La democrazia diffusa, di Giuseppe Remuzzi
Indipendentemente dal processo che si vorrà adottare, l’idea che i cittadini abbiano un ruolo attivo nel deliberare e che la società li metta in condizione di farlo alla lunga si dimostrerà vincente.
Mai nella storia dell’uomo ci sono state tante opportunità per chiunque di accedere a ogni genere di informazione ma anche di esprimere le proprie opinioni, sapendo che potranno condizionare quelle di molti altri. Di fatto ognuno di noi ha oggi (quasi) le stesse possibilità di far sentire la propria voce di chi è chiamato a decidere. Parrebbe la quintessenza della democrazia. Invece secondo un saggio appena pubblicato su «Science» da ricercatori di tanti Paesi — Australia, Stati Uniti (sei università), Belgio, Germania e Canada — siamo sempre meno capaci di argomentare e di apprezzare la complessità dei problemi di cui pure discutiamo ogni giorno con una certa disinvoltura (due esempi per tutti: i cambiamenti del clima e la recente infezione da Coronavirus). «Ma ci sono i politici — direte voi — li eleggiamo per questo». Vero, ma i politici sempre più spesso si affidano a soluzioni apparentemente semplici per problemi che richiederebbero studio, conoscenze e il contributo degli scienziati; non lo fanno quasi mai, tanto che in Italia e dappertutto privilegiano gli slogan all’argomentare.
Non solo, ma l’inciviltà delle élite e un modo di comunicare che è ormai malato si rinforzano a vicenda creando un circolo vizioso che prima o poi dovrà essere spezzato se non vogliamo mandare in crisi le società democratiche.
Ma come fare in pratica? Non si può sperare che le élite cambino il loro atteggiamento, l’avrebbero già fatto se ne fossero state capaci. E allora? Non resta che affidarsi ai cittadini. «Ma che evidenza c’è che i cittadini siano all’altezza di questo compito? Votano con cognizione di causa o sull’onda dell’emotività o della tendenza del momento?». E ancora: «Siamo di fronte a una crisi della capacità di ragionare della gente o è piuttosto una crisi del modo di comunicare che rende i cittadini più vulnerabili?».
Bisogna premettere che le analisi fatte finora per provare a rispondere a queste domande non aiutano, anche perché la maggior parte di questi studi — ce ne sono che risalgono addirittura agli anni Cinquanta — si focalizza su come ragiona ciascun individuo preso da solo.
Gli studi più recenti invece (fra cui uno, molto bello, dell’Università di Princeton, pubblicato nel 2013) hanno dimostrato come anche persone che hanno difficoltà a seguire un ragionamento logico se messe in condizioni di apprezzare la complessità dei problemi possono portare contributi costruttivi. Siamo nel campo di quella che gli anglosassoni chiamano deliberative democracy non molto lontano da quanto già teorizzava Aristotele ma che negli ultimi anni si studia più che in passato servendosi di approcci sperimentali, proprio come si fa nel campo della ricerca biomedica.
Uno degli esempi migliori di democrazia deliberativa è stata la Constitutional Convention dell’Irlanda. Dopo il disastro seguito alla crisi economica i cittadini sono stati chiamati a decidere persino su argomenti che avevano a che fare con la Costituzione — quanto deve stare in carica il presidente, per esempio, o se si può votare a 17 anni — oppure su temi sensibili come l’aborto o il matrimonio fra persone dello stesso sesso. A queste assemblee partecipavano soprattutto cittadini e pochissimi politici e la cosa ha funzionato, al punto da affermarsi anche in altre parti del mondo. In Mongolia per esempio e addirittura in certe parti dell’India dove le modifiche della Costituzione ormai devono essere precedute da consultazioni pubbliche cui prendono parte migliaia di persone in rappresentanza di gruppi d’interesse o associazioni di categoria, ma anche semplici cittadini sorteggiati proprio perché potessero portare il loro contributo a queste attività.
Ci sono altre esperienze già consolidate di democrazia deliberativa, quella dell’Oregon per esempio, scaturita da un’iniziativa dei cittadini (vista comunque di buon grado da chi era chiamato a legiferare), o dell’Australia, dove sono stati i politici a coinvolgere i cittadini grazie a un sistema di sorteggio che ne assicurasse la rappresentatività.
