Ad Arborea nella stagione dei coloni sardi, dopo l’esodo dalle campagne dei primi anni ‘60, di Alberto Medda Costella

 

Le foto di gruppo rappresentano i cugini Zirone, di Mauro e Michele.

Mio babbo a Bono faceva il pastore. Doveva arrivare ad Arborea già nel 1963. Era partito inizialmente in Germania per lavorare in fabbrica. È rimasto due anni e mezzo. Ha saputo che c’erano dei terreni liberi ed è venuto qua nel podere 233. Fu tra gli ultimi a trasferirsi, racconta Mauro Zirone, 62 anni di Arborea. Lo incontro nell’azienda di famiglia in una piovosa giornata di fine novembre insieme al fratello Michele, di qualche anno più giovane.

Siamo alla strada due, profondo sud della bonifica sarda. Per una parte del secolo scorso il centro abitato chiamava quest’area dell’agro “bassa Calabria”, come a indicare un luogo lontano dal tempo e dal progresso. Siamo in effetti a più di dieci chilometri da Arborea, ma molte cose sono cambiate da allora, e oggi, il “profondo sud”, ospita una delle aziende più all’avanguardia dell’intero comparto lattiero-caseario della Sardegna. Mauro e Michele portano avanti l’allevamento di numerose vacche da latte, impiegando la migliore tecnologia in commercio. Due robot di mungitura, che lavorano a ogni ora del giorno e che hanno sostituito l’uomo, stravolgendo la routine di un allevatore di bestiame, votato da secoli alle necessità dei suoi animali. Non che ora non lo sia più, ma sono certamente cambiati i ritmi. Ci si aggiorna alle nuove tecniche d’allevamento e si acquisiscono nozioni informatiche, per monitorare macchine e i mezzi automatici, che si muovono quotidianamente tra le corsie delle stalle. Un occhio elettronico vigila che le mangiatoie siano colme il tanto giusto.

I Zirone sono originari di Bono, un paese a un centinaio di chilometri in provincia di Sassari. Sono arrivati nel 1966. Fino a qualche anno prima ad Arborea i sardi dovevi cercarli col lanternino. Nella varietà delle provenienze che componevano questa originalissima comunità, rappresentavano una sparuta minoranza, impiegati perlopiù in qualche mansione per conto della Società Bonifiche Sarde (SBS), e ancora meno presenti tra i mezzadri. Nel 1957 su 264 poderi solamente 9 erano coltivati da questi.

Il motivo che agli albori della bonifica portò Giulio Dolcetta, primo presidente della SBS, a preferire famiglie continentali rispetto a quelle locali, era dato dalla consistenza numerica che le prime presentavano, grazie all’abitudine di convivere tra parenti secondo il modello patriarcale, praticato soprattutto in alcune zone del Veneto, funzionale alla gestione di un podere che necessitava di grande forza lavorativa. Bisognava ancorare l’uomo alla terra e per farlo occorrevano famiglie numerose abituate alla residenza permanente sul fondo.

La SBS era la spa facente parte del gruppo Comit-Bastogi, che nel primo dopoguerra, sfruttando i generosi finanziamenti statali messi a disposizione per “modernizzare” il meridione e le isole, voleva fare della Sardegna l’isola dei grandi laghi, secondo il progetto di Angelo Omodeo. A cascata si sarebbero innescate una serie di opportunità, tra cui la produzione di energia elettrica e la possibilità a valle di bonificare gli acquitrini secolari, che avevano caratterizzato per millenni il paesaggio sardo. L’obbiettivo era rendere irrigue le pianure dell’isola, sfruttando l’acqua immagazzinata nei bacini.

I progetti della Società vennero poi circoscritti alla sola zona dell’Oristanese, in territorio di Terralba. Passata negli anni trenta nelle mani dell’IRI, la SBS cambiò anche il suo presidente, che, dopo le dimissioni del veneto Dolcetta, fu il toscano Piero Casini. Quest’ultimo rimase in carica fino al 1954, quando, dopo le lunghe battaglie portate avanti dai coloni continentali per avere la proprietà delle terre da loro lavorate, la SBS venne venduta all’ETFAS, incaricata dal governo di guidare il passaggio dei coloni dalla condizione di mezzadri a quella di assegnatari di podere. Vennero così create cinque cooperative, due delle quali ancora attive.

