Non fare come in Russia! L’alternativa democratica e riformista di Filippo Turati al comunismo e al fascismo, di Vincenzo Medde

Domani, 15 gennaio, ricorre il centenario del XVII congresso del PSI a Livorno, dal quale si distaccherà, il 21 gennaio 1921, il Partito Comunista d’Italia sotto la guida di Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Il loro principale avversario era Filippo Turati, leader dei socialisti riformisti.

Sommario del saggio: 1. Premessa. 2. Una rivoluzione bolscevica in Italia non è né auspicabile né possibile. 3. Integrare le masse nella vita dello stato. 4. Retroterra e preparazione di un organico programma di riforme. 5. Rifare l’Italia: la proposta centrale. 6. Rifare l’Italia: articolazione del programma. 7. Il problema della piccola e media borghesia in Turati e in Gramsci. 8. La crisi e l’urgenza del momento storico. (Questo saggio è tratto dal sito icoNUR del prof. Vincenzo Medde, che ringraziamo per la gentile concessione).

Filippo Turati

«Avremmo dovuto chiarire alle masse che con la conquista della democrazia metà del programma della socialdemocrazia era stata realizzata e che il compito che il partito aveva ora di fronte era quello di andare avanti dalla posizione che avevamo conquistato. Avremmo dovuto far capire ai nostri compagni di partito che la democrazia non era solo una fase preliminare sulla via del socialismo, ma piuttosto un risultato prezioso di per sé». 1

(Friedrich Stampfer, membro dell’esecutivo SPD, a proposito dell’esperienza dei socialdemocratici tedeschi al governo dopo il 1918).

 

1. Riforme o rivoluzione nel Partito socialista

Il Partito socialista italiano era nato nel 1892 (ma questo nome venne assunto solo nel 1895) quando si era separato dall’anarchismo che aveva caratterizzato le prime esperienze del movimento operaio in Italia. Alla direzione del partito si affermò Filippo Turati (1857-1932), con una strategia riformista e gradualista che chiamava il partito, anche attraverso la collaborazione con forze e governi borghesi, a battersi per un graduale miglioramento delle condizioni di vita del proletariato e per una progressiva democratizzazione delle istituzioni liberali, all’interno delle quali il movimento operaio avrebbe creato i propri istituti, dai quali, e senza violenza, sarebbe nata la società socialista.

Filippo Turati

A questa tendenza riformista e gradualista, in minoranza dal 1912, si contrapponeva una corrente – maggioritaria – di intransigenti, massimalisti e rivoluzionari che rifiutava ogni collaborazione con i governi e le forze borghesi, anche con quelle radicali e repubblicane, e si batteva per il programma socialista massimo, la socializzazione dei mezzi di produzione e l’abbattimento dello Stato borghese.

In una riunione tenutasi ai primi di dicembre 1918 la direzione massimalista del Psi approvò un documento che assumeva i seguenti obbiettivi: «1) socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, industrie, miniere, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri, marinai»; 2) distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali; 3) abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all’unione di tutte le repubbliche socialiste nella Internazionale socialista; 4) municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospedaliero; trasformazione della burocrazia affidata alla gestione diretta degli impiegati» (cit. in Sabbatucci 1980: 142).

Nel corso degli anni i socialisti, oltre al partito, avevano costruito altri organismi nei quali si esprimevano i proletari e il popolo: leghe, camere del lavoro, federazioni di mestiere come la Fiom e la Federterra, cooperative, case del popolo, la Confederazione Generale del Lavoro; avevano creato molti giornali e riviste, l’«Avanti!», la «Critica sociale» (la rivista riformista di Turati); avevano conquistato molti amministrazioni comunali, tra le quali anche quelle di Milano e Bologna.

