La lunga gestazione del Piano di rinascita della Sardegna: 1950-1962, di Vincenzo Medde

Sommario: 1. La Sardegna negli anni Cinquanta. 2. Che fare?  3. Il Congresso del popolo sardo per la rinascita 6-7 maggio 1950. 4. Il Primo schema di un piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna. 5. La Democrazia Cristiana non partecipa al Congresso del popolo sardo. 6. La via istituzionale al Piano di rinascita. 7. La Fondazione Rockefeller e la rinascita sarda. 8. 1951-1958. Una Commissione economica di studio per il Piano di rinascita. 9. 1959. Il Gruppo di lavoro. 10. 1962. Il Piano di rinascita. 11. Una lunga e difficile gestazione.

Il Popolo sardo ascolta la presentazione di un’opera della Rinascita.

Fonte: https://www.iconur.it/storia-degli-uomini/67-la-lunga-gestazione-del-piano-di-rinascita-della-sardegna-1950-1962

 

«Per tutto il primo trentennio, la storia dell’autonomia in Sardegna consiste nelle vicende del Piano di rinascita: dalla sua predisposizione e approvazione (1950-62), ai tentativi di attuazione (1965-69), ai sempre più evidenti insuccessi (1969-74), al suo rifinanziamento (1974)».1

«Una posizione di attesa piuttosto passiva e miracolistica».2

1. La Sardegna negli anni Cinquanta

«Oggi, in una regione che rientra a pieno titolo nella parte più opulenta e sviluppata del mondo, sono difficilmente immaginabili le condizioni di assoluta povertà, di arretratezza e di fame dell’Isola, non solo nel periodo bellico e immediatamente successivo, ma per tutti gli anni Cinquanta. Per oltre un decennio, una miseria corale avvolge città e campagna, zone dell’interno e località marittime» (Accardo: 17; ma l’espressione «miseria corale» è ripresa da Mannironi e Polano: 353).

Tale situazione emergeva, con l’impatto del racconto delle situazioni concrete, dall’indagine parlamentare sulla miseria in Italia, che in Sardegna era stata condotta nel dicembre del 1952 da Salvatore Mannironi (DC) e Luigi Polano (PCI) tramite sopralluoghi diretti e interviste alle autorità locali.

Secondo la narrazione dei due parlamentari, era impressionante in primo luogo il numero di bambini malnutriti perché si alimentavano solo con pane e verdura; su dieci bambini di tre famiglie di un paese del Nuorese, ad esempio, tre mangiavano carne una volta per le festività di Pasqua e di Natale, quattro bevevano latte la domenica, sei mangiavano regolarmente una zuppa di verdura, pane e granturco. Nello stesso paese la scuole erano frequentate soprattutto da femmine, perché i maschi erano impegnati ad aiutare i genitori al lavoro. Gli alunni delle cinque classi elementari (29 in prima, 16 in seconda, 18 in terza, 10 in quarta, 7 in quinta) erano ospitati in un’unica aula, in effetti una stanza di una casa di abitazione; il 70% risultava privo di scarpe (Mannironi e Polano: 357).

 

 

 

 

 

2. Che fare? (Nella foto: A. Segni presid. del Consiglio, parla ad una iniziativa della Rinascita)

«Noi abbiamo coscienza che la rinascita dell’Isola sarà più opera dei sardi e di quanti altri vivono con loro che non dei governi di Roma», così, orgogliosamente, si era espresso Emilio Lussu alla Costituente (Maurandi: 268). Eppure, perno di elaborazione politica e principale strumento di rivendicazione nei confronti di Roma, per molti anni sarà quell’articolo 13 dello Statuto speciale che, approvato con legge costituzionale del 26.2.1948, recitava: «Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola», ove il ruolo dello Stato appariva di già preponderante perché alla Regione Sardegna spettava appunto solo di concorrere.

D’altra parte, almeno dal primo dopoguerra, era quasi luogo comune pensare che lo Stato fosse in debito nei confronti della Sardegna, la quale, di converso, si aspettava di essere in qualche modo risarcita da un intervento esterno che servisse ad innescare lo sviluppo dell’Isola, premessa di un processo di convergenza con le regioni più sviluppate del Paese.

 

Tant’è che i rappresentanti sardi nella Commissione d’inchiesta sulla miseria in Italia del 1952 formulavano pressanti auspici affinché la Sardegna fosse destinataria di «un complesso di provvidenze a carattere straordinario, da assolversi con mezzi di carattere straordinario» (Mannironi e Polano), e P.M. Arcari, che aveva condotto in Sardegna l’Inchiesta sulla disoccupazione in Italia, sollecitava il soccorso di un impulso esterno, un intervento su larga scala mirato alla trasformazione il più possibile contemporanea dei vari settori di attività, dato che sporadici e disorganici interventi non sarebbero stati sufficienti a determinare un cambiamento sostanziale della situazione (Arcari: 684, 690, 732). Infine, ma gli esempi potrebbero essere assai numerosi, Renzo Laconi, dirigente comunista e deputato, in un intervento del 1944 sostenne che «una soluzione autonomistica in regime capitalistico è dannosa perché in Sardegna si potrà agire solo per riflesso dell’Italia settentrionale e centrale, mentre in regime di autonomia avrà buon esito il movimento reazionario» (cit. in Sotgiu: 16).

Nessuna meraviglia allora se sulla realizzazione dell’articolo 13 dello Statuto sardo, e dunque su un complesso di rivendicazioni nei confronti dello Stato, si verrà negli anni costruendo l’identità dei gruppi dirigenti in Sardegna, la quale, almeno per una fase importante, unirà destra e sinistra, democristiani e comunisti in una “intesa autonomistica” dove la discriminante regionalistica se non etnica sembrerà prevalere su una pur rivendicata discriminante di classe e di concezioni del mondo alternative.