L’ente di riforma agraria nell’isola era sorto nel 1950, con l’incarico di recuperare l’incolto al latifondo e di trasformarlo in appezzamenti da affidare alle cure dei nuovi assegnatari sardi. A presiederlo, nel 1951, venne chiamato il Professor Enzo Pampaloni, voluto in Sardegna dall’allora Ministro dell’Agricoltura della Democrazia Cristiana il sassarese Antonio Segni. Pampaloni era arrivato dalla Toscana in quanto «profondo conoscitore della terra sarda, per i numerosi studi in essa compiuti, quando ancora lavorava all’Osservatorio di Pisa, che aveva il compito delle indagini economico-agrarie della Sardegna, prima che in essa si creasse la Facoltà di Agraria»[1], di cui egli stesso fu il primo preside nell’Università di Sassari.

A distanza di qualche anno quasi la metà dei coloni continentali arrivati tra gli anni ’20 e ’30, richiamati dalle sirene delle industrie del Piemonte e della Lombardia, si trasferirono negli opifici del nord Italia, dove era garantito stipendio certo alla fine del mese e ferie pagate. Molti campi per anni non vennero coltivati. La strada due fu una delle più colpite da questo esodo. Si trattava di una zona della piana tra le ultime a essere stata appoderata. Non a caso le terre erano state quasi tutte affidate per la prima volta alle cure di famiglie in prevalenza trevisane, giunte nella seconda fase della colonizzazione nel 1936. Forse la scarsa resa iniziale dei terreni e la distanza dal centro avevano incentivato più che altrove l’abbandono. Ciò che sappiamo per certo è che a rimanere furono solo i Teotto, arrivati da Casier. Questi avevano vissuto fianco a fianco ad altre famiglie della Marca – come i Barbisan di Paese, i Favalessa di Cison di Valmarino (omonimi di quelli rimasti di Cessalto), i Favretto di Maser, i Granzotto di Susegana, i Rossetto di Villorba, i Peruzzolo di Valdobbiadene, i Sansonetto di Meolo, i Zago di Nervesa della Battaglia e i Zaia di Motta di Livenza. I Belluco di Baone si spostarono invece su un podere più interno. Insieme a queste anche tre famiglie veronesi – come i Dal Castello di Badia Calavena, i Dalloca di Erbè e i Tessari di San Bonifacio – una del padovano – gli Scanferla di Fossò – e un’altra dal vicentino – i Valle di Arcugnano. Insieme a loro anche una delle nove famiglie di mezzadri sardi presenti in bonifica, i Porcu di Montresta, arrivati nel ‘42[2].

Dal Goceano ai poderi dell’ex Mussolinia

Alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60, a riprendere la coltivazione dei poderi rimasti liberi arrivarono così i coloni dell’ETFAS, quasi tutti dal Goceano, prevalentemente da Bono. Mio padre quando è arrivato non conosceva le cooperative e non credeva che fossero strutturate così come le ha trovate. Il sardo non era abituato a stare in cooperativa. Se oggi abbiamo qualcosa lo dobbiamo certamente alla presenza della Cooperativa Assegnatari ETFAS, oggi Produttori, che ci ha guidato e aiutato tantissimo, spiega Mauro.

In effetti il modello cooperativistico impiantato dall’ETFAS ad Arborea aveva attecchito immediatamente, forse facilitato dal fatto che gli ex mezzadri erano già abituati a sottostare a regole ferree imposte dai tecnici. Fino a dieci anni prima la gestione e la proprietà dell’intera bonifica erano nelle mani dell’IRI, che agiva sul territorio sempre col vecchio entourage della SBS, che non aveva modificato la sua impostazione dall’ingresso in democrazia. L’ente di riforma subentrato nella bonifica già completata di Arborea aveva il compito di garantire l’unità aziendale. Per i primi trent’anni a nessuno era concesso lasciare le cooperative in cui era stato inserito d’ufficio, ma la differenza rispetto al passato stava nella presenza di un tecnico che non imponeva più le sue decisioni.

