Riforma o Riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale? di Mario Budroni
La discussione. Gli ospedali. Il territorio. La transizione epidemiologica. Il cambiamento necessario. Casa della Salute. L’Ospedale di comunità. La situazione in Sardegna. Conclusioni.
La discussione. La riforma sanitaria compie quarantatré anni a dicembre prossimo. La legge è stata promulgata il 23 dicembre del 1978 (legge 833/78) ed è stata un gran passo vanti nell’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione: la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (universalità), attraverso la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica (globalità) di tutti i cittadini senza distinzione alcuna e secondo modalità che assicurino eguaglianza degli stessi. Dopo quaranta anni dall’avvio e dopo una pandemia che a messo a nudo alcune fragilità del servizio sanitario nazionale (SSN) è andata maturando la convinzione che bisogna mettere in discussione alcuni aspetti della legge di riforma. L’ANAAO-ASSOMED, il sindacato che raggruppa quasi un quarto dei dirigenti medici, sostiene che il numero dei posti letto per 1000 abitanti è tra i più bassi in Europa. Bisogna, quindi, aumentare i posti letto e investire di più in tecnologia e personale (intervista al “Quotidiano Sanità” del segretario nazionale Palermo). Per il sindacato CGIL le priorità sono la riforma dell’assistenza territoriale e un piano di assunzioni stabili (intervista al “Quotidiano Sanità” del segretario FP Vannini). La commissione parlamentare per la salute, dal primo marzo 2021, discute su “Case della salute e Ospedali di comunità: i presidi delle cure intermedie.” È chiaro che se il SSN è universalistico non può esserci contrasto tra ospedale e territorio e le funzioni assegnate devono essere definite e chiare.
Gli ospedali. In questi ultimi dieci anni il Governo ha ridotto costantemente la spesa, tagliando soprattutto sull’assistenza ospedaliera. In effetti, il problema più grande della sanità è l’attuazione di un equilibrio tra costo e beneficio dei servizi offerti. Se questi non sono correlati a un bisogno di salute ma a una domanda incontrollata, la spesa cresce a dismisura. Nei primi anni settanta, dopo la creazione degli enti ospedalieri, i ricoveri impropri aumentarono di numero e si allungarono i tempi di degenza creando un deficit insanabile nei bilanci delle Casse Mutue. Il Governo vi pose rimedio prima estinguendo i debiti degli enti mutualistici (Legge 386/1974) e poi abolendo le Cassa Mutua e approvando la riforma della sanità (Legge 833/1978). Negli anni successivi c’è sempre stata molta attenzione sulla spesa del SSN e si è tentato di tenerla sotto controllo creando le aziende sanitarie con obbligo di pareggio di bilancio e ridefinendo i principi guida in materia di sostenibilità finanziaria secondo appropriatezza, economicità ed evidenza scientifica nell’uso delle risorse. (D.lgs 502/1992 e D.lgs 29/1999). Infine nel 2015 è stato fissato il numero dei posti letto per mille abitanti (DM 70/2015). Ora i sindacati dei medici fanno notare che il finanziamento del SSN e il numero dei posti letto sono inferiori a quelli dei paesi più avanzati. In effetti, la media dei paesi OCSE per il 2018 è di 4,9 posti letto (PL) per 1000 abitanti (Ab.), rispetto a 3,14 dell’Italia. Se dobbiamo fare un confronto sarebbe opportuno farlo con i paesi che hanno un servizio universalistico come noi e non un sistema assicurativo. In questo caso l’Italia è in linea con l’Inghilterra (2,50 PL per 1000 Ab.), con l’Irlanda (2,97 PL per 1000 Ab.), la Svezia (2,14 PL per 1000 Ab.) e la Norvegia (3,53 PL per 1000 Ab.)
Comunque in Europa, in media, il numero di letti ospedalieri pro capite è diminuito di poco più del 20% tra il 2000 e il 2018. Questa riduzione è stata particolarmente pronunciata in Finlandia, Danimarca, Svezia, Lettonia, Paesi Bassi ed Estonia, con una riduzione di oltre un terzo.