L’art. 13 dello statuto speciale per la Sardegna, dice: «Lo Stato, con il concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola». Era, in estrema sintesi, la riproposizione della tesi che lo sviluppo socio-economico della Sardegna dipendeva da un intervento speciale dello stato, seppure in accordo con le comunità interessate.

Ma le potenzialità rivendicative ancorate all’articolo 13 non vennero immediatamente colte dalla classe politica isolana e ancor meno da quella dirigente l’istituto autonomistico.

Furono infatti le forze sociali e di opposizione, sindacali e politiche, che costruirono dal basso la prima rivendicazione di un piano di intervento statale mirato alla rinascita della Sardegna e ancorato ad una particolare interpretazione dell’art. 13.

 

3. Il Congresso del popolo sardo per la rinascita 6-7 maggio 1950.

A conclusione di una serie di iniziative in tutta l’Isola promosse dalla CGIL, le camere del lavoro di Cagliari, Sassari e Nuoro il 6 e 7 maggio 1950 organizzarono a Cagliari un congresso nel quale per la prima volta si formulò uno schema di piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna; insieme, venne chiesta la creazione di un organismo che avrebbe dovuto coordinare gli interventi nei settori agricolo e minerario.

La relazione di apertura, affidata a Renzo Laconi, volle precisare che si trattava di «iniziative fondate sulla Costituzione e sullo Statuto, ed intese ad unire tutti i sardi onesti, al di là di ogni divisione ideologica o di partito, in una comune azione autonomistica» e che il Piano del lavoro della CGIL nazionale (al quale il congresso si riallacciava) «non presuppone e non intende determinare nessuna rivoluzione sociale: esso è unicamente un piano di lavoro e di produzione, attuabile nel presente ordinamento capitalistico dell’economia italiana» (Laconi: 237, 240).

Nella relazione veniva, di fatto, recuperata l’impostazione riformistica che era stata negli anni Venti di Filippo Turati ed erano riprese diverse tematiche del suo discorso Rifare l’Italia, ma senza farvi esplicito riferimento, anche se Togliatti al V congresso del Pci (dic-genn 1946) aveva sentito il bisogno di ricollegarsi al discorso del leader del socialismo riformista per riproporne, seppure in un contesto profondamente mutato, la sostanza e la direzione, in vista, anche nel secondo dopoguerra, della ricostruzione dell’Italia.

Così, anche se si ammetteva che il Piano proposto per la Sardegna non pretendeva nessun particolare tipo di originalità e che «nel compilarlo noi non ci siamo sforzati di fare opera originale, bensì di raccogliere in una visione coerente le proposte ed i piani particolari più seri e meglio rispondenti alle esigenze generali» (Laconi: 246), di fatto ogni riferimento ai piani di Turati, Omodeo, Porcella, Pierazzuoli, Dolcetta e alle realizzazioni sul Tirso e ad Arborea venne accuratamente evitato, anche se gli uni e le altre avevano fortemente caratterizzato il dibattito tra le forze politiche, e negli ambienti tecnici e finanziari nei primi decenni del Novecento nel Paese, nel Meridione e in Sardegna.

Sarà Salvatore Pirastu, segretario del congresso, a riconoscere, ma molti anni dopo: «A distanza di anni si sono poste molte domande sul Congresso del Popolo sardo e sui suoi risultati, che meriterebbero approfondimenti. Prima domanda: si è trattato di proposte, politicamente e culturalmente nuove, capaci di far superare la secolare arretratezza dell’Isola? A me sembra che queste linee possano essere comparate a quelle del cosiddetto Piano elettro-irriguo (diga del Tirso, bonifica del territorio), elaborato nei primi decenni del secolo scorso e realizzato tecnicamente dall’ing. Angelo Omodeo, socialista, politicamente dal riformismo socialista (Filippo Turati) e da quello democratico (Francesco Saverio Nitti) e finanziariamente dalla Banca commerciale e dalla Bastogi. Il riformismo sta ridiventando di moda da poco. Ma prima era bandito dalla sinistra» (Pirastu: 46).

4. Il Primo schema di un piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna.

Al congresso, come precisava Laconi, era affidato il compito di dare «forma definita al Piano economico e sociale» che era stato discusso nelle riunioni a livello locale durante quattro mesi.

Il piano doveva essere la risposta globale e complessiva alla situazione di crisi gravissima che attraversava la Sardegna: crisi dell’occupazione, prima di tutto, ma anche «crisi più vasta che investe, via via, tutti i settori della organizzazione economica dell’Isola e tocca, direttamente o indirettamente, i più diversi gruppi e strati sociali» (Laconi: 238-39).

Secondo una ricognizione più dettagliata, i problemi della Sardegna venivano così individuati: spopolamento, la più bassa densità demografica del paese, bassa percentuale della forza lavoro sul complesso della popolazione, numerosi disoccupati, strade e ferrovie insufficienti, isolamento dei villaggi, fognature e acquedotti insufficienti, diecine di comuni privi di energia elettrica, polverizzazione della proprietà agraria, limitata estensione delle terre coltivate, sistemi di coltivazione e allevamento primitivi, strutture industriali e commerciali deboli e precarie.

Vi erano però gli strumenti e le occasioni per uscire dall’arretratezza e dalla situazione di crisi endemica. Gli strumenti: il governo regionale autonomo, che in una larga sfera di materie ha la facoltà di esercitare pienamente i poteri legislativi, e l’art. 13 dello Statuto sardo, che stabilisce l’impegno dello stato a disporre, con il concorso della Regione, un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Le occasioni Laconi le intravedeva nel convergere di correnti diverse di opinione provenienti dai più diversi settori politici verso il comune obbiettivo di utilizzare l’autonomia per favorire l’innesco di un processo che portasse la Sardegna fuori della crisi e dell’arretratezza.

L Crespellani, presidente, Ef. Corrias e P. Melis, assessori.)