I dirigenti e gli attivisti di questi istituti erano per la maggior parte di orientamento riformista, mentre il partito era diretto da una maggioranza massimalista. Così, mentre l’«Avanti!», organo del partito, si schierava con i bolscevichi russi e riaffermava l’obbiettivo del programma massimo, il gruppo parlamentare, la CGdL, la Lega dei comuni, il Sindacato ferrovieri si espressero contro il pronunciamento rivoluzionario di dicembre della direzione del Psi; e i deputati socialisti approvarono un documento proposto da Turati e Prampolini nel quale si difendeva la validità della strategia gradualista, perché la repubblica socialista non poteva «crearsi con un atto istantaneo e prodigioso di volontà di esigue minoranze» (cit. in Sabbatucci 1980: 143).

In effetti, le due opzioni – riforme o rivoluzione – convissero nel Partito socialista italiano almeno fino al 1922, quando i riformisti furono espulsi dal partito e Turati costituì il Partito socialista unitario. Ma era troppo tardi, al dunque, i socialisti non vollero le riforme e non seppero fare la rivoluzione.

2. Una rivoluzione bolscevica in Italia non è né auspicabile né possibile

La Rivoluzione russa, di febbraio e ottobre (poco conosciuta e vissuta in genere come mito), una vena di sovversivismo anarchico (che la fondazione del Partito socialista non aveva debellato del tutto), il massimalismo della maggioranza socialista, la crisi sociale e politica che aveva sconvolto l’Italia nel dopoguerra, un presunto indebolimento della borghesia, durante il “biennio rosso” (1919-1920) sembravano aver avvicinato la rivoluzione proletaria anche in Italia.

Chi, nel campo socialista, con maggiore consapevolezza e coerenza, si sottrasse alle suggestioni di una dittatura rivoluzionaria alle porte fu certo Filippo Turati, il quale non credeva che la rivoluzione fosse vicina, né che la presa del potere dei bolscevichi, quand’anche ripetibile in Italia, fosse un esempio da seguire. «L’insurrezionismo bakunista, responsabile di tanti insuccessi, ostacolo per un decennio allo svilupparsi di un socialismo moderno, rimarrà nello spirito di Turati quasi come un incubo … la illusione di rivolgimenti totali e improvvisi distoglievano il popolo dall’opera sistematica di educazione e di organizzazione e fornivano alla reazione sempre nuovi pretesti a infierire … Salvaguardare il partito socialista dall’idra anarchica, dal culto – che le è intrinseco – della violenza e dalla faciloneria rivoluzionaria: ecco il leit-motiv di tutta la propaganda turatiana» (Nello Rosselli, Filippo Turati e il socialismo italiano).

 

Tessera del PSI del 1920

La Russia, secondo Turati, era un paese economicamente e socialmente arretrato, al quale lo stato maggiore bolscevico, tradendo il marxismo, aveva imposto una tragica svolta: voler passare da un regime tirannico semifeudale ad un preteso socialismo del quale mancavano le basi materiali e sociali. Tale svolta, evento eminentemente volontaristico e non maturato come graduale conquista della società tutta, si reggeva e poteva solo reggersi sulla dittatura di un gruppo molto ristretto di dirigenti politici, i bolscevichi. Una dittatura non del proletariato, ma sul proletariato e, ancor più, sui contadini, che sostituiva allo zarismo solo un diverso regime di oppressione e miseria.

Nel suo discorso al congresso socialista di Bologna il 7 ottobre 1919, Turati così si esprimeva:

«Nessuno di noi è tanto dotto da poter fare prognostici sicuri. Probabilmente avremo questo triste effetto: che la miseria, il terrore, la mancanza di ogni libero consenso (basti ricordare che in Russia non esiste libertà di stampa, il diritto di riunione è conculcato, il lavoro è militarizzato, e i più presi di mira dalla persecuzione governativa sono i socialisti di tutte le scuole) e infine la pretesa irrazionale di forzare l’evoluzione economica, tutto ciò ha portato e porterà ineluttabilmente lo scoraggiamento di qualsiasi attività produttiva e avverrà questo paradosso: che un paese così vasto, ricco di tutte le risorse, che ha l’enorme vantaggio di non essere tributario dell’estero, che quindi non può essere boicottato, che ha dovizia di miniere, di cereali, di ogni ben di dio, che avrebbe potuto, con sapiente gradualità di provvedimenti, diventare l’antesignano della nuova civiltà, per avergli imposto una rivoluzione ad oltranza per la quale è manifestamente immaturo dovrà varcare attraverso una infinita odissea di dolori, forse di ritorni verso il passato, e nel miglior caso dovrà soffrire, per l’adattamento necessario al nuovo regime, decenni di patimenti e di povertà, mentre fin d’ora è costretto a creare una immensa macchina militaristica, quale non ha alcun altro Stato, e che è un permanente pericolo per qualunque presente o futura democrazia!» (Turati 1921: 292).

