UN NUOVO CONTRIBUTO SULL’INQUISIZIONE SPAGNOLA IN SARDEGNA, di Federico Francioni

Sommario : Un salto qualitativo della ricerca storica – Il contributo dell’Illuminismo – Resistenzialità sarda al Sant’Uffizio – Da instrumentum Regni a “corpo separato” – Statuti sassaresi e Carta de Logu incomparabilmente più avanzati delle procedure inquisitoriali – La condanna al rogo di Sigismondo Arquer, intellettuale di respiro europeo – Altri casi nel Cinquecento e nel Seicento – Lo scempio del corpo della donna – La cacciata di un inquisitore nel 1702 – Verso la fine.

(Di seguito pubblichiamo un’anticipazione del saggio di F. Francioni, La caduta dell’inquisitore. Momenti, problemi e figure di storia dell’Inquisizione spagnola in Sardegna (dal Cinquecento ai primi del Settecento). Con il testo teatrale S’istrampada de s’inquisidore, tributo a Il crogiuolo di Arthur Miller. La monografia comparirà prossimamente su questo sito come “Quaderno della Fondazione Sardinia”, Nuova serie, n. 3, 2020).


Un salto qualitativo della ricerca storica. Occorre avvalersi in primo luogo del salto qualitativo operato dalla ricerca e dal dibattito storiografico sui principali nodi dell’Inquisizione, compresa quella attiva in Sardegna durante la dominazione spagnola. Si pensi, in particolare, ai saggi di Andrea Del Col sull’Italia, alla poderosa monografia di Adriano Prosperi sui Tribunali della coscienza, ai volumi di Salvatore Loi sull’isola.

Sarebbe oltremodo sbagliato vedere il contesto sardo come avulso da una più ampia dimensione, secondo gli schemi – che così a lungo ci sono stati propinati – del determinismo geostorico insularità-isolamento; oppure secondo le proiezioni dello stolto paradigma arretratezza-modernizzazione che ha visto la Sardegna come terra perennemente tagliata fuori dai grandi flussi di idee provenienti dall’Europa medievale, moderna e contemporanea. Per smentire questi stereotipi, può essere sufficiente il riferimento all’arrivo di libri – dalla provenienza più disparata – in quel di Porto Torres, che allarmava tanto gli inquisitori, impegnatissimi a rivendicare la precedenza, rispetto alle autorità civili, nella visita al naviglio onde sventare lo sbarco di testi e materiali sospetti: si vedano gli studi condotti al riguardo da Angelo Rundine.

Un’ampia ed approfondita monografia del compianto Francesco Manconi sulla Sardegna sotto gli Asburgo di Spagna ha delineato, fra l’altro, un Seicento sardo che, pur essendo indubbiamente un secolo di crisi profonda, non è però assimilabile alla (ormai scontata) categoria della decadenza e presenta anche tratti reattivi e dinamici sul piano sociopolitico e culturale.

Nell’esaminare lo scontro fra la Chiesa cattolica e Inquisizione, da una parte, la Riforma protestante, dall’altra, si può rilevare, tra l’altro, che anche uomini e donne del mondo sardo – provenienti dalle masse popolari ed analfabeti – venivano accusati di luteranesimo: a parte vari casi, assai interessanti, di accusati ed imputati provenienti dal clero e dal ceto delle professioni, sappiamo dalle risultanze attuali della ricerca che il movimento riformatore non riuscì mai a piantare radici significative nell’isola. Certo, non bisogna sottovalutare le fortissime divaricazioni della Riforma protestante con le gerarchie ecclesiastiche ed inquisitoriali, le ricadute determinate dai rispettivi operati, nei diversi contesti geostorici, sul piano economico, sociale, politico, culturale e spirituale. Queste forze opposte, però, tendono a convergere, non casualmente, nello sforzo di reprimere i rispettivi dissensi interni, di uniformare ed anche, diciamolo pure, di irreggimentare la società. Anche la Sardegna è sottoposta ad una ferrea logica che punta, fra l’altro, alla castiglianizzazione politico-linguistica della società, per quanto i giudici del Sant’Uffizio dovessero fare i conti con imputati degli strati sociali subalterni che potevano essere interrogati nell’unica lingua da loro conosciuta: quella sarda.