Il territorio. L’assistenza territoriale dovrebbe comprendere attività e prestazioni di educazione sanitaria, medicina preventiva, diagnosi, cura e riabilitazione e di pronto intervento. Purtroppo quasi tutta l’attività territoriale si è ridotta alla gestione burocratica della domanda di salute dei cittadini, senza tener in conto i bisogni reali. Invece di riorganizzarsi e adeguarsi alle trasformazioni della società e alle novità scientifiche, ha preferito la conservazione se non addirittura la regressione. I medici di famiglia operano in regime di libera professione e sono in grande competizione tra loro per acquisire pazienti e tendono a lavorare in isolamento culturale. Una volta i medici di famiglia erano in grado di fare diagnosi di malaria con un esame del sangue e leggere le radiografie per fare diagnosi di TBC; ora demandano quasi tutto. Qualsiasi necessità medica arriva in Ospedale o come ricovero o come visita specialistica. Al medico di famiglia resta, quindi, il compito di fare le impegnative per visite specialistiche e la distribuzione dei farmaci. Di conseguenza la contabilità separata del Distretto normata dal D.lgs 229 del 19 giugno 1999 (legge Bindi) non è stata mai realizzata; il 51% delle risorse al territorio non esiste se non attraverso rendicontazioni che accorpano su costi territoriali le attività di laboratorio e di diagnostica degli ospedali. È chiaro che al territorio bisogna dare realmente una funzione definita sia per la soddisfazione del personale, sia per l’impegno di spesa che comporta e sia infine per le trasformazioni avvenute nella società.
La transizione epidemiologica. Secondo la teoria della “transizione epidemiologica”, proposta per la prima volta da Abdel Omran nel 1971, tutte le società affrontano tre “età”: delle pestilenze e delle carestie, della
remissione delle pandemie e infine delle malattie degenerative e antropogeniche. Quest’ultime comportano la progressiva riduzione del carico di mortalità e morbilità dovuto alle malattie infettive e la prevalenza della mortalità attribuibile alle malattie cronico-degenerative e agli eventi traumatici. Da circa un secolo è iniziata una profonda modificazione della nostra società. Lo sviluppo economico ha garantito maggiore disponibilità di cibo e abitazioni più confortevoli. Sono diminuiti i lavori pericolosi e usuranti. Le bonifiche igieniche e sanitarie hanno fatto scomparire alcune malattie (es. la malaria). Il livello diffuso di scolarizzazione ha consentito una consapevolezza del rapporto tra salute e comportamenti individuali. Si sta modificando la mortalità per malattie cardiovascolari e tumori. Tuttavia in tutti i paesi sviluppati si registra un aumento di malattie croniche e di comorbidità come diabete, ipercolesterolemia, ipertensione, sindrome metabolica e deficit cognitivi. Come riprova del cambiamento, i camion militari per il trasporto dei deceduti in ospedale a Bergamo sono il segno della difficoltà degli Ospedali a gestire la pandemia. Allo stesso tempo abbiamo imparato che il distanziamento delle persone e le mascherine sono più efficaci delle cure.
Il cambiamento necessario. Nella Conferenza di Alma Ata del 1978, l’OMS dichiarava: «L’assistenza sanitaria di base è quell’assistenza sanitaria essenziale, fondata sui metodi pratici e tecnologie appropriate, scientificamente valide e socialmente accettabili, resa universalmente accessibile agli individui e alle famiglie nella collettività, attraverso la loro piena partecipazione a un costo che la collettività e i Paesi possono permettersi a ogni stadio del loro sviluppo nello spirito di responsabilità e di autodeterminazione. L’assistenza sanitaria di base fa parte integrante sia del sistema sanitario nazionale, di cui è il perno e il punto focale, sia dello sviluppo economico e sociale globale della collettività. È il primo livello attraverso il quale gli individui, le famiglie e la collettività entrano in contatto con il sistema sanitario nazionale, avvicinando il più possibile l’assistenza sanitaria ai luoghi dove le persone vivono e lavorano, e costituisce il primo elemento di un processo continuo di protezione sanitaria».
