Casa Savoia a Sassari, la misteriosa morte del Conte di Moriana, di Eugenia Tognotti
Nel 1802 si sospettò un avvelenamento, ma ora un team di scienziati accerta che il principe fu ucciso da una malattia.
29 ottobre 1802: il giovane governatore di Sassari, generale nelle regie armate e generale in capo della cavalleria miliziana del regno di Sardegna, Placido Benedetto di Savoia conte di Moriana, 37 anni, muore nel suo palazzo di Sassari. Di ritorno da una processione, nella mattinata, aveva bevuto un bicchiere d’acqua, portatagli da un valletto. Quasi immediatamente si erano manifestati i sintomi di uno spasmo convulsivo. Il suo medico personale e gli altri accorsi al suo capezzale – i migliori della città, tra cui alcuni accademici della Facoltà di Medicina – avevano tentato di tutto, con le armi spuntate di cui si disponeva al tempo: misture antispasmodiche, clisteri canforati e altro – ma inutilmente.
Il principe di casa Savoia era spirato, lasciando costernato il suo seguito e gli alti funzionari di corte, che tre anni prima, in una nefasta catena di lutti, avevano dovuto registrare la morte del fratello del conte, Maurizio Giuseppe, che lo aveva preceduto come governatore. Gli era stata fatale un’insolazione e un attacco di febbre, dopo una cavalcata nella Nurra, tra Sassari e Alghero, a quanto riferiscono i documenti d’archivio.
Le circostanze della repentina dipartita del conte di Moriana concorrevano a dar corpo ai dubbi su una morte per veneficio, dato anche il clima politico: la famiglia reale era in esilio in Sardegna dal 1799, per sfuggire all’impetuosa ventata napoleonica che spirava su tutto il continente europeo. L’isola era attraversata da torbidi e ribellioni.
Proprio in quel 1802, pochi mesi prima della morte del governatore di Sassari, c’era stato il tentativo rivoluzionario di un gruppo di fuorusciti sardi in Corsica, avvenuta nel giugno. Sbarcati in Gallura, i ribelli, guidati da un prete, Francesco Sanna Corda, avevano proclamato la Repubblica sarda e catturato un bastimento postale, impadronendosi delle torri di Longosardo, Vignola e Isola Rossa. Domata la rivolta, era seguita la repressione ordinata dal vicerè Carlo Felice, fratello più anziano del conte di Moriana.
Uno dei capi della rivolta, il notaio cagliaritano Francesco Cilocco, catturato in Gallura, era stato portato a Sassari, ferito e sanguinante, a dorso di mulo. Qui, dopo essere stato torturato, aveva subito un processo formale a cui era seguita la sentenza di condanna a morte, eseguita il 30 agosto. Il corpo martoriato di Cilocco era rimasto esposto per giorni in città, in modo da scoraggiare da “avventure” i giacobini sassaresi.
Il dubbio di una “trama” di questi ultimi si affaccia, al momento del decesso di Placido Benedetto, alla mente di re Vittorio Emanuele, fratello maggiore del conte di Moriana.
Nella corrispondenza privata si trova una lettera del re sabaudo a Carlo Felice in cui esprime il dubbio che il principe fosse stato vittima di veleno, facendo riferimento anche ai possibili mandanti: alcuni «giacobini sassaresi molto attivi», tra cui uno speziale, un apotecario, come si diceva al tempo. Carlo Felice, tuttavia, rassicura il re: il loro fratello più piccolo non era in buona salute e, anzi, dopo una malattia che lo aveva colpito alcuni anni prima, «era sempre stato soggetto a mal di testa molto frequenti, accompagnati da una pesantezza e da un intorpidimento in tutte le membra e sonnolenza al mattino».
Ma qual era stata la causa effettiva della morte del giovane conte? Nei documenti storici non si trovano versioni concordanti: le tesi prevalenti erano malaria (che si ritrova ancora oggi su Wikipedia) e addirittura peste (lontana dalla Sardegna dal XVIII secolo). E, ancora, colera. Una malattia che arriverà dall’India 30 anni dopo la morte del conte di Moriana.
In sospeso per due secoli, il mistero di quella morte ha spinto un ambizioso progetto di ricerca che ha coinvolto vari ambiti disciplinari – storico-antropologico, biomedico, e Ufficio dei beni culturali dell’Arcidiocesi, diretto da Giancarlo Zichi. Sfruttando le possibilità offerte dal restauro del monumento ( opera di uno scultore piemontese, allievo del Canova, Felice Testa), realizzato grazie ad un finanziamento della Fondazione Sardegna, gli studiosi hanno potuto avere a disposizione fonti dirette (i resti) e indirette: la ricchissima documentazione degli Archivi di Stato di Cagliari e Torino e degli Archivi diocesani, i diari di Carlo Felice, le dichiarazioni giurate dei medici che procedettero alla ricognizione della salma.
Il restauro, felicemente concluso sotto il controllo della Soprintendenza ha comportato lo smontaggio degli elementi superiori e basamentali del lato destro della piramide, la revisioni dei pezzi smontati, la rimozione dall’alveo del muro delle due casse lignee, contenenti i resti del principe, ricollocati poi nella loro originaria posizione dopo la verifica della deposizione da parte del gruppo di ricerca, di cui fanno parte, insieme con gli studiosi sassaresi del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Sassari (anatomici, antropologi, fisici da Andrea Montella a Pasquale Bandiera ad Alessio Pirino), storici delle Università di Sassari e di Torino, tossicologi e entomologi. Nel gruppo anche il paleopatologo Gino Fornaciari, dell’Università di Pisa, uno dei massimi esperti in Italia di mummie e scheletri dell’età moderna.
Le analisi osteologiche hanno fornito una serie di dati. Il principe era un individuo longilineo, dal naso prominente, con una statura di almeno 1 metro e 75, con attacchi muscolari ben marcati che denotano un’intensa attività fisica, legata forse alla pratica dell’equitazione. I risultati dello studio antropologico e radiologico, effettuato nei laboratori del Dipartimento di Scienze biomediche, quelli delle analisi tossicologiche, degli studi su campioni di larve, cute mummificata, frammenti di tessuto, capelli, peli e unghie, hanno consentito di mettere insieme altri elementi di conoscenza. Sull’ipotesi di avvelenamento ha lavorato anche, per la sua tesi di laurea, una studentessa del Dipartimento di Chimica e Farmacia sotto la guida del professor Giorgio Boatto. L’insieme delle ricerche, ancora in corso, sembrano allontanare il sospetto di veneficio e dare corpo all’ipotesi avanzata dal professor Fornaciari di una crisi convulsiva, dando conto anche della cattiva salute, derivante forse da una malattia cerebrale (meningoencefalite?) superata, che gli lasciò cefalea, torpore degli arti e ipersonnia. A più di due secoli dalla morte del governatore di Sassari e del Logudoro, è stato l’incontro di vari ambiti disciplinari a risolvere in via definitiva un giallo storico i cui esiti scientificamente verificati gettano luce anche su un pezzo di storia di Sassari nel triennio 1799-1802, agitato dai tentativi di portare nell’isola i principi della Francia rivoluzionaria.
La Nuova Sardegna, 5 marzo 2021