Non a caso, nel Cinquecento, nel Seicento e, all’incirca, fino al primo quindicennio del Settecento, è schiacciante il numero degli inquisitori provenienti dalla penisola iberica: pochissimi i sardi. Dagli studi di Antonio Era a quelli di Rundine, per arrivare alla sostanziosa monografia complessiva di Loi, disponiamo ormai di un elenco completo degli inquisitori operanti nell’isola.

Il contributo dell’Illuminismo. Ancor oggi ricorrono avvertimenti di certi storici secondo cui non bisogna farsi assolutamente condizionare dalla visione cupa e negativa proiettata, sulla Spagna interna e dell’espansione coloniale, dalla Leyenda negra antispagnola, la quale affonda le sue radici nel Cinquecento e conosce per secoli significativi sviluppi. Di contro a questi ammonimenti, è opportuno mettere particolarmente in risalto che l’Illuminismo – con la sua critica all’oscurantismo, ai poteri laici ed ecclesiastici, con l’esaltazione di istanze ispirate alla ragione, alla tolleranza, al progresso, alla felicità dei singoli e dei popoli – non costituisce qualcosa di depistante rispetto ai risultati più recenti degli studi storici. In base alle acquisizioni più aggiornate, infatti, emerge, anche in Sardegna, un quadro di aspri conflitti dell’esorbitante potere inquisitoriale con le giurisdizioni della Chiesa e dello Stato. Per non parlare, s’intende, delle durissime risposte, ai limiti della lotta armata che, in talune occasioni, vengono indirizzate da singole comunità isolane contro il Sant’Uffizio. Anche all’interno di questo organismo si accendono scontri violenti e non solo, si badi bene, verbali.

Resistenzialità sarda al Sant’Uffizio. Le relazioni di visitatori, ovvero di ispettori, inviati dal Supremo consiglio inquisitoriale di Madrid, con l’incarico di stendere dettagliate relazioni sull’operato del tribunale del distretto periferico, riferiscono inequivocabilmente di un discredito causato dagli stessi inquisitori – capaci di far cadere l’organismo da loro guidato nell’obbrobrio o nell’abominio (sono proprio questi i termine adoperati) – nonché di una più o meno esplicita ostilità nutrita verso di loro dalle popolazioni dell’isola. Uno studioso non certo sospettabile di propensione verso la Leyenda negra antispagnola, come il già citato Loi, scrive di un intreccio di terrore, di panico, di avversione verso il “Santo” tribunale che in Sardegna comincia a delinearsi già nel Cinquecento. Sono gli stessi inquisitori, del resto, a documentare tutto ciò. L’Illuminismo, pur nello slancio della sua critica all’Inquisizione, non poteva ovviamente immaginare quanto discende dai risultati cui sono pervenute le più attente, aggiornate ricostruzioni storico-storiografiche, col corredo di un’ampia messe di materiali archivistici.

La costante resistenziale sarda – categoria elaborata da un maestro come Giovanni Lilliu – si può dunque applicare anche alla complessa storia dei rapporti, sempre assai tesi, fra comunità isolana e Sant’Uffizio.

Da instrumentum Regni a “corpo separato”. Questo tribunale, nato come instrumentum Regni del potere monarchico – con l’obiettivo strategico dell’assoggettamento, dell’omogeneizzazione politica, religiosa e linguistica di un Impero composito come quello spagnolo – tende, per il potere sempre più dilatato e dilatabile di cui va disponendo, ad autonomizzarsi, a diventare “corpo separato”, a creare problemi d’ogni sorta per un trono verso cui, almeno in determinati momenti, sembrava non provare soggezione. In effetti, erano i sovrani che, non formalisticamente, dovevano togliersi il cappello ed assidersi in un seggio collocato più in basso, rispetto a quello degli inquisitori, durante le cerimonie delle penitenze e delle esecuzioni capitali (come venne ricordato da Voltaire).