La situazione in Italia era diversa, più avanzata dal punto economico e sociale e con un movimento operaio più articolato, più organizzato, più maturo e forte di conquiste che avevano segnato la società borghese: la libertà di associazione e di sciopero, il suffragio universale, le assicurazioni, gli arbitrati, le leggi sociali, i contratti agrari, l’amministrazione socialista in migliaia di comuni, la presenza in parlamento con la possibilità condizionare la politica interna ed estera, la conquista di un principio di regime costituzionale in fabbrica che aveva allentato l’antico dispotismo padronale.

Così, conclude Turati, «quel che è incontestabile è che le condizioni della Russia non le abbiamo in Italia! In Italia noi possiamo procedere per una via radicalmente diversa, senza passare per quei dolori e per quegli orrori» (Turati 1921: 292).

Turati era convinto che neppure in Italia ci fossero le condizioni oggettive per una rivoluzione socialista, perché marxisticamente consapevole che una formazione economico-sociale non muore finché non ha esaurito la propria funzione, finché è ancora in grado di promuovere lo sviluppo delle forze produttive, finché il proletariato non ha sviluppato i propri istituti e la propria esperienza così da essere in grado di sostituire la borghesia nelle sue funzioni economiche, sociali e istituzionali. Contro Lenin, ma anche contro Gramsci, Turati era convinto che all’immaturità delle condizioni oggettive e del proletariato non si potesse né si dovesse ovviare con l’azione giacobina di un partito o di un gruppo ristretto che interpretasse la coscienza di classe a prescindere dalla coscienza reale delle masse, perché ciò avrebbe portato alla dittatura e alla distruzione di quelle libertà che per essere necessarie al miglioramento delle condizioni dei lavoratori non possono essere disprezzate in quanto libertà borghesi.

D’altra parte, in Italia mancavano anche le condizioni soggettive per una presa rivoluzionaria del potere, perché il Partito socialista, almeno dal 1892, si era sviluppato non come forza di attacco distruttivo allo Stato borghese, ma come complesso ramificato e articolato di istituti – leghe, sindacati di mestiere, municipi, case del popolo, circoli socialisti, gruppo parlamentare, giornali –, più federazione che partito ferreamente e centralmente diretto, intesa alla graduale conquista di migliori condizioni e di più ampi spazi di libertà nella società borghese. Certo, sopravviveva nel partito e nelle masse l’idea di una società nuova senza classi e senza proprietà privata, ma come orizzonte lontano, come mito, come fede, cui però mancava un qualsivoglia progetto e programma concreto di rivoluzione che non fosse solo rivolta o insurrezione o movimento di piazza.

Claudio Treves pensava che nel Partito socialista convivessero due ali «una che quasi non vede che una demolizione da compiere, l’altra che è impaziente soltanto della ricostruzione». Turati può essere considerato senz’altro il massimo esponente e il più coerente rappresentante dei “ricostruttori”. Così – mentre massimalisti, comunisti e ordinovisti, si mostravano poco o punto interessati a misurarsi con programmi di riforme concrete che contribuissero alla modernizzazione del paese, allo sviluppo delle forze produttive, alla redistribuzione equa delle ricchezze, al miglioramento delle condizioni economiche, sociali, civili dei lavoratori, al consolidamento delle libertà, alla espansione della democrazia (Arfé 1985: 28), perché tutto era demandato e rinviato al compiersi della rivoluzione – Turati dedicò invece tutta la sua opera proprio alla elaborazione e alla perorazione della necessità di perseguire questi obbiettivi riformisti e gradualisti.

