Meritocrazia Inganni e speranze, di Maurizio Ferrera
Le società sono dei grandi reticoli di posizioni, distribuite a forma di piramide. Si tratta di una forma connaturata alla divisione del lavoro e alla necessità di coordinamento e di indirizzo. Il numero di quanti coordinano (e dunque occupano posizioni gerarchicamente sovrastanti, in qualsiasi tipo di organizzazione) è inesorabilmente più basso di quello dei «coordinati».
Come regolare l’accesso alle posizioni superiori? Il meccanismo più efficiente è la selezione meritocratica, che valuta competenze, motivazioni, credenziali. Quanto meglio funzionano i filtri selettivi, tanto meglio è per tutti: se i medici sono bravi, le cure sanitarie sono più efficaci.
Le alternative alla meritocrazia sono tutte più disfunzionali e più inique: parentela, clientela, cooptazione oligarchica, appartenenze di gruppo e così via. Lo sappiamo bene in Italia, dove la logica del merito fa ancora fatica ad affermarsi, anche dal punto di vista culturale.
Nel mondo reale, la meritocrazia non garantisce sempre l’incontro «giusto» fra talento e impegno, da un lato, e posizioni nella gerarchia sociale, dall’altro lato. Di mezzo non c’è solo la fortuna: molto dipende dal contesto di partenza e dal modo in cui si formano ed evolvono nel tempo i nostri talenti, le nostre ambizioni. Ogni tappa dipende da quelle precedenti e condiziona quelle successive.
Le critiche alla meritocrazia partono da questi aspetti, ciò che non piace sono le sue applicazioni imperfette, per difetto o per eccesso.
La buona notizia è però che le applicazioni si possono perfezionare.
La strettoia primordiale di ogni ciclo di vita personale è la famiglia di nascita, principale veicolo della trasmissione intergenerazionale di vantaggi e svantaggi. Il secondo ostacolo è legato ai contesti geografici ed economici in cui si dipanano le prime fasi del percorso di vita, alla presenza di servizi (come gli asili) e stimoli che ci consentano di sviluppare le dotazioni naturali. Una meritocrazia equa deve mitigare l’impatto di questi fattori il più precocemente possibile, tramite sostegni economici adeguati, misure differenziate e quasi individualizzate che compensino a scuola i deficit dell’ambiente d’origine.
I condizionamenti immeritati si presentano anche alla fine dei percorsi educativi. Avere fatto uno stage, ad esempio, è ormai diventato un requisito necessario per competere nell’acquisizione di posizioni lavorative. Gli stage sono scarsi e, se non retribuiti, molti giovani non possono permetterseli. Nulla impedisce però allo Stato di farsi carico dei loro costi e dell’organizzazione.
L’incontro fra talenti e posizioni avviene tipicamente in base a prove di merito: esami, concorsi, colloqui. A volte, il destino di una persona è determinato da una sola di queste prove: l’ammissione all’università giusta, il mancato superamento di un concorso. In questi snodi cruciali, la selezione è cieca rispetto alle concatenazioni di opportunità che ciascun partecipante ha incontrato nelle tappe precedenti. Fortuna e contesti hanno già eliminato in modo arbitrario molti concorrenti. Inoltre un esame, un colloquio magari decisivo si limitano spesso a scattare la fotografia di un momento, sensibile a fattori contingenti. Il curriculum non riesce a dare un resoconto del «film», dell’insieme di attitudini che meriterebbero di essere considerate al fine di selezionare i più idonei.
C’è insomma il rischio che la meritocrazia si trasformi in una «tirannia del test», basata su forme neomoderne di ordalia: prove insindacabili delle capacità e delle responsabilità individuali, da cui finisce per dipendere «tutto».
È questa la critica più incisiva del contemporaneo dibattito americano: ma a essere tiranno non è il principio del merito, quanto, di nuovo, il modo in cui viene concretamente applicato.
In un libro del 1992 intitolato Justice by Lottery, Barbara Goodwin, una filosofa americana, propose un esperimento mentale molto provocatorio. Se la vita inizia con una lotteria naturale e sociale, che genera effetti a cascata in termini di iniquità, perché non introdurre qualche contrappeso a valle? Immaginiamo un mondo utopico chiamato Aleatoria: qui tutti i beni sociali sono distribuiti tramite sorteggio, persino il diritto ad avere figli. Valutando gli esiti di questo sistema, potremmo scoprire, dice Goodwin, che i sorteggi di Aleatoria siano più equi ed efficaci rispetto alle complesse politiche di welfare del nostro mondo.
Non c’è bisogno di essere così pessimisti. Oltre agli accorgimenti ex ante, volti a compensare gli svantaggi immeritati durante la scuola, si possono immaginare dei correttivi ex post, che offrano una «seconda chance» per rimediare a un insuccesso, a un incidente di percorso, a una scelta sbagliata. Concretamente, si potrebbero assicurare quote di tempo e di reddito che ci consentano di rifare la gara, oppure di cambiare percorso. Ci aveva provato Tony Blair, con un programma chiamato appunto Fresh Start. E ci stanno oggi provando di nuovo i Paesi nordici.
Muovere in questa direzione non sarebbe solo un antidoto ad alcuni effetti perversi della meritocrazia. In un’epoca in cui la vita dura quasi cent’anni, perché non dovremmo facilitare e sostenere nuovi inizi, seconde carriere, preferenze che si modificano anche più volte nel corso dell’esistenza?
La rapidità e intensità con cui oggi si trasformano economia e società invitano a un ripensamento dei nessi fra responsabilità individuale e indulgenza collettiva. E anche a una rivalutazione di capacità e doti individuali oggi considerati di serie B: quelle che implicano «mani e cuore», come suggerisce David Goodhart, anche lui intervistato in questa pagine. Un modello che ricorda il paradigma della Vita Activa di Hannah Arendt, basata sull’«operare»: costruire creativamente e collettivamente un ambiente sempre più ricco di opportunità di scelta e possibilità di azione per tutti.
Il termine fu inventato nel 1958 da un sociologo, tra i più prestigiosi esponenti del laburismo inglese, per criticare gli effetti antiegualitari di un’istruzione troppo selettiva. Michael Young trascorse i cinquant’anni successivi a denunciarne il fraintendimento e la distorsione, per esempio da parte di Tony Blair. Oggi, con il Covid che ha minato le certezze di molti cosiddetti esperti e rivalutato le professioni manuali e quelle della cura, il dibattito è tornato di attualità. Anche in Italia, dove spesso il merito non è proprio il primo strumento di selezione.
La Lettura, 6 dicembre 2020