sulla cultura sarda. Lo stesso prefigurò l’istituzione di un Consiglio Regionale di nomina elettiva, con sede a Cagliari, avente potestà di legiferare su «tutti gli affari riguardanti la pace, l’ordine e il buon governo della Sardegna e con il diritto di controllare le finanze e le imposte sarde»: rivendicazione quest’ultima tuttora attuale. Sostenne inoltre che il sistema dei rapporti fra la Sardegna e l’Italia dovesse essere modificato ma «compatibilmente con l’Unità dello Stato» e «in modo più consono alla natura del nostro popolo e più rispondente ai nostri bisogni»: nessuna apertura al separatismo dunque ma una forte visione autonomista nel solco della tradizione che aveva caratterizzato la storia politica della Sardegna.
Nell’ambito della storia del pensiero autonomista sardo, vanno ricordati anche Giovanni Maria Lei Spano (1872-1935), Luigi Battista Puggioni (1883-1958) e Emilio Lussu (1890-1975). Quest’ultimo affermava che «Lo Stato federale, a democrazia diretta, costituisce un sistema snello e semplice di amministrazione pubblica che mette i cittadini in contatto diretto con organi legislativi ed esecutivi». Lussu, dal canto suo, su “Il Solco”, scriveva che «Non c’è ragione di conservare intatte le strutture centralizzate dallo Stato, che infatti crollano per far posto alle Regioni […] Noi vogliamo che sia solo riservato al Parlamento nazionale lo studio e la discussione dei grandi problemi generali, questioni sociali, di politica estera, di difesa nazionale, i grandi dibattiti di idee e di partito».
L’ideologo politico del Partito Sardo d’Azione, peraltro, era Camillo Bellieni (1863-1976). Originario di Thiesi, fece parte del gruppo che maggiormente si adoperò per la trasformazione del Movimento dei reduci e combattenti in partito, secondo la proposta approvata nel Congresso di Macomer dell’agosto 1920 (il cosiddetto “Programma di Macomer”) e che l’anno successivo diede vita alla nuova formazione politica. Restio a scendere nella “bagarre elettorale”, assunse le più alte responsabilità nel partito. L’elaborazione di Bellieni in materia di autonomismo può dirsi conclusa col quinto Congresso dei Combattenti (quello celebrato a Oristano nel gennaio del 1922) che delinea un’Italia «riordinata su basi federali con la conquista delle autonomie regionali» (sul modello della Svizzera, della Germania e della Gran Bretagna), con la precisazione che gli enti che costituiranno lo Stato federale italiano, si chiameranno «Regioni» e saranno enti amministrativi e legislativi.
Figura centrale nell’ambito del pensiero sardista è quella di Emilio Lussu. Nato ad Armungia, borgo montano del Gerrei, è stato uno dei principali protagonisti della storia dell’Italia del Novecento. Scoppiata la grande guerra, si arruolò volontario entrando a far parte della Brigata Sassari dove acquisì grande reputazione tra i commilitoni per il suo coraggio e per le sue eccezionali capacità di comandare e comprendere gli uomini. Nel dopoguerra fu tra i dirigenti del movimento degli ex combattenti e, dopo il Congresso di Macomer (agosto 1920), tra i fondatori e ideologi del Partito Sardo d’Azione. Nel 1921 fu eletto in Parlamento nella lista dei Quattro Mori. Il “Capitano Lussu”, grazie anche a Camillo Bellieni, divenne presto una figura leggendaria per tutti i Sardi. Si tratta peraltro di un personaggio assai complesso. Ad esempio, generalmente si afferma che di fronte alle offerte del prefetto Gandolfo, che proponeva la confluenza del PSd’Az nel movimento fascista, Lussu ebbe un’iniziale incertezza che potrebbe essere attribuita al pesante carico di responsabilità che qualunque decisione avrebbe comportato. In realtà le cose andarono in modo un po’ diverso.
Durante l’incontro col generale Gandolfo, Lussu espresse, con fermezza e senza riserva alcuna, l’adesione dei sardisti al fascismo formulando anche l’augurio che il Governo volgesse il suo sguardo benevolo verso la Sardegna e che le speranze di progresso economico e sociale non fossero deluse. Va precisato che Lussu non aveva ricevuto un semplice mandato esplorativo ma era munito di pieni poteri. Dopo quel colloquio e il discorso dallo stesso tenuto il 23 febbraio 1923 nel Consiglio Provinciale di Cagliari, ricevette un telegramma da Camillo Bellieni che ne stigmatizzava il comportamento orientato verso una forma di collaborazione tra Partito Nazionale Fascista e PSd’Az. Quindi Lussu, duramente richiamato da Bellieni e Francesco Fancello, si ritirò per diversi mesi ad Armungia. Dopo di che assunse una netta posizione d’intransigenza verso il fascismo che venne condivisa da alcune tra le personalità più autorevoli della dirigenza sardista.
Successivamente, Lussu fu protagonista di una serie di vicende rocambolesche: l’uccisione a Cagliari, il 31 ottobre 1926, di un giovane squadrista che si era arrampicato sino al poggiolo del suo studio di piazza Martiri; il successivo proscioglimento dall’accusa di omicidio; la condanna al confino con destinazione Lipari e l’amicizia con Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti con i quali, nel luglio del 1929, fuggì da Lipari. Quindi, nel settembre del 1929, a Parigi, fu tra i fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”. Ed è proprio durante gli anni dell’esilio che Lussu sviluppò l’elaborazione sui contenuti del federalismo sardista, conducendo la sua battaglia anche dalle colonne del settimanale “Giustizia e Libertà”, organo dell’omonimo movimento politico.
Nel complesso il periodo in questione è caratterizzato, a livello nazionale, da rapidi e profondi cambiamenti. Nell’Isola, grazie al movimento dei combattenti e al Partito Sardo d’Azione si sviluppò un’ampia partecipazione che legò in un progetto politico vaste masse di proletariato rurale e intellettuali delle città. Il movimento sardista si incentrava non solo, e non tanto, sul problema delle riforme economiche e sociali quanto su quello del nuovo rapporto tra la Sardegna e lo Stato Italiano che doveva rinnovarsi attraverso lo strumento della Regione da realizzare col riconoscimento di un’ampia autonomia o, secondo taluni, con la creazione di uno Stato federale: questioni ancora oggi di viva attualità.
Antonello Angioni