3. Integrare le masse nella vita dello stato

Un programma di riforme organiche per il dopoguerra Turati lo formulerà nel discorso parlamentare del 26 giugno 1920 noto con il titolo Rifare l’Italia. Ma tale discorso, del quale ci occuperemo in dettaglio più avanti, era l’esito dell’impostazione realizzatrice e costruttiva che caratterizzava da sempre Turati e di un’elaborazione che era cominciata già durante la Prima guerra mondiale e «di un continuo lavoro di aggiornamento e di confronto con le varie esperienze internazionali, puntualmente registrate sulle colonne di «Critica sociale» […] Negli anni 1918-20, Turati è certamente uno dei pochi uomini politici italiani che abbia chiaro nella mente un suo concreto e compiuto programma per il dopoguerra» (Sabbatucci 1985: 347-348).

Un primo elemento portante di tale impostazione era individuato nella democratizzazione del sistema politico da conseguire tramite la conquista della rappresentanza proporzionale, che Turati, anche contro altri esponenti socialisti come Treves e Modigliani, privilegiava rispetto alla battaglia per la repubblica o per la costituzione. La rappresentanza proporzionale infatti, secondo Turati, avrebbe da un lato ridotto clientele e personalismi, dall’altro avrebbe introdotto meccanismi di lotta politica caratteristici della democrazia di massa, rendendo la rappresentanza parlamentare più aderente alla composizione sociale del paese. Tale battaglia, inoltre, presentava elementi di realismo politico che la rivendicazione della repubblica e della costituzione in quel contesto certo non aveva, considerato il fatto che tali obbiettivi potevano essere rivendicati durante o a seguito di una insurrezione e di una rivoluzione in cui, come si è detto, Turati proprio non credeva. La proporzionale, invece, con il rafforzamento dei partiti di massa avrebbe necessariamente comportato una consistente limitazione delle prerogative della corona e maggiori spazi di libertà contrattuale del movimento popolare.

Che poi le vicende della proporzionale con le elezioni del 1919 e la vittoria dei socialisti e dei cattolici abbia contribuito alla destabilizzazione del sistema, è una conseguenza che non può essere riversata esclusivamente e neppure principalmente sui nuovi criteri di rappresentanza.

Lo Stato avviato ad una transizione più democratica e con una maggiore partecipazione popolare avrebbe dovuto poi essere reso più efficiente nella propria azione attraverso un’azione di governo da incardinare in una serie di “corpi tecnici”, cioè in organismi consultivi e deliberativi aperti alle rappresentanze di classe e strutturati per settori specifici di intervento economico e sociale, quale era, già dall’età giolittiana, il Consiglio superiore del lavoro. Tali organismi, che prevedevano una collaborazione paritetica tra lavoratori e datori di lavoro, sarebbero stati poi collegati con l’esperienza della repubblica di Weimar, dove, in base alle idee di Walter Rathenau, si tentava un esperimento di economia organizzata e razionalizzata in grado di eliminare le ingiustizie e gli sprechi di un liberismo senza controllo.

Già nel 1918 Turati scriveva :

«Qui è da notare […] il valore rapidamente crescente che assumono, anche in periodi normali e pacifici, nella vita degli Stati moderni, i Corpi ed i Consigli tecnici e consultivi, di fronte ai Parlamenti genericamente politici, sempre più inadatti — dato il tecnicizzarsi progressivo della amministrazione e della vita — a legiferare concretamente in modo consapevole e di propria iniziativa, e a controllare veramente la sempre più complessa economia nazionale. […] Certo è che [i Corpi e i Consigli tecnici] diventano già oggi un concorrente della potestà parlamentare e un elemento integratore e avvaloratore della funzione parlamentare sempre più necessario. Anche perché — come chiunque ne abbia qualche esperienza ha potuto constatare — generalmente avviene questo: che le questioni pratiche e concrete, anche in materia di competizioni di classi e di categorie, che nei Parlamenti, sotto l’influsso delle vecchie e cristallizzate ideologie delle parti politiche, si trascinano indefinitamente senza sbocco e senza conclusione; nei Corpi tecnici — dove le rappresentanze degli interessati e dei competenti si trovano a faccia a faccia — trovano, malgrado ed anche in grazia del diretto ed immediato contrasto, le vie più pronte della transazione e del componimento più vantaggioso per tutti in ogni successivo momento».
(Postilla all’articolo di Claudio Treves, Il pericolo di una vittoria. I socialisti e la Commissione del dopoguerra, «Critica Sociale», 1-15 agosto 1918, pp. 170-177. Si veda anche Sabbatucci 1985: 348 e sgg.).