I punti qualificanti del piano venivano poi così individuati:

1. Riforma agraria, bonifiche, opere di trasformazione agraria da realizzare con «un intervento unitario dello Stato, attraverso un suo apposito organo regionale» che integri l’insufficiente iniziativa privata, per moltiplicarla e rinnovarla, sostituendosi ad essa negli impegni di maggiore portata (Laconi: 256).

Laconi richiama l’avvertenza scaturita da un precedente convegno: «L’intervento dello Stato non deve risolversi né in un premio per la grande proprietà assenteista né in un esproprio di proprietari sardi a favore di grandi istituti finanziari del Continente, ma deve tenere ad appoderare la terra bonificata, assegnandola a coloro che offrono garanzia effettiva di fare i lavori necessari alla trasformazione fondiaria attraverso un reimpiego effettivo dei profitti ricavati dalla produzione della terre bonificate e irrigate e in particolare ai contadini senza terra e alle loro associazioni cooperative» (Laconi: 270).

2. Creazione di aziende agro-silvo-pastorali, con una estensione dei prati artificiali e degli erbai permanenti e avvicendati, in cui l’allevamento del bestiame possa trovare una maggiore razionalità tecnica ed una maggiore stabilità economica.

3. Capovolgimento del prevalente indirizzo produttivo in materia di energia elettrica: i bacini di raccolta esistenti devono essere destinati all’irrigazione e non più alla produzione di energia elettrica, energia che verrà invece assicurata da nuove centrali termiche a carbone, minerale che in Sardegna abbonda («abbiamo quanto carbone vogliamo e lo abbiamo quando e come lo vogliamo» Laconi: 267), ciò che poi contribuirà ad abbattere l’attuale monopolio della produzione e distribuzione dell’energia elettrica.

4. Risanamento delle industrie estrattive e incremento delle industrie metallurgiche e chimiche attraverso la creazione delle condizioni affinché dal carbone sardo si possano ricavare azotati sintetici e affinché il ferro e lo zinco e i refrattari possano essere lavorati e trasformati nell’Isola, piuttosto che inviare il minerale grezzo nel continente.

5. «Una decisiva politica di investimenti e di lavoro che assicuri il pieno impiego della manodopera sarda e apra la strada a una larga immigrazione dalle altre regioni d’Italia sì da promuovere il ripopolamento dell’Isola e la maggiore valorizzazione del suolo coltivabile» (Mozione conclusiva del Congresso in Pirastu: 240).

6. Istituzione di un unico ente «che diriga, attraverso distinte direzioni tecniche, sulla base di piani coordinati, da un lato la colonizzazione, dall’altro l’utilizzazione delle acque ed in terzo luogo il grande complesso industriale delle miniere carbonifere e delle centrali termoelettriche» (Laconi: 269).

5. La Democrazia Cristiana non partecipa al Congresso del popolo sardo.

La fiducia di Laconi in una convergenza di diversi settori politici verso il comune obbiettivo di utilizzare l’autonomia per favorire l’innesco di un processo che portasse la Sardegna fuori della crisi e dell’arretratezza, risultò in effetti troppo ottimistica.

La Democrazia Cristiana, infatti, partito di maggioranza relativa, che nelle elezioni del primo Consiglio regionale nel 1949 aveva ottenuto 34% dei voti e 22 consiglieri, non volle partecipare, perché riteneva il Congresso e le iniziative ad esso collegate troppo politicizzate in senso antigovernativo.

Come esplicitava ufficialmente un comunicato dell’Ufficio stampa della Dc, il Congresso, egemonizzato da comunisti e socialisti, aveva più che altro un contenuto «illusorio e propagandistico», dato che si limitava ad indicare «problemi già noti che sono stati studiati e impostati su un piano di proposte e di realizzazioni concrete dagli organi di governo centrali e regionali e dai gruppi parlamentari democristiani» (Lecis: 32).

6. La via istituzionale al Piano di rinascita.

Il 14 ottobre 1950 una mozione dei consiglieri di Pci, Psi e del Partito sardo d’Azione socialista di Emilio Lussu porta in Consiglio regionale i risultati complessivi del Congresso del popolo sardo; così, l’iniziativa partita dalle forze sociali, approda nelle sedi istituzionali. La mozione proponeva anche di costituire una Commissione consiliare con il «compito di preparare con l’ausilio degli organi tecnici della Regione e d’accordo con la Giunta un progetto di Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna da presentare al Governo» (cit. in Del Piano: 33). L’intento era quello di affidare la predisposizione e l’attuazione del Piano ad organismi regionali.

La discussione in Consiglio regionale portò, con l’approvazione di un odg concordato, ad una decisione più interlocutoria e più sfumata circa il ruolo della Regione che si basava su due punti: 1) «costituzione, di intesa col Governo della Repubblica, di un’organizzazione con sede in Cagliari avente il compito dello studio» del Piano; 2) costituzione di «una commissione consiliare speciale di undici componenti […] avente i seguenti compiti: a) segnalare alla Giunta regionale le eventuali proposte da presentare agli organi di studio del piano; b) sentire la relazione che la Giunta regionale le farà periodicamente circa lo svolgimento degli studi di cui sopra; c) esaminare il piano che, a conclusione di tali studi, sarà definitivamente formato e proposto e riferire in merito al Consiglio in sede di approvazione del piano stesso» (cit. in Del Piano: 37).

Alla Commissione consiliare regionale, a questo modo, sarebbero spettati compiti più marginali rispetto a quelli indicati nella mozione delle sinistre che aveva innescato il dibattito. «Si preferì in sostanza, la strada che avrebbe portato, nel dicembre 1951, alla costituzione di una Commissione economica di studio per la Rinascita della Sardegna» (Soddu 1994: 22).