Si è utilizzata nel volume l’espressione “corpo separato” anche in riferimento al ruolo dei servizi segreti nella strategia della tensione dispiegatasi nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento: tale accostamento non è sembrato, a chi scrive, un’esagerazione o una stortura. I meccanismi che, in ogni caso, sembrano agire in contesti storici così lontani e differenti sono questi: a) al Sant’Uffizio la monarchia spagnola delega un compito di controllo totalitario ed ossessivo sulla società; b) gli inquisitori, in combutta con settori dei gruppi dirigenti, ne colpiscono altri, operanti all’interno delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche, con varie motivazioni, mossi anche dal fine di ampliare a dismisura il raggio d’azione di questo tribunale; c) in ogni caso, potere politico ed inquisitoriale convergono nell’obiettivo di assoggettamento delle varie collettività. Allo stesso modo, in Italia, dagli anni Sessanta in poi – dai tempi, cioè, in cui le schedature ed i dossieraggi crescono considerevolmente – gruppi dei servizi segreti si autonomizzano, escono dal tracciato della costituzionalità, entrano in rapporto con gruppi politici anche eversivi, ma vengono comunque usati dai gruppi socioeconomici e politici dominanti per mantenere il più rigido status quo.

Si è sostenuto che il Sant’Uffizio non guardava in faccia nessuno, dagli altolocati ai più umili, nello sviluppare inflessibilmente le proprie indagini: in effetti le ricerche storiche condotte in Sardegna hanno approfondito, fra l’altro, il caso dell’inquisitore Andrea Sanna. Questi, legatosi a consorterie feudali ed a uomini corrotti del governo viceregio, non esitò nell’accusare, intorno alla metà degli anni Quaranta del Cinquecento, Maria de Requesens – moglie del viceré Antonio Folch de Cardona – di aver partecipato, con le figlie, ad un sabba, a danze sfrenate ed orgiastiche, durante le quali era arrivata al punto di baciare il deretano (besar el culo) di un essere demoniaco. La Requesens e Cardona appartenevano a famiglie potenti e ragguardevoli dell’intero Impero spagnolo, ma verso di loro l’inquisitore, lungi dall’essere imparziale, fu sospinto invece dai calcoli, invero meschini, della sua adesione ad uno schieramento politico locale, baronal-feudale, oppostosi con qualsiasi mezzo allo sforzo di ristabilire la giurisdizione viceregia.

Statuti sassaresi e Carta de Logu incomparabilmente più avanzati delle procedure inquisitoriali. Rispetto a quelle valutazioni secondo le quali gli organismi giudiziari laici non erano meno spietati di quelli inquisitoriali, sarà invece sostenuto, più avanti, che la prassi e le procedure del Sant’Uffizio risultano incomparabilmente più arretrate rispetto alle norme degli Statuti sassaresi e della Carta de Logu arborense, sottoposti all’influenza del diritto romano (studiata da Francesco Sini; ma si vedano soprattutto un volume sugli Statuti, curato da Antonello Mattone e Marco Tangheroni; un altro sullo stesso tema, curato da Mattone e da Pinuccia F. Simbula; un altro sulla Carta, curato da Italo Birocchi e dallo stesso Mattone). Il processo condotto dall’inquisitore presenta forma e caratteri eminentemente antiromanistici: manca la terzietà del giudice, la contrapposizione fra accusa e difesa, che non vengono poste sullo stesso piano; è escluso il dibattimento pubblico e, prima ancora, la possibilità per l’avvocato difensore di rivolgere domande ai testimoni.