Ma qual è il motivo che spinse diverse famiglie del Goceano a migrare in Campidano? Con quali motivazioni non vennero opzionate anche questa volta famiglie del circondario, in particolare Terralba e Marrubiu, che qualche anno prima avevano alzato le barricate per avere lavoro e terre da cui ricavare un reddito? Vicino a Bono, non lontano dalla necropoli di domus de janas di Molia, in comune di Illorai, c’era uno dei numerosi comprensori dell’ETFAS. Qua c’erano altre famiglie di Bono: i Carta, gli Orune, i Tanda, i Bebbu, gli Orritos, i Gosinu e i Sau. Selis e Arca erano invece di Benetutti. Per fare domanda all’ETFAS dovevi avere unità lavorative. Mio padre è arrivato qui con due cugini. Io e mio fratello Michele eravamo troppo piccoli per poter contare qualcosa, dice Mauro.

Nel frattempo si sono uniti alla conversazione anche i fratelli Carta, Nicola ,80 anni e Pasquale di 76, vicini di podere. Era venuto in paese uno dell’Etfas. Ci aveva spiegato che non volevano assegnatari di Terralba, perché alla sera si candainat in bidda. Con famiglie de su cabu de susu questo non si poteva fare. Per questo ci preferirono alle famiglie locali. Arrivarono non solo da Bono, ma anche da Montresta e altri paesi, racconta Pasquale[3].

Ma come venne loro avanzata la proposta e come fu il loro primo contatto con Arborea? Mio padre non era a casa perché aveva appena venduto un gregge di pecore per poi ricomprarne un altro a Bonorva. È venuto questo compare di comitiva a parlare con mia mamma. Dal comune di Bono gli chiesero se conosceva qualcuno interessato a lavorare un pezzo di terra. Così, quando mio padre è rientrato, mia mamma ha detto: “Pissenti la ca ti funt chirchende po andare ad Arborea”. Mio padre conosceva Arborea solo per le angurie e per il fatto che già c’erano due famiglie di paese, i Sotgia e i Peronnia, che sono poi tornati a Bono nel ’62. Con la mia famiglia erano arrivate altre, Manchinu e Mele. Mio padre era restio a spostarsi. A Nicola, però era piaciuto il posto. C’erano molti poderi liberi allora. Nicola ha così convinto mio padre: siamo arrivati il 28 novembre 1959, prosegue Pasquale.

Inoghe bi fiat su spopolamentu de sos continentales, interviene Nicola in sardo, ma non nel sardo campidanese che si parla nel circondario e nell’Oristanese, ma nel logudorese, che ha conosciuto da ragazzo e che ha continuato a parlare da quando si è trasferito ad Arborea. Non è l’unico a parlarlo. Gran parte delle famiglie sarde giunte in bonifica ne fanno ancora uso, alla strada due più che altrove, nonostante siano passati sessant’anni dal loro arrivo. In medas funt partius in sas fabricas. In Bono fiaus in meda e si campaiat su matessi. Babbu teniant unu cumpare de festa. Si b’aet famillia numerosas s’ETFAS est chirchende. Bi funt terras in Arborea. 7 mascus et 3 feminas. Goi babbu at nadu: “andamos a bidere”. Tenivamos sos arbeghes, sa domu et su cortile. Babbu non fiat meda cunvintu. E deu, “oh ba’, custa da leamos”. L’azienda dei Carta si trova vicino a Linnas, uno dei centri colonici della bonifica, oltre la strada rettifilo che divide in due la piana, est e ovest. Custa fiat una azienda sola. Bi fiat custu rettilineu chi andaiat in Arborea. Nosos non fiant praticus cun sas bacas. Semus arribaus inoghe in camion et amos cuminzadu a fare late cun unu bidone.

 


Cossiga e la guerra d’Algeria

Gli assegnatari prescelti dovevano comunque essere vicino alla Democrazia Cristiana o, al massimo, non interessarsi di politica e quindi non ostili, nell’ottica del non cedere spazio al PCI. Un ruolo nel trasferimento di queste famiglie dal Goceano nella bonifica del Campidano lo ebbe il giovanissimo Francesco Cossiga, che alla guida dei giovani turchi stava rivoltando gli equilibri interni alla DC sassarese e quindi isolana, giocando un ruolo da protagonista nella politica sarda. Sono tante le immagini che lo ritraggono nei giornali del periodo promossi allora dall’ETFAS. Diverse le lettere firmate di suo pugno ed evidenza del suo interesse ai singoli casi di famiglie giunte nella piana di Arborea.