Il presidente della Giunta, Luigi Crespellani, nel suo intervento nel dibattito giustificò tale indirizzo con l’argomento che «l’iniziativa del piano era riservata allo Stato» (Sotgiu: 81), e infatti il governo aveva invitato la Giunta a prendere contatti con il ministro Campilli affinché si procedesse d’intesa alla nomina di un comitato tecnico direttivo di esperti e alla raccolta dei dati necessari alla stesura del piano.

Questa posizione venne giudicata dalle sinistre negativamente, perché a questo modo la Democrazia Cristiana rifiutava la proposta di assegnare alla Regione Sardegna una funzione primaria nell’attuazione dell’art. 13. I sardisti, a loro volta, temevano che il piano dell’art. 13 venisse ridotto a uno spezzone degli interventi della Cassa per il Mezzogiorno.

La discussione in consiglio, comunque, si concluse in modo unitario, come detto, con un odg che, per la sua genericità, trovò l’accordo della Dc e delle sinistre.

7. La Fondazione Rockefeller e la rinascita sarda.

Sull’onda del successo nella lotta contro la malaria, realizzato tra il 1946 e il 1950 con il Sardinian Project, la Fondazione Rockefeller si propose anche come organizzazione in grado di elaborare un piano per l’uscita della Sardegna dal sottosviluppo. Si trattava di una proposta logica, già implicita nella filosofia del Project ; questo infatti aveva fatto propria l’idea diffusa che uno dei principali fattori che ostacolavano lo sviluppo dell’economia sarda, e in particolare dell’agricoltura, fosse proprio la presenza millenaria della malaria. L’eliminazione di quest’ultima apriva dunque in Sardegna una seconda fase, quella dello sviluppo.

In una lettera a Lorenzo Del Piano del luglio 1981 John A. Logan, capo del Sardinian Project, ricordava: «a seguito del successo del progetto Erlaas, la Fondazione Rockefeller riteneva che in Sardegna potesse avere inizio una nuova epoca di progresso sociale, economico, industriale. Si pensava che tale progresso poteva essere favorito al meglio se si fosse seguito un piano coerente. L’Erlaas disponeva, ancora al completo, di un gruppo di tecnici qualificati, e inoltre avevamo coinvolto numerosi consulenti, fra i quali Lord John Boyd-Orr (presidente della Fao), per proporre delle raccomandazioni su come l’Isola avrebbe potuto trarre vantaggio dalle nuove opportunità. Conseguentemente, fu elaborata una proposta di accordo con la McGill University di Montreal, Canada, per rendere disponibili una larga serie di competenze da utilizzare per la predisposizione di un piano» (cit. in Del Piano: 40).

Tra la fine del 1949 e l’inizio del 1950 Logan interpellò John Boyd-Orr in merito alla possibilità di coinvolgere gli Americani in un piano per la Sardegna. Boyd-Orr rispose con una lettera dell’8 giugno 1950, nella quale, premesso che: «la eliminazione della malaria dev’essere considerata semplicemente il presupposto di un grande programma di bonifica … se così non fosse, sorgerebbe il pericolo di perdere il beneficio già realizzato», proponeva di

«costituire un comitato di 8-10 persone di grande esperienza, di fama internazionale in materia di sviluppo di zone depresse, come è la Sardegna, aggiungendoci anche dei sardi o comunque italiani che abbiano buona conoscenza delle condizioni di vita, delle leggi e delle tradizioni e dei costumi locali. […]

Le persone prescelte per formare il suddetto comitato dovrebbero lavorare in Sardegna non più di poche settimane. Sarebbe perciò necessario nominare un Presidente, preferibilmente il dirigente dell’Erlaas ed un Segretario, anch’egli dell’Erlaas, al fine di avere continuità di azione.

Tale comitato dovrebbe avere il compito di segnalare i vari esperti necessari per lo studio delle possibilità industriali ed economiche ai fini dell’elaborazione di un piano di sviluppo a largo raggio. L’elaborazione di questo piano potrebbe essere portata a compimento entro un anno, ma nel frattempo il comitato potrebbe studiare e proporre un piano da attuarsi a breve scadenza nei settori dell’agricoltura, delle foreste e delle peschiere, con lo scopo di aumentare la produzione, ad esempio del 50% in 5 anni. L’attuazione di questo piano immediato servirà a sostenere l’entusiasmo suscitato dal successo ottenuto con l’eliminazione della malaria e potrà armonizzarsi con qualunque piano da attuarsi su più vasto raggio. […]

La realizzazione di questo piano di rinascita della Sardegna è della massima importanza, non solo per la Sardegna, ma anche per tutte le altre zone del mondo che presentano analoghi problemi sul terreno delle malattie che possono essere prevenute, e della povertà che può essere ovviata. Tale piano per la Sardegna dovrebbe essere effettuato con la massima urgenza, anche col rischio di commettere degli errori che però potranno essere prontamente corretti dall’autorità centrale tempestivamente informata. I risultati si manifesteranno entro pochi anni e l’esperienza acquisita in Sardegna potrebbe essere utilizzata per lo sviluppo di altre zone del mondo, anche attraverso l’organizzazione delle Nazioni Unite, istituita appunto a tale scopo, o in difetto, da capitali americani in collaborazione con i governi interessati» (cit. in Del Piano: 43-45).

Nel luglio 1950 il progetto di Logan venne sottoposto all’esame del ministro Leon Dayton, allora capo dell’Eca per l’Italia. Nella descrizione del progetto Logan chiariva preliminarmente: «Il progetto Erlaas fu originariamente tracciato come un esperimento volto ad ottenere il controllo della malaria per mezzo della eradicazione della specie vettrice ed è stato messo in attuazione considerando ciò come obiettivo principale. Man mano che il lavoro procedeva, è apparso sempre più evidente che il valore principale del Progetto, tanto per la Sardegna quanto per l’Italia, consisteva nella rinascita economica e sociale».

