FENICI, il popolo inesistente, di Livia Capponi
I nazionalismi (antichi e moderni) hanno creato l’identità fenicia a scopi politici: al servizio o contro il potere.
Se la storia, come sosteneva Eric Hobsbawm, sta al nazionalismo come il papavero ai fumatori di oppio, che cosa possano rappresentare i popoli antichi per i moderni populismi si può solo immaginarlo. L’ambizioso studio di Josephine Quinn In search of the Phoenicians (Princeton University Press, 2017, appena ripubblicato in edizione paperback) è un erudito approfondimento sull’uso e l’abuso dei «Fenici» dall’antichità a oggi.
Quinn ricostruisce meticolosamente i passaggi con cui l’idea che i Fenici fossero un popolo-nazione è emersa per legittimare l’ascesa prima di Cartagine, e poi di Roma, e si è infine cristallizzata come componente delle identità nazionali moderne tra Ottocento e Novecento.
Non abbiamo nessuna prova che dimostri che i Fenici si considerassero un popolo. Il termine greco phoinix (palma, fenice, colore rosso) è un palinsesto di significati e non l’espressione di una coscienza collettiva. La terra è chiamata nella Bibbia ora Canaan ora Fenicia in modo assai vago, e i Greci (per primo Erodoto) parlano di una leggendaria unione di marinai e commercianti mediterranei come Fenici, ma il termine racchiude tutti e nessuno. L’etichetta fu certo adoperata in diverse occasioni come strumento politico e culturale, ma non divenne mai una vera identità. I Fenici insomma non si consideravano Fenici, ma piuttosto abitanti di una particolare città, come Tiro, o Sidone, o Biblo, o Beirut, con tradizioni culturali e religiose civiche.
Non abbiamo prove che si considerassero una civiltà-nazione. Piuttosto, si sentivano abitanti di Tiro, Sidone, Biblo, Beirut. Gli imperi che governarono il vicino Oriente le governarono come entità semi autonome, mai come popolo unitario.
Cosa è successo allora?. Che fare, allora, dei reperti archeologici etichettati nei musei come «Fenici»? Secondo Quinn, il fatto che delle persone siano unite da manufatti o attività commerciali comuni o una lingua franca o da pratiche religiose non fa di loro un popolo. Sono stati i nazionalismi moderni a creare l’idea dei Fenici, assieme a molte altre concezioni del Mediterraneo antico, che a volte ancora oggi replichiamo, più o meno innocentemente.
Il popolo fenicio come civiltà-nazione, culla mistica e sede di invenzioni epocali come la scrittura o l’alfabeto, servì da prototipo per il Libano moderno.
Il «libanismo» si aggrappa all’immagine mitica dei Fenici eleggendoli ad antenati, campioni del commercio mediterraneo e precursori del monoteismo, diversi dalla cultura islamica del resto della Siria, disprezzata come poco civile.
Essere Fenici serve ai libanesi per affermare le loro radici occidentali, e soprattutto la loro diversità dagli arabi, come dimostra il loro slogan: «Non ci sono cammelli in Libano».
In Tunisia, dopo l’indipendenza dalla Francia si sviluppa intorno a Cartagine, colonia fenicia di Tiro, un culto delle antichità puniche come modello di rivalsa anticoloniale. Nell’estate postrivoluzionaria del 2014 si è festeggiato l’anniversario della battaglia di Canne del 216 a. C., in cui Annibale batté i Romani, e la fondazione della colonia di Cartagine ad opera della regina Elissa o Didone nell’814 a. C.
In Israele l’esistenza di una civiltà ebraico-fenicia del tempo di Davide e Salomone, in grado di colonizzare l’occidente, è stata evocata sia pro che contro il sionismo, mentre i nazionalisti arabi preferivano sostenere, con Erodoto, che i Fenici fossero originari della penisola arabica.