Nel nuovo modello diviene fondamentale la prevenzione. Si passa da un modello “passivo” dove l’erogazione dell’assistenza avviene nel momento in cui il paziente percepisce i sintomi, a uno “attivo”, capace di intervenire prima dell’evento acuto. La riorganizzazione ha l’obiettivo di ricondurre ai servizi territoriali l’assistenza primaria, lasciando le patologie acute alle strutture ospedaliere. Uno dei primi sostenitori di questo cambiamento di paradigma in Italia è stato Giulio Maccacaro, epidemiologo e fondatore di Medicina Democratica, che aveva intuito, infatti, prima di altri che la prevenzione e la prossimità delle cure erano destinate a occupare un ruolo cruciale nella gestione della salute pubblica.
Casa della Salute (istituite con DM 10 luglio 2007) . Come si può rilevare dal sito governativo del ministero, «La Casa della Salute è da intendersi come la sede pubblica dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie, ivi compresi gli ambulatori di Medicina generale e Specialistica ambulatoriale, e sociali per una determinata e programmata porzione di popolazione. In essa si realizza la prevenzione per tutto l’arco della vita e la comunità locale si organizza per la promozione della salute e del ben-essere sociale». Secondo Brambilla e Maciocco la Casa della Salute deve avere le caratteristiche di seguito riportate (Antonio Brambilla Gavino Maciocco: Le Case della Salute; Carocci editore; 2016).
- La messa in comune dello spazio fisico e degli assistiti da parte dei medici di medicina generale (MMG) con il fine di garantire la continuità delle cure h24;
- La copresenza degli specialisti ambulatoriali, anche con funzione di consulenza in tempo reale dei MMG;
- La copresenza di personale sanitario – infermieri, fisioterapisti, riabilitatori – in accordo con il MMG nel ruolo di “case manager” e “disease manager” per i pazienti complessi e affetti da pluri-patologie;
- L’integrazione delle attività sanitarie con quelle socio assistenziali e di educazione ai corretti stili di vita (expanded chronic care model), grazie alla collaborazione del personale adibito alla assistenza sociale, alla educazione sanitaria e alla prevenzione, in un’ottica di valorizzazione e potenziamento delle risorse della comunità e di adeguamento dell’ambiente di vita quotidiano;
- Un setting assistenziale a complessità crescente – con laboratorio analisi, radiologia convenzionale e per immagini, centro di salute mentale, RSA, postazione del 118, ambulatorio infermieristico, ospedale di comunità a gestione infermieristica, centro di riabilitazione, punto unico di accesso, CUP;
- L’adozione del chronic care model per la presa in carico dei pazienti affetti da patologie croniche (diabete, scompenso cardiaco, BPCO, asma e ipertensione);
- Il collegamento funzionale con l’ospedale e le strutture di riabilitazione e di lungodegenza, per gestire sia le dimissioni sia i ricoveri programmati o facilitati;
- La verifica degli outcome di salute raggiunti da parte del personale
- La partecipazione dei cittadini alla definizione dei bisogni e alla valutazione degli esiti del servizio prestato.
L’ Ospedale di comunità. Gli Ospedali di Comunità sono strutture intermedie tra l’assistenza domiciliare e l’ospedale, in sostanza una struttura che si occupa di tutte quelle persone che non hanno necessità di essere ricoverate in reparti specialistici, ma hanno bisogno di un’assistenza sanitaria che non potrebbero ricevere a domicilio. Hanno funzione d’integrazione ospedale-territorio ed erogazione delle cure in conformità a una valutazione multidimensionale della persona da assistere, e con un piano di cura personalizzato. Senza pensare a nuove strutture, si possono creare convertendo posti letto esistenti, che sono rimodulati all’interno del nuovo modello organizzativo. La responsabilità del modulo è assegnata a un infermiere, la responsabilità clinica è affidata a medici di famiglia. L’assistenza deve essere garantita da infermieri presenti continuativamente nelle 24 ore, coadiuvati da altro personale (operatori socio-sanitari) e altri professionisti quando necessario. L’Ospedale di Comunità non è:
- un reparto ospedaliero per pazienti con malattie acute;
- un reparto di lungodegenza;
- una Residenza Sanitaria Assistenziale (R.S.A.) per anziani;
- una struttura di tipo sociale;
- una struttura per eseguire solo prestazioni diagnostiche o visite specialistiche.