Un’occasione rilevante per conseguire questi obbiettivi di maggiore efficienza e più articolata partecipazione all’azione consultiva e legislativa, Turati l’aveva individuata – già nell’estate del 1918 – nella partecipazione alla cosiddetta “Commissionissima”, la commissione governativa voluta da V.E. Orlando per lo studio dei problemi del dopoguerra; di questo organismo parlamentare avrebbero dovuto far parte deputati socialisti e dirigenti sindacali, fra cui Turati, Treves, Graziadei, Rigola e D’Aragona.

Il progetto di Turati non andò in porto per l’opposizione della CGdL e del Partito socialista decisa in base alla pregiudiziale anticollaborazionista con i governi borghesi, che, di nuovo nel 1920, venne dai massimalisti così riproposta: «Appoggiamo il progetto [di riforma del regolamento] non perché con esso si miri a migliorare il funzionamento dell’istituto parlamentare, il che non ci riguarda, anzi ci troverebbe ostili, ma perché riteniamo che invece esso sia uno strumento efficacissimo attraverso il quale si possa dare la possibilità alle minoranze di meglio far valere i propri diritti» (cit. in Rossi).

A progetto affondato, Turati volle ancora insistere sul fatto che i socialisti avevano perduto un’importante occasione per articolare il loro programma e portare le loro rivendicazioni in seno ad organismi statali partecipati come accadeva in Inghilterra e in Germania, dove il movimento operaio, ben più agguerrito che in Italia, reclamava e otteneva la condivisione delle scelte in organismi simili alla Commissione italiana, così disprezzata dai socialisti della penisola. Infatti, precisava Turati, tutti i Sindacati operai tedeschi e le rispettive Confederazioni nazionali — socialista, cristiana, liberale — reclamavano a gara, ed ottenevano, l’ammissione delle loro rappresentanze nel Commissariato imperiale e nel Comitato consultivo per l’Economia di transizione dalla guerra alla pace, nel Comitato economico presso il Ministero dell’Interno, negli Uffici economici distrettuali, e formulavano particolareggiati programmi su tutte le questioni della transizione ad una economia di pace. In Inghilterra le Trade Unions erano largamente rappresentate, alla pari con le Associazioni industriali, nel Comitato per la ricostituzione del lavoro nella vita industriale, nei Comitati consultivi locali, senza parlare della parte attiva che prendevano nei Consigli industriali misti permanenti, e nelle Commissioni minori, ed erano considerate tra i principali organi per la soluzione di tutte le difficoltà della smobilitazione post-bellica. Con tale partecipazione il proletariato organizzato di Germania e d’Inghilterra aveva in mano alcuni degli strumenti di controllo delle grandi imminenti trasformazioni che avrebbero cambiato tutto il mondo economico, e specialmente i rapporti fra Stato, capitale e lavoro.

Ma, secondo Turati, l’Italia era un «Paese dove le masse popolari e lo stesso nostro partito sono permeati da fermenti anarchici come forse in nessun altro dell’orbe terracqueo» («Critica Sociale», 1-15 agosto 1918), ciò che poi spiegava «il diffuso disdegno nel partito per i problemi concreti, ossia per le cose reali di questo mondo, disdegno che è il prodotto dell’accidia mentale combinata colla aspettazione messianica del miracolo rivoluzionario».

Purtroppo, l’azione riformatrice del Partito socialista era fuorviata da quelli che disdegnano «i problemi concreti, l’azione positiva, la collaborazione, la lotta, la graduale conquista: tutto ciò che è reale e possibile, ma faticoso», e si aspettano «non si sa quale redenzione da un moto di piazza, senza obiettivo, senza piano, senza successo possibile».