La democrazia deliberativa può anche «togliere le castagne dal fuoco» ai sindaci, quando per esempio la gente non è contenta di una certa decisione o protesta per qualche decisione che ritiene sbagliata e non c’è verso di trovare un accordo: in quei casi la strada più semplice per risolvere i problemi è proprio quella di coinvolgere i cittadini in esperienze di democrazia deliberativa. Lo hanno fatto in Germania con il progetto «Stuttgart 21» pensato per ristrutturare una linea ferroviaria. Risultato? Tempi lunghi, ma alla fine i politici si sono resi conto di quanto si possa fare grazie alla democrazia deliberativa per le grandi infrastrutture. Queste esperienze sono state così interessanti che stanno pensando di farlo persino in Cina, anche se, per adesso, sarà limitato a circostanze molto particolari; ma certo nessuno se lo sarebbe aspettato, almeno in quel Paese, anche solo qualche anno fa. Nemmeno i Paesi emergenti sono immuni da prove di democrazia deliberativa: è successo in Uganda, a Macao (l’ex territorio portoghese che fa parte della Cina ma gode di un’autonomia speciale), in Brasile e Bulgaria.
Doversi incontrare per deliberare è di per sé un processo di civiltà e abitua ad argomentare, anche se molti sociologi considerano la democrazia deliberativa un’utopia in un mondo ormai dominato da interessi economici, demagogia e populismo. «Con la scusa della democrazia deliberativa, i cittadini che non abbiano già determinate competenze possono essere facilmente manipolati». Può darsi, ma i dati che vengono da studi condotti in modo sufficientemente rigoroso — e che sono riportati nell’ultima edizione (2019) di Oxford Handbook of Deliberative
Democracy — non giustificano questo scetticismo. Tutt’altro. Si è visto che se messi nelle giuste condizioni, per esempio, e se li si espongono a tutti gli argomenti pro e contro una certa scelta, gli individui sanno orientarsi, si fanno guidare dai dati di fatto e possono persino cambiare idea. A questo punto ci si potrebbe chiedere se — a parte le difficoltà a organizzarsi su vasta scala — non possa essere proprio quella deliberativa la risposta alla crisi attuale della democrazia.
È chiaro che perché i cittadini possano partecipare con cognizione di causa a questi processi, dovranno avere a disposizione tutte le informazioni disponibili, presentate in modo pacato e neutrale da un facilitatore capace di avvalersi di testimonianze dal mondo reale a favore o contro una certa posizione (non è raro che le élite decidano a loro vantaggio e manipolino la realtà per piegarla ai propri interessi; questo, se i cittadini saranno chiamati sistematicamente a partecipare ai processi deliberativi, non succederà più).
Gli studi più recenti poi hanno messo in evidenza che la democrazia deliberativa tende a ignorare le posizioni estreme e questo potrebbe essere di grande interesse per il futuro della democrazia. Ci sono casi per esempio in cui la democrazia deliberativa supera il populismo utilizzando la ragione. Un esempio? In California è stato lanciato un progetto di democrazia deliberativa ( What’s Next California) basato sul coinvolgimento dei cittadini — più di 300 in rappresentanza delle varie regioni dello Stato — che sistematicamente dialogavano con politici ed esperti dei vari settori su temi che coinvolgono da vicino la vita della gente. Dopo esercizi come questo si è visto che il consenso alle proposte populiste dei politici di professione calava enormemente. C’è poi una condizione in cui la democrazia deliberativa è particolarmente preziosa ed è quando l’ideologia diventa denominatore comune dell’identità di un gruppo di potere e viene usata per screditare il punto di vista degli altri. Un altro caso altrettanto emblematico è quello di gruppi etnici o religiosi che si riconoscono in certe posizioni e non ne considerano altre per principio. Di solito questi gruppi sono chiusi a influenze esterne, ma si è visto che possono capire le ragioni degli altri in contesti di democrazia deliberativa: è successo in Colombia, Belgio, Irlanda del Nord e Bosnia.