Alcuni eruditi irlandesi del XIX secolo credevano addirittura nell’esistenza remota di un insediamento fenicio in Irlanda, da cui si sarebbe originato l’irlandese! È il contrario del melting pot: in un mondo già meticcio da secoli, si ricercano radici identitarie, e se non ci sono s’inventano, come strategie di integrazione o di resistenza.
La città di Tiro è vista come il punto di partenza della colonizzazione fenicia del Mediterraneo occidentale. Il circolo dei tofet, cioè i resti dei santuari fenicio-punici in cui (forse) si svolgevano sacrifici di bambini, sono però un fenomeno ristretto geograficamente, praticato da un piccolo gruppo di migranti di lingua fenicia nel Mediterraneo centrale, da Cartagine a Malta, da Mozia a Cagliari.
Il legame religioso rinforzava i rapporti commerciali di queste comunità, che si affrancavano sia dalla madrepatria a est, che dagli altri migranti di origine levantina in occidente.
Entro il IV secolo a. C. diventò opportuno sia per Cartagine sia per Tiro enfatizzare il loro passato comune e i loro rapporti di parentela, visibili nel culto comune del dio Melqart. Questo permetteva ai Cartaginesi di presentare la loro crescente egemonia non come aggressiva espansione ai danni dei vicini, ma come riscoperta di un’antica fratellanza. La monetazione di Cartagine con il simbolo della palma ( phoinix) consolida questo discorso. Non dobbiamo perciò leggere le testimonianze archeologiche come tracce di una reale parentela etnica, ma semmai come prove dell’uso dell’etnicità al servizio del potere punico.
La sovrapposizione di Melqart con Eracle allarga la comunicazione anche alle comunità greche. La Fenicia acquisisce una dimensione geografica e politica unitaria solo sotto l’impero romano, e precisamente nel II secolo d. C. quando il nome Phoenicia fu attribuito a uno dei tre distretti che componevano la provincia di Siria. Non a caso è sotto Adriano che un certo Filone di Biblo scrive per primo una storia fenicia in greco, pervasa da forte nazionalismo che oggi diremmo postcoloniale, affermando di basarsi sugli scritti del leggendario Sanchuniathon, contemporaneo della guerra di Troia.
In realtà già in epoca ellenistica egiziani, babilonesi, ebrei ed altri popoli orientali si esercitano a tradurre le loro storie in greco, per dimostrare la propria superiorità culturale rispetto ai dominatori greci.
Non sappiamo come gli antichi si definissero, ma il primo a presentarsi esplicitamente come un Fenicio fu Eliodoro di Emesa (Homs in Siria), autore di un romanzo erotico, le Etiopiche, vissuto probabilmente al tempo dell’imperatore Elagabalo (218-222), anche lui di Emesa, che favorì un revival di culti fenici per legittimare il suo potere.
Le stimolanti tesi di Quinn non sono in realtà nuove, ma s’inseriscono in un consolidato filone di ricerca, fondato intorno al 1960 da Sabatino Moscati, che per primo si chiese chi fossero davvero i Fenici e si dedicò a un’analisi sistematica delle manifestazioni di quella che per lui era una civiltà non monolitica, ma multietnica e articolata. Quinn fa tesoro di questo mezzo secolo di studi, ma va oltre nel sostenere che non dobbiamo ricostruire l’etnicità fenicia, ma comprendere che essa stessa è una costruzione. La discussione risente certamente degli ultimi studi sull’invenzione della storia di Israele, come quelli di Shlomo Sand, The Invention of the Jewish Peo
ple (Londra, 2009), e The Invention of the Land of Israel: From Holy Land to Homeland (Londra, 2012), che, non più interessati a dimostrare apologeticamente la veridicità della Bibbia, al contrario s’interrogano sulla veridicità storica di alcuni luoghi comuni del nazionalismo ebraico, dai confini dello Stato biblico di Israele alle basi etniche della diaspora. Per chi avesse ancora dubbi sull’utilità della storia antica.
La Lettura, 16 febbraio 2021