Una radice viva, di Azzurra D’Agostino
Dalla Prefazione della poetessa Azzurra D’Agostino (nella foto) ai testi poetici di Mario Cubeddu raccolti nel recentissimo volumetto Areputzu – Asfodelo, Vydia Edizioni d’Arte, S.r.l, Montecassiano (MC), 2021.
L’esordio di Mario Cubeddu contiene in sé la natura del doppio. Da un lato così tardivo da essere un approdo, dall’altro così primigenio da farsi precursore di qualcosa di nuovo.
Muovendosi sulla lama di questi estremi di certo fuori dal comune, porta con sé grande libertà. Quella che agisce senza compiacimento, anche se mai dimentica delle proprie responsabilità.
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Vedo la poesia di Cubeddu come un fuoco che è stato sotto la cenere per un tempo lungo. Un tempo lunghissimo, si potrebbe dire una vita intera.
Nel corso dei decenni ha nutrito questo fuoco nelle maniere più disparate, ma senza mai scrivere poesia. Lo ha fatto incontrando tutti i più grandi poeti del nostro tempo, impegnandosi per farli conoscere ad altri contribuendo a realizzare il festival “Cabudanne de Sos Poetas”, una realtà che da oltre quindici anni anima il suo paese natale, Seneghe, in provincia di Oristano.
Lo ha continuato a fare leggendo e studiando le questioni della sua lingua, il sardo, con un impegno profondo e una consapevolezza rara, tanto che la lingua madre di origine orale si accompagna in lui ad una continua ricerca anche teorica.
E, ancora, ha proseguito a fare poesia senza scrivere cercando di dare contesto a questa lingua attraverso gli studi storici, che lo vedono autore di molti testi sulla storia sarda in generale e seneghese in particolare, assieme alla curatela di antologie con i versi dei suoi compaesani.
Oltre mezzo secolo di studio, passione, vicinanza con un linguaggio, quello della poesia, visto come un luogo dove il mondo degli altri accadeva.
A un certo punto, poi, è successo che anche il mondo di Cubeddu ha iniziato ad accadere in poesia. Sarebbe interessante prendere a spunto questo episodio per riflettere su cosa sia – che esista non voglio qui metterlo in dubbio – l’ispirazione, quel poco ma indispensabile fiato di aria che serve a far sì che il fuoco passi da sotto la brace a lapillo vivace, concreto, che illumina e scalda.
La fiamma di Cubeddu parla sardo. E lo parla in un modo assai diverso dalla poesia solitamente scritta in questa lingua: in qualche maniera assume su di sé la rivoluzione che i poeti dialettali del Novecento hanno compiuto nella poesia italiana.
Un rifondare la tradizione uscendo da ogni strettoia manieristica e al contempo un restituire dignità alle cose chiamate col proprio nome.
Un percorso che alcuni poeti sardi stanno portando avanti e che questo lavoro può contribuire a sviluppare in modo originale.
Nonostante il desiderio di rafforzare le proprie origini, le proprie “radici”, anche a livello istituzionale, non sempre l’esito di questi sforzi porta a qualcosa di davvero vivificante.
Per tale ragione si fa significativo il titolo della raccolta: Areputzu. In sardo, questa parola significa “asfodelo”, la pianta che gli antichi collegavano al regno dei morti, alle ombre, al mistero del buio.
In seneghese, “areputzu” indica non genericamente la pianta di asfodelo, ma la sua radice.
E la radice di asfodelo viene raccontata qui come portatrice di vita, ribaltando la simbologia classica come la zolla arata.
Areputzu
Areputzu acanta de s’arau, nieddu
in sa frisca lea lughente
colore ‘e terra su matzulu ‘e reìga
reighina marigosa po su frore
isteddau biancu de Prosèrpina;
deo acapiau a palas a su jua
cricu a chie mi bendet su sent:idu
po custa die de chelu fritu frimu;
arrimau su murru asuba ‘e manta
s’oretu de sos ogos aprontios
sa lusinga de sa oghe tussiada
sos foeddos chi proent but:ia butia
de sa radio sonande chi bustat
cun cafelatte e nughi cun pabassa
inghiaidèmi, giaidèmi s’inghiada
po poder torrare in mesu ia.
Asfodelo
Radice di asfodelo accanto all’aratro, nero / nella lucente zolla fresca / mazzo di ravanelli color terra / radice amara per il flore / stellato bianco di Prosèrpina; / / io legato al giogo per le spalle / cerco chi mi venda il sentimento / per questo giorno di cielo fanno freddo; / il muso appoggiato alla coperta / l’agguato degli occhi svegli / la lusinga della voce tossita / le parole scendono goccia a goccia / dalla radio che suona a colazione / con caffelatte e noci e uva passa / / datemi l’avvio, datemi una spinta / per poter tornare sulla strada.