4. Retroterra e preparazione di un organico programma di riforme

E alla redazione e proposizione di un piano di riforme di successo possibile Turati dedicherà tutta la sua attenzione e passione, che avranno come esito pubblico il discorso pronunciato alla Camera il 26 giugno 1920 in occasione della presentazione del governo Giolitti e poi reso noto con il titolo Rifare l’Italia, secondo Giuseppe Barone «il più organico e completo programma di riforme economiche che mai fosse stato proposto dal socialismo italiano» (Barone: 71).

L’obbiettivo di Turati non era, come s’è visto, né la rivoluzione, della quale mancavano tutti i presupposti oggettivi e soggettivi, né l’abbattimento dello Stato borghese, né, ancor meno, la distruzione degli assetti produttivi del paese, ma la ricostruzione dell’Italia a partire da una riconversione industriale orientata e guidata seguendo «un piano coerente di riorganizzazione dell’apparato economico e amministrativo dello Stato basato sullo sviluppo della cooperazione, sulla valorizzazione dei corpi consultivi tecnici, sull’asse integrato energia idroelettrica – sistemazione montana – bonifica idraulica e agraria – insediamento di industrie elettrochimiche nel Sud, secondo le direttive già lucidamente tracciate da Angelo Omodeo» (Barone: 71).

Angelo Omodeo

Angelo Omodeo (1876-1941) si era laureato in ingegneria al Politecnico di Milano e aveva continuato i suoi studi di meteorologia e idrologia applicata sviluppando un particolare interesse per i progetti di utilizzo industriale e agricolo delle acque. Socialista riformista, e dunque critico delle inconcludenti astrattezze del massimalismo, si legò di forte amicizia con Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Per la rivista di Turati, «Critica sociale», scrisse due serie di articoli, nella prima, pubblicata nel 1901, considerata la dipendenza estera per il carbone, ostacolo allo sviluppo autonomo del paese, si valutava la possibilità di sostituirlo, come fonte energetica, con l’energia idroelettrica.

Nella seconda serie, pubblicata nel 1906, Omodeo affrontava il tema del rapporto tra sviluppo del Meridione e costruzione di un sistema elettro-irriguo al quale affidare il compito di a) regolare le piene autunnali e rimediare alle secche estive, b) costruire e gestire i bacini di riserva per una razionale irrigazione, c) approntare le risorse energetiche per una serie di industrie elettrochimiche, connesse all’agricoltura per i concimi azotati di sintesi, ed elettrometallurgiche, dirette alla raffinazione in loco e dunque alla valorizzazione dei minerali del Mezzogiorno (Saba: 38).

In questa seconda serie, Omodeo, oltre a giustificare la necessità tecnica e finanziaria della concentrazione degli impianti idroelettrici, argomentò apertamente che, nelle condizioni storiche e politiche esistenti, la più razionale e celere utilizzazione delle risorse idrauliche poteva ottenersi solo con l’intervento della grande industria privata, e che tanto la tesi «pseudo-democratica e piccoloborghese» ostile alla grande impresa quanto il «socialismo semplicista» di chi propugnava la tesi della nazionalizzazione rischiavano di strozzare l’unica vera industria della «terza Italia» (Barone 1986: 26).

Nel discorso del 1920 Turati dirà: «Desumo, s’intende, questi dati da un opuscolo: I nuovi orizzonti dell’idraulica italiana, dell’ingegnere Angelo Omodeo di Milano, un tecnico di fama e di valore mondiale (non temete, non è un professore !) e insieme un cuore vibrante di idealità, di vero socialista, sebbene non tesserato. In queste poche pagine c’è infinitamente più socialismo che in tutta la serie dei nostri Congressi di partito».