La pubblicità assicurata dal processo di ascendenza romanistica confligge singolarmente con la rigorosa segretezza delle carte inquisitoriali; di particolare rilievo, inoltre, il ruolo dei boni homines, coloro che sono considerati tali non per la loro condizione economica ma perché godono di pubblica, indiscutibile stima, garantita dalle loro qualità morali e dai loro saperi: sia negli Statuti, sia nella Carta de Logu li troviamo impegnati anche sul fronte giudiziario. Un apposito capitolo della raccolta di norme dovuta alla grande regina arborense Eleonora impone che uno scrivano debba scrupolosamente prendere nota delle differenti posizioni assunte dalle parti in causa.

Nei processi del Sant’Uffizio, infine, l’onere della prova non spetta al giudice-accusatore, posto ad un livello privilegiato rispetto alla difesa, bensì all’accusato, considerato un penitente rispetto ad una magistratura vista come amministratrice del Sacramento della confessione, nonché delle relative penitenze, che possono andare da quelle spirituali fino al rogo. Insomma, l’Inquisizione – questo ci premeva dimostrare – risulta assai più arretrata di Statuti e Carta de Logu, appartenenti ad un Medioevo per niente oscuro ma, anzi, “illuminato”: almeno per certi aspetti!

La condanna al rogo di Sigismondo Arquer, intellettuale di respiro europeo. La storia del Sant’Uffizio, nel Cinquecento sardo, è dominata dal lungo processo contro il teologo e giurista cagliaritano Sigismondo Arquer, viaggatore ed intellettuale di respiro europeo, il cui tormentato itinerario spirituale ha suscitato, fra l’altro, la lucida attenzione di Dionigi Scano, di Marcello M. Cocco, dello stesso Loi, di Massimo Firpo e di Raimondo Turtas. Entrato in rapporto con ambienti e gruppi di riformatori – e purtuttavia mai ufficialmente dichiaratosi aderente alle idee protestanti – Arquer muore arso vivo in un rogo acceso a Toledo nel 1571. Con ardore, con grande coraggio morale e fisico, egli aveva attaccato e smontato i principi giuridico-giudiziari, la dogmatica, le logiche e le procedure di coloro che sarebbero diventati i suoi carnefici. La rivoluzione di cui sono stati protagonisti Cesare Beccaria (con Dei delitti e delle pene) e Pietro Verri (con Osservazioni sulla tortura) trova alcuni significativi precedenti nelle posizioni espresse non solo da Arquer, ma anche da altri teorici, fra i quali spicca, nella seconda metà del Cinquecento, lo spagnolo Juan de Mariana.

Altri casi nel Cinquecento e nel Seicento. Nella storia del Sant’Uffizio in Sardegna, risulta indubbiamente di rilievo l’auto de fé (in castigliano: atto di fede), tenutosi a Sassari nel 1565: su una settantina di persone, ben 13 risultano condannate al rogo e bruciate. Nella stessa città – dove il Castello catalano-aragonese era sede dell’Inquisizione – la domenica del 14 agosto del 1583, il lugubre rito riguardò, fra uomini e donne, ben 24 persone, accusate di superstizioni, fatture e stregoneria: di quest’ultimo reato, oltre a 9 donne, fu accusato anche un uomo.

Nel XVI secolo emerge inoltre il caso di Antonio Angelo Carcassona (già studiato da Giancarlo Sorgia), appartenente ad una famiglia ebrea, convertitosi e in seguito diventato arciprete della Cattedrale di Alghero. Arrestato nel 1581, si sottrae alla morsa delle accuse di falsa conversione grazie alle cospicue sostanze di cui disponeva, in grado di fargli pagare una multa, ovvero un’ammenda quanto mai salata.

Non è certo il solo a dover fare i conti col Sant’Uffizio, la cui attività nel Seicento appare comunque in calo: la peste del 1652-1656/57 miete vittime specialmente a Sassari (che perde da allora il suo primato demografico su Cagliari) e rappresenta una battuta d’arresto, come dimostra la corrispondenza dell’organismo locale con il Supremo consiglio madrileno. Tuttavia, ancora nel 1691, vengono riesumate e bruciate le ceneri di Francesco Perra (abitante nel villaggio de La Plassas), accusato di eresia, di essere stato influenzato dalla “pestilenziale” dottrina di Lutero, di proposizioni eretiche intorno al sacramento della confessione ed alla santa messa.