Lo scopo del progetto consisteva nell’approntare «uno studio economico-sociale della Sardegna, sotto la direzione della Fondazione Rockefeller» diviso in 5 settori principali: a) Agricoltura; b) Minerali; c) Scienze sociali; d) Industria; e) Commercio e Finanze. La raccolta e catalogazione dei dati base su ciascuno dei settori potrà avere inizio il 1° ottobre 1950 e protrarsi per un periodo di sette mesi. Durante questo periodo gli esperti tecnici di ogni settore visiteranno l’Isola. Entro il 15 maggio 1951 verranno preparate relazioni di settore, sulla scorta delle quali sarà elaborata una relazione complessiva ed unitaria in modo che sia pronta il 15 luglio 1951.

Un esame del progetto Logan venne svolto anche il 31 agosto ed il 5 settembre, presso il ministro Pietro Campilli, da funzionari del governo italiano, della Regione Sardegna e dell’Eca, ai quali ultimi però fu subito chiarito che l’articolo 13 dello Statuto speciale per la Sardegna stabiliva che il piano di rinascita doveva essere elaborato dal governo italiano d’intesa con la Regione: tuttavia la collaborazione della Rockefeller, come dichiarò più tardi il presidente Crespellani, avrebbe potuto essere «specie per alcuni settori quanto mai apprezzabile (Del Piano: 46, 90, 92).

Venne anche approvato, il 21 settembre 1950, uno schema di convenzione tra governo, regione, Eca e Rockefeller, nel quale però si sottolineava come l’utilizzo di esperti provenienti da altri paesi fosse solo una semplice eventualità. Ciò che poi in effetti significava che i gruppi dirigenti sardi si erano oramai allontanati «dall’epopea dell’eradicazione della malaria, guidata dai tecnici della Rockefeller» (Pira: 214).

Infatti, il 20 febbraio 1951 Logan scrisse a Crespellani per ricordargli che «con riferimento alla nostra conversazione di sabato scorso, 17 febbraio, era stato originariamente raccomandato che il proposto piano per la Rinascita Economica e Sociale della Sardegna fosse condotto quale parte integrante ed a continuazione dell’attività dell’Erlaas»; eppure, continuava Logan, «La Fondazione Rockefeller non ha mai ricevuto comunicazione ufficiale circa l’intenzione di condurre questo studio, e data l’apparente riluttanza da parte del Governo a prendere i relativi provvedimenti, era stata portata a credere che tale progetto sarebbe stato condotto sotto gli auspici dell’Eca ma senza l’appoggio del Governo. La Fondazione pertanto decise di intraprendere altri lavori assegnandovi il suo personale e l’Eca fu avvertita lo scorso novembre della sua intenzione di non prendere in considerazione un eventuale invito a partecipare allo studio in qualità di consulente» (cit. in Del Piano: 96).

Dalle parole di Logan sembrerebbe che l’offerta della Rockefeller sia stata in buona sostanza lasciata cadere sia a livello governativo che regionale. Secondo L. Del Piano la responsabilità di questa estromissione ricade principalmente sul governo nazionale per «l’ovvio desiderio di alcuni uomini politici di gestire in proprio il piano di rinascita, evitando non gradite interferenze» (Del Piano: 68). Ciò che, però, non giustifica l’atteggiamento remissivo dei democristiani sardi, che subirono, di fatto, l’iniziativa nazionale senza avere il coraggio o la forza di giocare in proprio la partita con la Rockefeller.

Vi furono precise responsabilità anche della sinistra comunista e socialista, la quale, sulla stampa e in consiglio regionale, con gli interventi di autorevoli esponenti come Velio Spano, Girolamo Sotgiu, Giovanni Lay, Armando Zucca, si oppose all’intervento degli Americani perché la rinascita della Sardegna non poteva realizzarsi con i rappresentanti delle forze capitalistiche, e straniere per di più, le quali avrebbero ridotto l’Isola ad avamposto statunitense dell’aggressione contro la patria del socialismo, l’Unione Sovietica. Tale rifiuto rifletteva anche la posizione del Pci a livello nazionale, la quale, a sua volta, seguiva le direttive di Stalin di respingere gli aiuti del Piano Marshall, volti solo a minare l’indipendenza dei paesi europei per far passare le scelte economiche e politiche dell’imperialismo americano. Tali direttive erano state imposte dai Sovietici con un telegramma dell’8 luglio 1947 a tutti i capi di governo dell’Europa orientale, diffidandoli dal partecipare alla Conferenza sul Piano Marshall del 12 luglio. E i partiti comunisti italiano e francese non erano certo esentati dal seguire tali direttive.

È però difficile capire che cosa sia veramente successo, anche perché alla vicenda dell’interesse americano al piano di rinascita gli storici sardi hanno dedicato scarsa attenzione quando non una infastidita sufficienza, non suffragata per altro dalla ricerca dei documenti e dalla loro disamina critica. L’unico che vi abbia dedicato uno studio è stato Lorenzo Del Piano nel libro intitolato Il sogno americano della rinascita sarda.

Perché il governo regionale e nazionale rifiutò l’intervento della Rockefeller? L. Del Piano, a proposito del rifiuto nei confronti della Rockefeller si è chiesto se tale rifiuto non dovesse essere attribuito al timore di «un confronto diretto tra l’efficienza della quale, pur avvalendosi, per la quasi totalità, di personale italiano, avevano dato prova gli americani nella lotta contro la malaria e quella, ancora da dimostrare, dei nuovi organismi di attuazione della politica autonomista e meridionalista» (Del Piano: 69).

E Stefano Pira rimarca: «Crespellani, nel rivendicare puntigliosamente le tappe dei contatti tra il governo regionale, quello nazionale e i funzionari dell’ECA, rivelava la preoccupazione continua per il metodo da adottare più che per l’urgenza dei risultati da conseguire» e anche il timore di «una sorte di colonizzazione tecnocratica americana nei confronti del futuro Piano di rinascita che si voleva avviare e gestire secondo i tempi, i modi e le regole politiche, burocratiche nazionali e regionali» (Pira: 213-214).