Se i Carta presero possesso del podere di Linnas lasciato dai Rossetto tornati in Veneto, discorso diverso deve farsi per i Zirone, insediati in un podere in mano prima del grande esodo ai Peruzzolo (ricordati dalla memoria storica di Arborea Aurelio Milan come i migliori coltivatori di patate americane), ma che al loro arrivo era stato appena lasciato da una famiglia sfollata dall’Africa. Il ricordo è che fosse tunisina, come gran parte dei coloni di origine siciliana profughi dal Maghreb, che l’ETFAS in quegli anni cercò di sistemare nei suoi comprensori distribuiti in tutta l’isola. Prima di noi c’era un certo P. Mi ricordo che qua sopra nella stanza aveva la vasca da bagno e sopra il tetto aveva una vasca per la raccolta dell’acqua, come si usa nelle aree desertiche. Lì c’era un camino e fuori la madonnina dell’Etfas, racconta Mauro[4].

Della famiglia P. si ricordano anche i Carta, in quanto vicini di podere. Innoghe bi fiat unu tunisinu, mandato via senza niente. Lì erano signori. Lui ci diceva che le vacche in Africa facevano 25/30 litri di latte. Lo leamus pro maccu. Aveva fatto un portale con delle corna grandi: con scritto “ATLAS”, dice Pasquale. Aveva fatto come nei ranch americani. In ogni ponte c’era scritto ATLAS. Due di queste scritte sono ancora nel podere. Le corna ce le ho io qua. La sua famiglia era composta di sei persone che in Tunisia erano abituate a comandare. Si considerava un signore. Ma non era l’unico tunisino. Ce n’era un altro alla 8 alle vigne, dove c’è Bergamin adesso, aggiunge Mauro.

Quello che riportano sia i Zirone che i Carta è confermato anche dalle carte dell’archivio storico dell’Etfas, ma in realtà i P. non erano profughi della Tunisia, come quelli del vicino Cirras espulsi dopo l’insediamento del dittatore Bourghiba, ma dell’Algeria, costretti a fuggire dopo la guerra del 1954/62. ATLAS (Atlante in italiano) non è altro che la catena montuosa dell’Africa nordoccidentale, che ha gran parte delle sue vette proprio nel grande paese africano. Leggiamo: «il P. lasciò l’Algeria nel gennaio 1964, quale profugo a causa della situazione locale». Dall’informativa del console si apprende che egli era impiegato nell’industria conserviera e del miele. Al diniego di un prestito per dei progetti, definiti fantasiosi, il P. e i suoi famigliari decisero di rifiutarsi di collaborare con i tecnici: questi ultimi vennero anche allontanati dal podere. Un figlio in particolar modo si mostrò piuttosto infastidito per queste “intromissioni”, presentandosi, cito testualmente, «con la sua strana mentalità di coloniale francese»[5]. Dalla relazione è possibile apprendere che lo status di rifugiati riconosciuto alla famiglia P. li poneva al riparo dai vincoli imposti invece agli altri assegnatari. Successivamente il podere venne comunque abbandonato da questa famiglia per altri motivi personali.

La situazione, benché completamente diversa rispetto a quella della fase pionieristica della bonifica, non era certo facile. Quando siamo arrivati ci hanno stimato tutto. Dove stavamo noi c’erano la vigna e le canne. Ci hanno stimato anche quelle. Si diceva scorta morta, spiega Pasquale. Il famoso piano per il riscatto del podere era suddiviso in 30 rate. I primi due anni pagavi mille lire e poi 480 lire. Ci avevano dato anche dei soldi per comprare le vacche. Il periodo più pesante l’abbiamo vissuto nel primo periodo. Mio padre si era ammalato nel ’72/73. Aveva venduto le vacche e messo vitelli da ingrasso. E poi piano piano siamo ripartiti nel ’78, dice invece Mauro.

Sos continentales a nois ant semper declassaos. Naraiant che non campaimos. E nos amus arrespostu: semus abituadus a vivere comente conigli. Su primu annu amos seminadu a manu trigu. Deu fiu unu pagu commerciante e apu comporadu duos apartamentos in Macumere, ca ci fiat su boom puru innia po su petrulchimicu. Bi fiant Panetto e Golfetto cun sa stalla noa. Su primu sardu a faghere sa stalla noa semus stados nosus, in su ‘72: 50 miliones. Po sa stalla noa apu fatu puru una cambiale agraria. Finia sa stalla teniamos una ventinas de baccas. Serbiat bestiamene e apos fatu unu mutuos de 25 miliones po ddu comporare. In pagus tempus semus torraus in paris. Goi sos continentales ant cumintzados a cumprendere ca nois puru fiaos in grados de s’arranzare, racconta Nicola.