La situazione in Sardegna. Bisogna infine spendere poche parole sulla situazione in Sardegna riguardo alle Case della Salute e gli Ospedali di Comunità. Su questo argomento, la commissione sanità della Camera dei Deputati ha chiesto un reso conto del livello di attuazione del DM 10 luglio 2007 alle singole Regioni. Il nostro Assessore alla Sanità ha spedito la seguente tabella:
CASA DELLA SALUTE
Hospice/RSA Casa della Salute – Comune di Sorso
Casa della Salute – Comune di Gavoi
Casa della Salute ASSL Lanusei – Lanusei
Casa della Salute ASSL Lanusei – Tortolì
Casa della Salute – Comune di Bosa
Hospice Comune di Oristano
Casa della Salute – Laconi
Casa della Salute – Comune di Arbus
Casa della Salute – Villacidro
Casa della Salute – Comune di Carloforte
Casa della Salute – Comune di S. Antioco
Casa della Salute – Comune di Giba
Casa della Salute – Comune di Fluminimaggiore
Casa della Salute – Comune di Mandas
Casa della Salute – Comune di Pula.
Nell’elenco delle Case della Salute sono compresi gli Hospice e le residenze sanitarie assistenziali (RSA); Nessuna è in funzione H24. I medici di famiglia non condividono i pazienti e neppure lo stesso locale. I medici di continuità assistenziale continuano a far le guardie di notte senza nessun rapporto con gli altri operatori.
Le targhe degli edifici sono state cambiate, affinché tutto resti come prima. Per quanto riguarda gli Ospedali di Comunità, sempre nello stesso resoconto, la Regione promette che gli Ospedali di Ittiri e Thiesi saranno trasformati in Ospedali di comunità.
Conclusioni
Per affrontare i cambiamenti avvenuti nella società e i bisogni di salute a essi collegati, abbiamo bisogno maturare una nuova cultura sanitaria. S’impone una maggior chiarezza sulla legislazione esclusiva e concorrente tra Stato e Regioni. La lentezza e la confusione nei provvedimenti, durante la pandemia, sono legati a contrasti tra Governo centrale e Regioni. Nel Recovery Plan sono destinati al SSN 19,7 miliardi, di cui 7,9 alla riorganizzazione dei servizi territoriali.
A fronte di questo investimento, si è stimato che la spesa privata delle famiglie per l’assistenza sanitaria a lungo termine, domiciliare e ambulatoriale per cura e riabilitazione, sia di oltre 17 miliardi l’anno. Questo dà la misura dell’impegno necessario per modificare il modello dell’assistenza di prossimità.
I medici di medicina generale sono gli unici della categoria a non avere una formazione specialistica accademica specifica e sono quelli che dovranno affrontare i maggiori cambiamenti. Direi quindi che loro e tutto il personale sanitario hanno bisogno di formazione per adeguarsi al cambiamento.
Rilevante sarà il ruolo delle nuove tecnologie. Ogni cittadino dovrebbe avere a disposizione un “Fascicolo sanitario elettronico” in cui è raccolta la sua storia clinica e le informazioni e i documenti prodotti dal SSN. Di certo la digitalizzazione delle informazioni faciliterà un processo d’integrazione tra ospedale e territorio e tra i diversi nodi della rete assistenziale A fronte di queste problematiche davvero rilevanti non abbiamo dubbi che serva una riforma e non una semplice riorganizzazione.
La pandemia ci ha confermato ciò che sapevamo da tempo e cioè che vi è una grande necessità di una “nuova riforma” e allo stesso tempo, che la politica nel suo complesso, non sembra in grado di esprimere un pensiero riformatore degno della sfida.