Secondo Mario Melis, due volte presidente della Regione Sardegna, il governo e i democristiani, sia nell’Isola che a Roma, rifiutarono non i finanziamenti della Rockefeller ma la gestione degli Americani, volendo in effetti mantenere il pieno controllo delle risorse anche a fini elettorali e di consenso.

In effetti, la spiegazione di Mario Melis era stata proposta dal corrispondente dall’Italia del «New York Times», Camille M. Cianfarra, il quale, in un articolo pubblicato il 27 marzo 1951 sosteneva che il piano della Rockefeller, approvato dal ministro Pietro Campilli nell’agosto del 1950, era stato poi messo da parte sia per evitare le proteste di altre regioni contro il privilegio accordato alla Sardegna, sia per accaparrarsi i benefici di una gestione del piano senza l’intralcio degli Americani (New York Times; Pira: 216-217).

8. 1951-1958. Una Commissione economica di studio per il Piano di rinascita.

Accantonata la proposta della Rockefeller, nel dicembre del 1951, d’intesa con la Giunta regionale, il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno e il suo presidente Pietro Campilli costituirono una Commissione economica di studio per il Piano di rinascita della Sardegna con il compito di studiare le risorse dell’Isola e di indicarne le possibili vie di valorizzazione economica da organizzare poi in un programma organico di intervento.

Per mancanza di risorse la Commissione iniziò i suoi lavori nel maggio-giugno 1954. E solo quattro anni dopo, nell’ottobre 1958, presentò al nuovo presidente del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, Giulio Pastore, un Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di Rinascita e un programma di sviluppo economico e sociale rispondente alle finalità dell’art. 13 dello Statuto, da attuarsi in una prima fase di dieci anni e in una seconda di trenta anni, per un investimento complessivo di 862 miliardi di lire, di cui 546 a carico dello Stato. (Il Piano di Rinascita.

La Commissione individuò nell’agricoltura il volano per lo sviluppo dell’Isola ritenendo che l’industria avesse una funzione importante ma, nel complesso e nel contesto sardo, una valenza secondaria.

«Nel settore industriale sussistono fattori di dinamismo assai importanti, quali il costo relativamente basso delle aree edificabili, il minor costo della mano d’opera locale, la disponibilità in loco di certe materie prime e di energia. Tuttavia non sembra possibile individuare, attualmente, nel settore industriale fattori propulsivi, sia pure potenziali, così importanti come quelli esistenti nel settore agricolo. Il far coincidere sviluppo economico con industrializzazione, o peggio ancora, con industrializzazione forzata, potrebbe rivelarsi errore di notevole gravità» (Rapporto Commissione di studio I: 14).

La Commissione, inoltre, volle mettere in chiaro che gli obbiettivi di sviluppo potevano essere conseguiti solo se agli investimenti pubblici si fossero aggiunti forti capitali privati.

«Va chiarito, una volta per tutte, che l’apporto del pubblico e quello privato sono stati considerati nel Piano legati fra loro in modo inscindibile e che, pertanto, gli investimenti pubblici programmati vanno eseguiti se ed in quanto si ha la certezza che ad essi seguiranno quelli privati. Ove tale certezza non sussista, o se non vengano forniti quegli incentivi di cui si parlerà in prosieguo, è consigliabile l’accantonamento del Piano considerato nel suo complesso al fine di evitare un inutile sperpero di pubblico danaro e creare delusioni pericolose sotto ogni punto di vista» (Rapporto Commissione di studio I: 21).

È difficile negare che le indicazioni citate cogliessero con preveggenza dei punti critici che si sarebbero pienamente appalesati solo molti anni dopo, quando il Piano di rinascita, che avrebbe però seguito strade assai diverse da quelle caldeggiate dalla Commissione, venne considerato un esperimento fallimentare.

Il Rapporto e le indicazioni della Commissione suscitarono subito in Sardegna molte critiche: 1) perché basati su tendenze economiche e su dati statistici oramai superati; 2) perché era un errore privilegiare l’agricoltura, quando era ormai chiaro che solo l’industria sarebbe stata in grado di innescare lo sviluppo economico; 3) perché era stato sopravvalutato il ruolo degli investimenti privati; 4) perché era inaccettabile l’orientamento di affidare l’attuazione del piano ad organi nazionali, mentre invece doveva essere la Regione Sardegna ad avere quel compito primario.

Anche in sede di ricostruzione storiografica il Rapporto della Commissione è stato oggetto di pesanti rilievi. Secondo Aldo Accardo si trattava di «una elaborazione burocratica e astratta» dalla quale non emergeva «nessuna volontà di scelta e di indirizzo generale: una noiosa e piatta elencazione, nella quale, per fare un esempio, l’utilizzazione della flora officinale o l’invito ad usare per i trasporti i “battelli ad ala portante” hanno lo stesso rilievo dell’industria manifatturiera»; in definitiva un «Lavoro prevalentemente accademico, sostanzialmente inutilizzabile per elaborare una concreta politica di programmazione» (Accardo: 39-41).

È anche possibile che su tali critiche abbiano pesato alcune considerazioni della Commissione sulla realtà sarda e sul mondo dei pastori in particolare, in verità poco accettabili per una parte non piccola della pubblica opinione e della cultura isolane.


Bustianu Cessanay, assessore, con gli operai di Villacidro in Regione.

«In una terra in cui il clima gioca un ruolo fondamentale nell’andamento della produzione, il lavoro manuale gode di scarsa considerazione e si attende dalla terra ciò che essa spontaneamente produce anziché sollecitarla con la fatica. Come si vedrà in seguito, uno degli ostacoli culturali più seri alla stabilizzazione dell’azienda zootecnica, è l’istintiva repulsione per il contatto diretto con la terra».