La frequentazione tra Omodeo e Turati si consolidò nei successivi venti anni, fino a subire una sorta di accelerazione nella prima metà del 1920, quando l’interesse di Turati per i problemi agrari e della bonifica e per la loro concreta dimensione tecnico-economica si era approfondito grazie anche alle perlustrazioni compiute nel febbraio 1920 nell’Agro romano in compagnia di colleghi deputati e di finanzieri interessati alla valorizzazione agricola di quel territorio. Così ne scriveva ad Anna Kuliscioff il 16 febbraio 1920

Oggi dunque […] andammo alla bonifica delle cosiddette Casette Mattei (dell’ex feudatario cardinale Mattei), ora in possesso di un tal Guttinger, […] che vi ha fatto cose mirabili. Una tenuta di mille ettari che […] Era qualche anno fa tutta una palude malarica, e oggi è tutta un giardino, nel vero senso della parola, perché in gran parte è formato da vivai selezionati di piante e di fiori, e il Guttinger esporta per un milione e mezzo di semi di fiore. C’è anche l’allevamento del bestiame di ogni genere: porci e porche meravigliosi di ogni razza, una conigliera con centinaia e centinaia di conigli di ogni razza e colore, tutti accasellati in cellette, col loro nido nel retrocella […] Poi c’è i cavalli, i bovini, i bufali, i tori, e le motoaratrici in azione, e le turbine per l’irrigazione e le scuole pei bambini. […] Questo Guttinger mi ha parlato dei miracoli che si possono ottenere dall’Agro romano e in generale da tutta l’ltalia con l’agricoltura scientifica, e ho pensato che – quando saremo al potere – sarà un elemento prezioso per rifare l’Italia. Il problema agricolo è forse il fondamentale, perché, emancipandoci dall’estero, risolve anche in parte le questioni di politica estera, di armamenti, ecc. Ci vogliono dei milioni, egli stesso ne ha investiti parecchi, ma in tre anni o cinque decuplicano il prodotto e cinquantuplicano il reddito. Tenute che rendevano 18.000 lire ora rendono quasi mezzo milione all’anno. Domani probabilmente con lo stesso Guttinger, andremo a un’altra tenuta – Maccarese – fra Palo e il mare. […] Il Guttinger non crede ancora possibili qui (fra qualche anno sì, ma non ora) le affittanze collettive, perché è ancora troppo forte l’anticipo di capitale necessario, ma ha applicato la mezzadria collettiva, affidando gli appezzamenti a gruppi di famiglie che si dividono il lavoro e si sorvegliano fra loro (Turati-Kuliscioff, V: 223-24).

E il giorno seguente, al rientro da queste perlustrazioni guidate, Turati lamenta l’inazione da un lato e il rivoluzionarismo inconcludente dall’altro che caratterizzavano le diverse anime del socialismo italiano, le quali

oscillano fra il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici e il socialismo, non sentono quanto sarebbe prezioso per noi questo momento storico e quale delitto politico vi sia nel vivere così alla deriva, fra una rivoluzione che non si fa e una riforma che non si tenta, gli uni cercando l’alibi negli altri per giustificare il proprio nullismo, e viceversa. Le gite di questi giorni nell’Agro romano mi hanno persuaso sempre più, facendomelo toccare con mano, della criminosità della nostra inazione. Basterebbe il problema agricolo per darci una funzione rivoluzionaria, se sapessimo volere e agire. Perché il problema dell’Agro è poi quello di tutta l’Italia meridionale. Portar via le terre ai latifondisti e metterle subito in valore sarebbe già una vera rivoluzione, e in sostanza molto facile, perché non si tratta neppure di vincere una vera lotta di classe, ma solo di espropriare poche centinaia di parassiti per giovare a milioni e milioni di Italiani. Tutta l’opinione pubblica dovrebbe essere con noi. “Non ci siete che voialtri che potreste farlo”, mi diceva il mio cicerone [Guttinger], e penso che potremmo farlo anche senza assumere la diretta responsabilità del governo (Turati-Kuliscioff, V: 227-228).

Politica, industria, banca e tecnici. I rapporti tra Turati e il mondo delle banche, della finanza, delle imprese e dei tecnici avevano avuto inizio molto tempo prima a contatto con le esperienze riformatrici della democrazia lombarda, nella quale si esprimeva quella borghesia legata alle attività imprenditoriali della Società Umanitaria e del suo presidente Luigi Della Torre.

