Da Casa Savoia a Mussolini,la Sardegna come terra di immigrazione forzata, di Sandro Ruju
In un libro curato da Sandro Ruju (nella foto) i tentativi di riempire i vuoti demografici attuati dai gruppi dirigenti nazionali dal Settecento sino ai poli petrolchimici. Pubblichiamo un estratto – proposto su La Nuova Sardegna del 31 marzo 2021 – dalla prefazione di Sandro Ruju al volume “Migrazioni, colonie agricole e città di fondazione in Sardegna” appena uscito per i tipi di Franco Angeli Editore.
Questo libro ha il merito di affrontare da varie angolazioni i tentativi e le concrete esperienze di immigrazione che nel tempo sono state pensate o attuate in Sardegna: un tema non sempre adeguatamente approfondito dalla storiografia, che più spesso si è soffermata sul problema dell’emigrazione.Nel saggio di apertura Giampaolo Salice mostra come la Sardegna a partire dal Settecento sia stata uno spazio di approdo per maltesi, greci, tabarchini, liguri e corsi, favoriti anche dalla iniziativa, spesso spregiudicata, di veri e propri «imprenditori del popolamento». Il governo sabaudo si ispirò nei suoi interventi alle principali esperienze europee e trovò nell’abate Gemelli un convinto assertore del nesso inscindibile tra popolamento, rinnovamento dell’agricoltura e immissione di coloni provenienti dall’esterno (…). Sui profondi cambiamenti indotti dalla realtà mineraria è incentrato il contributo di Giampaolo Atzei, che esamina gli effetti indotti sulla città di Iglesias dall’arrivo di imprenditori e maestranze negli ultimi decenni dell’Ottocento. Le contrastate dinamiche che caratterizzarono la nascita e la rapida espansione di Carbonia sono invece descritte da Walter Falgio che presenta e analizza un’interessante fonte ancora inedita: la memoria scritta dall’ingegnere Giuseppe Marongiu il quale, nato a Nuoro nel 1895, all’età di 40 anni si trasferì nel Sulcis per seguire e dirigere i lavori di costruzione della nuova città. L’eterogenea manodopera, impegnata prima nella tumultuosa costruzione del centro abitato e poi all’interno dei pozzi minerari, proveniva oltre che da tanti paesi della Sardegna anche da varie regioni italiane. Basandosi anche su una serie di testimonianze orali, Maria Luisa Molinari esamina i problemi che la comunità giuliana (formata inizialmente da circa 400 persone) incontrò nel suo insediamento a Fertilia deciso nell’immediato secondo dopoguerra e spiega le ragioni che portarono all’abbandono dell’originario progetto di creare un centro peschereccio. Agli inizi degli anni Sessanta, mentre chiudevano le miniere dell’Argentiera e di Canaglia, sorgeva il polo petrolchimico di Porto Torres: su questa complessa realtà produttiva e sociale, che diede lavoro ad una variegata maestranza ed anche a un folto gruppo di tecnici continentali, si sofferma il contributo di Flavio Conia, incentrato su due fonti ancora poco esplorate, le relazioni dei prefetti e il fondo della Cassa per il Mezzogiorno, conservate all’Archivio centrale dello Stato. Riflettendo su altre carte conservate nel medesimo archivio, oltre che sugli archivi della Regione sarda da lui già studiati a fondo, Daniele Sanna esamina come nel corso del Novecento sia profondamente mutato il modo con cui i funzionari pubblici hanno percepito la nostra isola (un tempo considerata una sorta di terra di confino). L’intervento statale si concretizzò in Sardegna con l’istituzione di diverse colonie penali agricole, alcune delle quali tuttora funzionanti. Il saggio di Costantino Di Sante ne ricostruisce le origini e mette a confronto questo modello insediativo con quello già messo in atto in Libia a partire dalle metà degli anni Venti. Mentre Stefano Tedde focalizza la sua attenzione sulla realtà di Tramariglio istituita tra il 1938 e il 1940 in base ad un accordo tra l’Ente Ferrarese di colonizzazione e il Ministero di Grazia e Giustizia.Altri contributi affrontano ulteriori vicende connesse ai flussi immigratori verso la Sardegna e alle esperienze di colonizzazione avvenute nel corso del Novecento o soltanto ipotizzate (come nel caso degli abruzzesi di Campotosto su cui si sofferma Erica Luciano).Valeria Deplano analizza le problematiche del rientro in patria degli italiani che si erano insediati in Tunisia agli inizi dell’Ottocento (tra cui molti sardi, toscani, e soprattutto siciliani) quando il governo tunisino, dopo la raggiunta indipendenza, decise di espropriare le terre degli stranieri. E spiega che tra i motivi che portarono alla scelta della Sardegna, oltre alla vicinanza geografica, ci fu la disponibilità di terreni da appoderare a disposizione dell’Etfas, nei territori di Castiadas e di Santa Margherita di Pula, e dell’Ente Flumendosa, a Grogastu, nei pressi di Assemini. Introducendo la sezione conclusiva di questo libro, dedicata al caso significativo di Arborea, Luciano Marrocu delinea il ruolo svolto da Giulio Dolcetta, emissario della Comit nell’isola, e da Arrigo Serpieri (sottosegretario alla Bonifica integrale), nonché le loro rispettive parabole, sottolineando in particolare l’opposizione svolta dai Consorzi di bonifica, espressione dei proprietari terrieri locali. Con il supporto di un interessante e inedito apparato fotografico Paolo Sanjust descrive le trasformazioni di un territorio progettato per avere le caratteristiche «della vittoria e del trionfo sulla natura» e illustra le modalità con cui si arrivò alla realizzazione dei grandi cantieri, anche con il supporto di alcune cave collegate con tratte ferroviarie a scartamento ridotto. Maria Luisa Di Felice riflette sullo stato degli studi su Arborea e mette a confronto le fonti documentali tradizionali con i numerosi spunti che emergono dalle testimonianze orali, a partire da quelle raccolte da Lucia Capraro alla fine degli anni Settanta, sino alle ricerche più recenti e ancora in corso. Completano questa parte del volume i contributi di Alberto Medda, che ha svolto di recente nuove indagini sul campo, e Alessandro Mignone, che su Arborea ha realizzato anche un bel documentario col supporto di numerose video interviste. Entrambi spiegano le ragioni che spinsero Dolcetta ad escludere le famiglie sarde nella fase iniziale del progetto e forniscono un quadro dettagliato della provenienza dei primi mezzadri, tre quarti dei quali provenivano dal Veneto.