Più si va avanti, più le tecniche che si usano per mettere in pratica la democrazia deliberativa cercheranno di includere tutti i cittadini, anche quelli tradizionalmente meno portati a discutere in pubblico e ad argomentare con un certo grado di sofisticazione o che non hanno avuto l’opportunità di un’istruzione avanzata. Ma non sarà facile: a loro si dovrà prestare un’attenzione speciale, e le opzioni oggetto di deliberazione dovranno essere presentate attraverso esempi presi dalla vita reale piuttosto che con ragionamenti teorici (chissà se quelli che hanno voluto la Brexit sanno che per uscire dall’Europa la Gran Bretagna dovrà versare all’Europa più di quanto ha fatto negli ultimi 50 anni?), ma gli psicologi che si stanno dedicando a questa materia sono ottimisti: ci si arriverà, dicono. Anche se non vanno sottovalutati i problemi logistici: chiedere alla gente di deliberare richiede una grande organizzazione e porta via molto tempo, anche perché i cittadini devono potersi incontrare e questo richiede spazi adeguati e costa molto.
D’altra parte, però, quello che si perde con questo approccio lo si potrebbe guadagnare arrivando a soluzioni sostenibili, percorribili e creative più di quanto non succeda con i sistemi tradizionali. Un discorso a parte meriterebbero i social network; molti politici li usano male — forme di comunicazione patologica, dicono gli anglosassoni — ma perché non provare a usarli bene, così che i cittadini possano davvero far sentire la propria voce in un contesto pacato e costruttivo? Ci sono algoritmi creati per certificare la qualità dell’informazione e se ne potrebbero sviluppare altri che aiutino a giudicare quanto sia veritiero o quantomeno verosimile quello che viene proposto. I social potrebbero diventare meno social e più occasione di confronto politico ad alto livello fra chi legifera e i cittadini (in Irlanda l’incontro fra chi stava in Parlamento e la gente è avvenuto proprio così, con risultati che sono ormai sotto gli occhi di tutti).
Naturalmente non dobbiamo illuderci che certe forme di democrazia deliberativa non possano essere strumentalizzate o che qualcuno se ne possa servire per ragioni di facciata continuando comunque a privilegiare le solite lobby; è questione di sapere che può succedere e vigilare. Non manca chi è critico: sempre su «Science», Noel Castree — un professore di Manchester che si occupa di relazioni tra capitalismo e ambiente — fa notare che se i politici fossero capaci di legiferare in modo adeguato non ci sarebbe bisogno di democrazia deliberativa. Vero. Ma l’esperienza di questi tempi nei Paesi industrializzati dimostra che ormai legiferare in modo equilibrato ed efficace è sempre più raro. Anche in considerazione di veti incrociati e scontri pregiudiziali fra fazioni che quasi mai lavorano per trovare un’intesa e quasi sempre per riaffermare le loro ragioni senza curarsi delle evidenze che la scienza mette loro a disposizione.
A questo punto coinvolgere i cittadini è d’obbligo, secondo gli autori del lavoro originale di «Science» che non sono i soli a pensarla così. In un lavoro, De mocracy when the people are thinking, pubblicato da Oxford University Press nel 2018, James S. Fishkin conclude sostenendo che il processo deliberativo da parte dei cittadini non sarà il migliore possibile ma a forza di sperimentare potrà essere certamente perfezionato, adattato a vari contesti e diverso a seconda dell’importanza delle decisioni da prendere.
Indipendentemente dal processo che si vorrà adottare, l’idea che i cittadini abbiano un ruolo attivo nel deliberare e che la società li metta in condizione di farlo alla lunga si dimostrerà vincente: la voce dei cittadini conta, va ascoltata, aiutata a crescere e valutata molto attentamente. Potrebbe essere la sfida del futuro. Tutto questo però non avviene per caso, è necessario che studiosi di questa materia, cittadini determinati e leader politici illuminati si incontrino; già questo potrebbe essere un primo passo verso forme di democrazia deliberativa sempre più consapevoli ed efficaci e metterebbe le basi per un rinnovamento del modo di fare politica al punto da salvare (forse) la democrazia.
Da la LETTURA, 16 FEBBRAIO 2021