Lo scempio del corpo della donna. Un aspetto fondamentale, interconnesso a tutti gli altri, delle pratiche repressive e giudiziarie proprie dell’Inquisizione è indubbiamente costituito dallo scempio del corpo della donna, condotto da una gerarchia esclusivamente maschile ed inevitabilmente portata alla violenza: fra l’altro, nella tortura, gli inquisitori assistevano alle scene di donne denudate che rilasciavano le proprie feci. In tale ambito, si farà riferimento soprattutto al caso di Giulia Carta di Siligo: il suo iter processuale, che si snoda dal 1596 al 1604-1605, è stato egregiamente indagato dal compianto Tomasino Pinna (dell’Università di Sassari), nonché da un’eccellente équipe di insegnanti coordinata e diretta da Loi. La persecuzione delle donne sarde accusate di magia, di stregoneria, di essere fattucchiere ed eretiche fa parte del disegno di una cultura dominante, contrapposta a quella popolare. Sarebbe oltremodo sbagliato rappresentare quest’ultima come precipitato indigesto di elementi che derivano dalla cultura “alta”, oppure come semplice ammasso di superstizioni, come qualcosa di raffazzonato, di incoerente: contro questa visione, assai riduttiva, si può fare utile e prezioso riferimento ai testi di Ernesto De Martino, Carlo Ginzburg e Placido Cherchi.

Le indagini sull’Inquisizione aiutano inoltre a comprendere quanto siano lacunose quelle critiche storico-filosofiche alla religione ufficiale che non pongono al centro la tabuizzazione del corpo della donna, propria dei principali monoteismi, la quale invece rappresenta un tema rilevante messo in luce dalla ricerca femminista in diversi settori di studi.

A partire da questo e da altri nodi, le pagine del saggio di prossima pubblicazione si esprimono dichiaratamente e programmaticamente contro il negazionismo, il revisionismo ed anche il giustificazionismo, emersi con varie modalità nella ricerca e nel dibattito sulla storia del Sant’Uffizio: tutte tendenze che cercano non solo minimizzarne le responsabilità, ma di giustificare, almeno in una certa misura, le pratiche più aberranti.

La cacciata di un inquisitore nel 1702. Nel numero, non irrilevante, degli inquisitori morti a Sassari durante il loro mandato nell’isola, vanno collocate le misteriose scomparse e le uccisioni di alcuni di loro, secondo quanto è stato autorevolmente sostenuto da Loi: è il caso di Juan Garrido Lozano, assassinato nel 1701. In quello stesso anno, Sassari, sgomenta, viene a sapere che il concittadino Giorgio Sotgia Serra, eminente teologo e vescovo di Bosa, il quale stava per ricevere la nomina ad arcivescovo turritano, è precipitato in un pozzo per cause che rimangono non del tutto precisate (la tesi ufficiale, poco convincente, è quella del suicidio).

Del 1702 è la cacciata ignominiosa di Juan Corvacho (successore di Garrido Lozano), ad opera di don Dionisio Gonzales de Mendoza, proveniente da Cagliari ed inviato del regio governo. Corvacho, per riaffermare il proprio potere, aveva provocato scontri virulenti non solo con il governo di Madrid, ma anche con la municipalità e l’archidiocesi di Sassari. Quello che il viceré e Mendoza non si aspettavano di certo fu il concorso di una folla enorme intorno al Castello, la quale accompagnò in corteo questi personaggi con il loro seguito fino a Porto Torres per l’imbarco.