La virtuosa pedagogia Amorotti

La svolta fondamentale al sistema Arborea la diede il dott. Vincenzo Ferrari Amorotti, un agronomo giunto da Modena a dirigere la Coop. Assegnatari Etfas. Il suo arrivo portò dei sensibili miglioramenti alle condizioni economiche di tutta la popolazione dell’agro. Fino ad allora le uniche vacche allevate nel comprensorio erano brown swiss, le brune alpine. Michele spiega a tal proposito: Amorotti nel nord Italia aveva visto le innovazioni in campo zootecnico e le trasferì qui ad Arborea. Nonostante questa bonifica in passato fosse sempre stata all’avanguardia per tecniche e investimenti, nel passaggio della gestione all’Etfas, Arborea non era rimasta al passo delle altre aziende di allevamento italiane nella penisola.

Le innovazioni rivoluzionarie erano date dall’arrivo delle vacche frisone, bianche e nere, grandi produttrici di latte, e dalla costruzione delle stalle modello, con le bestie non più tenute al laccio, ma lasciate libere di muoversi. Amorotti fece inoltre cambiare le colture degli insilati, spingendo gli allevatori a muoversi per fiere e aziende in modo da poter osservare come si lavorava da altre parti. La produzione di latte impennò vertiginosamente e molti allevatori riuscirono a ripagare rate poderali e investimenti nel giro di qualche anno.

M’ammentu candu semus andaus in fiera a Verona. Mi presentaina cumenti su meri de sa bacca chi ait fatu quaranta litrus. Mancu fiu Gina Lollobrigida, racconta Nicola. Noi non gli davamo più di tanto importanza. Ma mi ricordo l’espressione di un allevatore che, alla notizia del nostro successo, esclamò: “una bacca chi fait quaranta litros de late deu dda potu a letu”, racconta ridendo Pasquale. I Carta sono stati i terzi della bonifica a costruire la stalla modello, dimostrando che anche i sardi, se ben seguiti e indirizzati, potevano far bene quanto e più degli altri. Prima di loro soltanto i veneti Golfetto e Panetto avevano raggiunto questo traguardo: mind’ammentos ca funt benidos a domo et mi ant fatu sos complimentos, dice Pasquale.

Negli anni ’70 e ’80 il comparto di Arborea ebbe una crescita esponenziale grazie agli investimenti lungimiranti fatti dietro indicazione del dott. Amorotti. Negli anni ’90 c’è stato il vero e proprio boom. Oggi, dopo una serie di assestamenti fisiologici, Arborea è alle prese con la difficoltà del ricambio generazionale di chi ha saputo far crescere, col sacrificio e lavoro, la realtà agricola più importante della Sardegna. Ma cosa è cambiato rispetto agli anni ’60? A rispondere è Nicola: tando si creschiat, poite nois, cando apo leao s’azienda eo, amus cumintzadu cun 100/150 litros de late a mano. Oe ndi faghet miza e non campat. Se consideriamo che all’epoca la benzina veniva venduta a 33 lire e il latte a 50 lire e oggi per comprare un litro di benzina ci vogliono sette litri di latte, è facile comprendere cosa sta funzionando da deterrente per i giovani a impegnarsi in questo mestiere.


[1] AA.VV., Profilo di Enzo Pampaloni terziario francescano, Como, 1976, p. 15.

[2] Archivio storico della Società Bonifiche Sarde.

[3] Ne arrivarono anche dalla Marmilla (Ales, Morgongiori e Pau), come stava avvenendo in altri comprensori Etfas, soprattutto in quello adiacente di Sant’Anna.

[4] Pampaloni, da terziario dell’ordine francescano e da persona devotissima al culto mariano, aveva fatto posizionare in tutti i comprensori dell’Etfas una stele votiva alla Madonna, protettrice dell’ETFAS, che accoglieva un bassorilievo in ceramica di Eugenio Tavolara, che ancora oggi abbelliscono, dove valorizzate, le numerose borgate agricole sorte in quel periodo, ma soprattutto aveva dotato moltissime case coloniche di una nicchia con la stessa raffigurazione in miniatura dell’opera del ceramista sassarese

[5] Archivio storico dell’Etfas.

 

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