«Il pastore, infatti, attende tutto dalla natura ed è abituato ad utilizzare solo ciò che essa spontaneamente gli offre, senza in alcun modo intervenire perché le risorse dell’ambiente di cui esso, non di rado distruttivamente, si avvale, possano conservarsi e rinnovarsi. In questo suo atteggiamento il pastore è radicato da un continuo spostarsi da un terreno all’altro alla ricerca di pascoli nuovi, che abbandona, disinteressandosene, dopo averli utilizzati col proprio gregge».

«L’abigeato, l’incendio, la rapina, se sono considerati fenomeni aberranti in una civiltà in cui le norme di convivenza coincidono largamente col diritto positivo, sono invece fenomeni quasi normali in una società che per motivi storici e ambientali è vissuta chiusa all’influenza esterna e che di fatto non ha conosciuto l’autorità giudiziaria e statuale in genere. Ciò è confermato dal fatto che l’abigeatario è una figura che conserva caratteristiche eroiche nella considerazione popolare, intorno a cui si formano e si tramandano leggende e che costituisce ancora per alcuni casi, soprattutto per l’infanzia, un modello di comportamento». (Rapporto Commissione di studio II: 126, 143, 145)

9. 1959. Il Gruppo di lavoro.

La battaglia per l’art. 13, sul piano sociale, politico e istituzionale, per quasi un decennio segnò il passo. Dopo il Congresso del popolo sardo del 1950 le forze sociali e sindacali sembrarono aver esaurito la carica iniziale e le forze politiche furono distratte da altri interventi dello Stato che sembravano surrogare l’impegno per il varo e l’attuazione di un piano integrato di rinascita.

Ma, sul finire del decennio, riprese l’iniziativa per la realizzazione del dettato dell’art. 13. Anche a seguito delle critiche alla Commissione del 1951, nel luglio 1959 il Presidente del comitato dei ministri per il Mezzogiorno costituì un Gruppo di lavoro che aveva il compito di formulare un piano di intervento articolato in proposte concrete a partire dalla grande mole di materiali e di studi approntato dalla Commissione economica di studio. I lavori vennero portati a termine in poco più di tre mesi, perché nel novembre 1959 venne consegnato un Rapporto conclusivo al presidente del consiglio, allora Antonio Segni.

Il rapporto del Gruppo di lavoro rispetto a quello della Commissione di studio doveva essere e in effetti fu più concreto e propositivo, ma il dato che doveva rivelarsi il più significativo fu che, contrariamente alle esplicite raccomandazioni della Commissione, al settore industriale veniva attribuita la funzione principale di operare quella rottura della stagnazione esistente che avrebbe avviato la Sardegna alla fuoriuscita dal sottosviluppo.

Altro elemento caratterizzante il rapporto del Gruppo di lavoro fu la divisione dell’Isola in 18 zone omogenee a partire dalle quali il piano di intervento si sarebbe dovuto articolare, sia per garantire la partecipazione delle forze economiche e sociali interessate allo sviluppo, sia perché tale sviluppo doveva armonicamente interessare tutti i territori e tutti i settori dell’attività economica. Così ogni zona avrebbe avuto il suo programma zonale di sviluppo, e tutti i programmi zonali avrebbero trovato una loro sintesi democraticamente partecipata in un Piano regionale di sviluppo.

Sulla base del Rapporto conclusivo del Gruppo di lavoro il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno preparò un disegno di legge che, discusso e modificato a seguito delle osservazioni e proposte della Regione e delle altre amministrazioni interessate, venne approvato dal Parlamento l’11 maggio 1962 alla Camera e il 29 maggio al Senato, per diventare così la Legge 11 giugno 1962 n. 588.

10. 1962. Il Piano di rinascita.

La legge 11 giugno 1962 n. 588 Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna in attuazione dell’art. 13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 3, era l’esito conclusivo dell’iter parlamentare e del dibattito, in parlamento e nel consiglio regionale, del disegno di legge scaturito dal rapporto del Gruppo di lavoro presentato nel novembre del 1959.

Art. 1 Per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto speciale emanato con la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno con il concorso della Regione autonoma della Sardegna, dispone un piano organico straordinario ed aggiuntivo di interventi e assicura il coordinamento in relazione ad esso di tutti gli interventi previsti dalle leggi statali al fine di perseguire l’obiettivo dello sviluppo economico e del progresso sociale dell’Isola. Il piano viene formulato per «zone territoriali omogenee», individuate in base alle strutture economiche prevalenti, alle possibilità di sviluppo e alle condizioni sociali. Finalità del piano deve essere il raggiungimento di determinati obiettivi di trasformazione e miglioramento delle strutture economiche e sociali delle zone omogenee, tali da conseguire la massima occupazione stabilite e più rapidi ed equilibrati incrementi del reddito.

Dall’art. 2 In conformità agli obiettivi fissati dal piano il Ministro per le partecipazioni statali promuove un programma di intervento delle aziende sottoposte alla sua vigilanza particolarmente orientato verso l’impianto di industrie di base e di trasformazione.

Nino Rovelli, presidente SIR (a sin.)

 

Dall’art. 4 La Regione predispone avvalendosi di suoi organi tecnici, che opereranno d’intesa, con la Cassa per il Mezzogiorno, il piano generale di cui al primo comma dell’articolo 1 e lo presenta per l’approvazione al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. Con le modalità previste dal comma precedente si provvede altresì alla formulazione di programmi pluriennali e annuali nell’ambito del piano generale.

Dall’art. 5 L’attuazione del piano è delegata alla Regione autonoma della Sardegna.

La L. 588 prevedeva una spesa a carico dello Stato di 400 miliardi distribuiti in tredici esercizi, dal 1962-63 al 1974-75. Per concretizzare tale spesa la Regione elaborò uno Schema generale di sviluppo, che era l’ipotesi guida di sviluppo globale della Sardegna e un Piano straordinario(da articolarsi in programmi esecutivi annuali) che avrebbe guidato l’utilizzo dello stanziamento straordinario dei 400 miliardi.