La parabola di questo inquisitore è il punto d’approdo di conflitti giurisdizionali fra il potere politico e quello ecclesiastico, da una parte, il Sant’Uffizio, dall’altra, documentabili anche in base alle proteste – contro le indebite ingerenze di questo tribunale in cause al di fuori della fede – formulate dagli Stamenti, l’antico Parlamento sardo, soprattutto nella seconda metà del Seicento (in particolare, si vedano al riguardo gli atti parlamentari, pubblicati per meritoria iniziativa del Consiglio regionale e curati da Guido d’Agostino, da chi scrive e infine da Giuseppina Catani e Carla Ferrante).

Va sottolineato che Corvacho non fu sicuramente l’unico che ricopriva l’incarico ad essere espulso dall’isola: alcuni, la cui presenza non era più ufficialmente sostenibile, o sopportabile dalla popolazione, vennero allontanati per ordine giunto dall’alto e destinati ad altre, più prestigiose e remunerative sedi, secondo la classica logica del promoveatur ut amoveatur o, se si preferisce, almeno in questi casi, dell’amoveatur ut promoveatur. A parte Corvacho, non tutti potevano essere rimossi e sconfessati in modo così plateale, pena la perdita di credibilità sia del potere politico, sia di quello inquisitoriale. In ogni caso, nel 1702 si perviene alla significativa conclusione della parabola storica del Sant’Uffizio in Sardegna, per quanto, dopo Corvacho, ci siano state altre nomine.

Nel caso sardo, questo tribunale ha sempre sofferto, se così si può dire, di rendite inadeguate al mantenimento del proprio personale, il che si ripercuoteva in varia misura, a seconda dei tempi, sulle attività di sorveglianza, di denuncia e di quella processuale. In proposito saranno presi in esame i dati sugli introiti del Cinquecento e del Seicento, forniti dalle carte dell’Archivio di Stato di Cagliari, messi a punto, integrati e sistematizzati da Loi. Questi ha avuto infine il merito di fornire la cifra totale (certo ragguardevole) di 1315 penitenziati a vario titolo nella storia dell’istituzione operante nell’isola.

Verso la fine. Ormai, dopo la morte (nel 1700) di Carlo II (ultimo sovrano della dinastia asburgica in Spagna), incombeva la Guerra di successione al trono spagnolo, scatenata dall’ascesa di Filippo – duca d’Angiò e nipote del re di Francia Luigi XIV – diventato Filippo V: contro di loro prendeva corpo una coalizione politico-militare europea, allarmata dal rischio reale di una crescita della sfera d’influenza francese.

Con la pace di Utrecht (1713), che mette fine alla Guerra di successione, siamo giunti ormai al tramonto della dominazione spagnola in Sardegna, nel Ducato di Milano e nell’Italia meridionale: il venir meno dell’Inquisizione nella nostra isola – ma non in Sicilia – coincide dunque col drastico ridimensionamento mediterraneo dell’Impero iberico: esso aveva cercato di utilizzare il più possibile il Sant’Uffizio come strumento di omogeneizzazione politico-religiosa, funzionale al mantenimento della Sardegna in una condizione coloniale: questo tipo di dipendenza è stata riconosciuta – con dovizia di argomentazioni e di dati – da storici di diversa formazione, come il franco-americano John Day ed il già citato Manconi, per niente sospettabili di generica adesione a categorie interpretative schematicamente definibili come “sardiste” e terzomondiste.

In Sardegna, come in altri luoghi geograficamente distanti ed anche assai diversi, l’Inquisizione (o chi per essa) è stata parte integrante di un disegno di genocidio linguistico-culturale. Ciò può essere dimostrato da un confronto fra l’attività sviluppatasi non solo nella nostra isola, ma anche, in particolare, nei Paesi Baschi, fino ad arrivare all’estremo Nord della penisola scandinava: per uomini sami (lapponi) e per donne norvegesi furono accesi i roghi in seguito alla repressione contro la stregoneria voluta, nel 1617-21 da Cristiano IV, sovrano – protestante – di Danimarca e Norvegia.

 

Condividi su:

    Comments are closed.