La L. 588 prevedeva che la Regione Sardegna dovesse, d’intesa con la Cassa per il Mezzogiorno,

 

predisporre il piano organico generale, i programmi pluriennali e i piani annuali, i quali dovevano essere presentati per l’approvazione al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. L’attuazione dei piani era affidata alla Regione, mentre alla Cassa era riservato il controllo tecnico sulla progettazione e sull’esecuzione della opere (Soddu 1998: 1012).

Il raggiungimento degli obbiettivi di sviluppo era affidato al coordinamento di tutti gli enti coinvolti – Stato, Regione, Cassa per il Mezzogiorno – e di tutte le fonti di finanziamento, pubbliche e private, nell’ambito delle quali le risorse della L. 588 avrebbero svolto solo un ruolo aggiuntivo e di indirizzo. Inoltre, per allargare l’ambito della partecipazione democratica vennero associati un Comitato di consultazione sindacale e i Comitati zonali di sviluppo istituiti in ciascuna delle zone omogenee.

Grandi obbiettivi e speranze. «Il Piano che si ha l’onore di presentare, non deve essere visto – perché non è – come un piano di semplici investimenti, sia pure di entità e di consistenza tutt’altro che trascurabili; ma, invece, come un vero e proprio piano politico, ideato e proposto con la volontà decisa di eliminare tutto quanto vi è di antiquato e di inefficiente nel sistema economico isolano, di sradicare certi ordinamenti retrogradi che caratterizzano la struttura sociale, di modificare atteggiamenti psicologici della popolazione, di innovare profondamente ed ampiamente nella vita, nei rapporti di lavoro, nella cultura della Sardegna e delle popolazioni sarde» (Francesco Deriu, Assessore alla Rinascita della Regione Sarda, in Il Piano di Rinascita: 104).

L’assessore Deriu ancora avvertiva che un altro istituto da salvaguardare – autentica conquista del Piano di Rinascita – era quello del coordinamento, la cui assenza «ha troppe volte pregiudicato l’esito di provvedimenti anche di vasta e geniale concezione a causa della discordanza, della frammentarietà, della irrazionale intempestività con cui hanno operato assai spesso i vari uffici – gelosi in misura addirittura patologica di una autonomia fine a sé stessa – incapaci di trovare una linea di incontro, un punto di intesa per un’azione comune nei più disparati settori dell’attività pubblica in tutto il territorio del paese» (Francesco Deriu, Assessore alla Rinascita della Regione Sarda, in Il Piano di Rinascita: 106).

Delusione. Ma quindici anni dopo la stessa Regione Sardegna doveva costatare che «Ministeri, aziende pubbliche, Cassa e aziende private presero ad operare un progressivo sganciamento dal quadro di riferimento della programmazione regionale. E anche gli istituti di credito speciale, al di fuori delle direttive contenute nel Piano, assecondarono le scelte industriali, settoriali e di localizzazione, assunte dalle imprese in base a criteri prevalentemente aziendali» (cit. in Soddu 2002: 29).

11. Una lunga e difficile gestazione.

Dodici anni, dal 1950 al 1962. Perché il Piano di rinascita richiese una così lunga gestazione? Non è inutile qui ricordare che J. Logan per la Rockefeller nella sua proposta di piano alla Regione Sardegna aveva indicato il luglio 1951 quale termine di consegna della relazione conclusiva.

Nella lunga e difficile gestazione giocò un ruolo importante il contenzioso degli organi regionali con quelli statali, i quali opponevano ogni sorta di ragione o cavillo per bloccare o ritardare l’iniziativa regionale. E un ruolo importante assunsero la Cassa per il Mezzogiorno e la riforma agraria, che, per qualche tempo, poterono dare l’illusione di poter sostituire gli interventi richiesti nel Congresso del popolo sardo e trasformati in rivendicazione istituzionale nel susseguente dibattito in Consiglio regionale. Insomma, per alcuni anni sembrò che l’art. 13 e il connesso Piano di rinascita fossero diventati obsoleti di fronte all’attivismo meridionalistico dello Stato impegnato, come s’è detto, negli interventi della Cassa per il Mezzogiorno e della riforma agraria.

Ma la lunga gestazione del Piano di rinascita è dovuta anche ai limiti di capacità progettuali e realizzatrici della classe dirigente sarda, come rilevava la delegazione dell’ufficio di studi economici della società milanese Edison-Volta dopo una visita-indagine in Sardegna tra giugno e luglio 1961. «Non ci è sembrato di trovare quel fervore di iniziative in campo tecnico, di studio, di indagini, che dovrebbero procedere in parallelo con le pressioni al livello politico per ottenere una rapida e soddisfacente formulazione delle legge per il piano. Non si è avuta l’impressione che ci sia una macchina operativa corredata da un ben fornito “armadio di progetti”, pronta ad entrare in azione, a fiancheggiare e stimolare l’organo di attuazione del piano, regionale o nazionale che sia. Ci è sembrato che tutto resti subordinato alle discussioni politiche e che l’attività si mantenga esclusivamente al livello politico. Se dopo dieci anni di preparazione e di studi si perdessero ancora degli anni per l’organizzazione e l’avvio della fase operativa, per discutere delle priorità o delle “equità” nella ripartizione territoriale dei fondi, allora sarebbe veramente spendere poco e troppo tardi» (cit. in Accardo: 54, 62-63).

NB: Il grassetto è sempre dell’autore dell’articolo.

Note

1. Aldo Accardo, L’isola della rinascita. Cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 31.

2. Salvatore Mannironi, cit. in Salvatore Mura, Pianificare la modernizzazione, FrancoAngeli, Milano 2015, p. 94

 

 

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