Luigi Della Torre

Luigi Della Torre, democratico e poi antifascista, principale finanziatore dei programmi di edilizia popolare e di istruzione professionale promossi dalle forze radical-socialiste a Milano, forte delle sue molteplici relazioni con industriali e banchieri, fungeva da tramite tra i riformisti milanesi e gli imprenditori più aperti alla collaborazione con il movimento operaio organizzato. D’altronde, nel quadro delle sue prospettive riformiste, non può stupire che gli interlocutori privilegiati di Turati fossero il mondo dell’alta finanza e i quadri tecnici della grande industria settentrionale (Barone: 75).

Luigi Della Torre era vicepresidente della Edison e proprietario del «Secolo», il giornale più importante della democrazia lombarda; era presidente della casa editrice Fratelli Treves che pubblicava anche la «Critica Sociale», passata poi alla Bemporad di Firenze legata alla Banca Commerciale, banca con la quale Turati intratteneva rapporti mediati sempre da Luigi Della Torre, in stretti legami d’affari con la Comit.

E Luigi Della Torre, assieme a Turati e a Omodeo, partecipa da protagonista alla realizzazione del progetto meridionalista elettroirriguo che avrebbe dovuto non solo imprimere una svolta alle forze produttive del paese, ma anche avviare il Mezzogiorno a colmare quel divario economico e sociale che lo divideva dalle aree più avanzate dell’Italia.

A proposito dei complessi rapporti politica-industria-banca-tecnici, Giuseppe Barone osserva che senza le solide entrature di Della Torre nelle alte gerarchie della Banca Commerciale, l’intervento del capitale finanziario settentrionale nel Mezzogiorno non avrebbe probabilmente assunto l’intensità e la carica modernizzatrice effettivamente dispiegate; né la progettualità di Omodeo sarebbe mai stata in grado di tradursi in un programma operativo senza il deliberato concorso di banchieri disposti a correre l’alea di rischiosi investimenti fondiari nelle aree arretrate del paese.

Anna Kuliscioff

Anna Kuliscioff. Al gradualismo democratico-riformista e, più in particolare, alla preparazione del discorso di Turati contribuì in modo essenziale Anna Kuliscioff. Russa, rivoluzionaria, venne per questo arrestata più volte in Francia e in Italia, dove completò gli studi di medicina che aveva iniziato in Svizzera. In Italia le sue idee approdarono infine al riformismo gradualista e alla militanza nel Partito socialista, dove lavorò e discusse sempre con un vivo senso di indipendenza, soprattutto quando dovette combattere, anche contro i suoi stessi compagni, per i diritti delle donne e per il suffragio femminile.

Anna Kuliscioff, compagna di vita di Turati dal 1885, sarà anche la sua ispiratrice e la sua coscienza critica indicando nelle sue lettere la via per «uscire fuori dal pantano dell’inazione» che immobilizzava il massimalismo del PSI: un programma organico di riforme che affrontasse con decisione il problema della terra, quello del regime interno delle fabbriche e la riforma tributaria. Un programma che doveva essere perseguito a costo anche di una scissione del Partito in vista di un’alleanza con i gruppi nittiani e giolittiani rappresentanti della borghesia liberale e progressista da un lato e con i popolari dall’altro (Ventura: 51).

La collaborazione e lo scambio di idee tra Turati e Omodeo, stimolati e coordinati da Anna Kuliscioff, registrarono un momento di grande creatività con il discorso del 26 giugno di cui si diceva. L’idea sembra essere stata di Anna Kuliscioff, che in una lettera del 18 maggio 1920 scrive a Turati

Sai che cosa potrebbe essere un vero reagente in tutta la Camera e in seno del Partito? Un tuo discorso all’apertura della Camera sulle dichiarazioni del governo, in cui tu esponessi nelle linee generali la messa in valore delle ricchezze italiane, di cui ti parlò Omodeo e che ti piacque moltissimo. Sarebbe un discorso eminentemente socialista e, nello stesso tempo, un programma di ricostruzione e di rinnovamento di tutto il paese. Al ritorno di Omodeo da Roma tra pochi giorni, egli verrebbe qui da me per mettermi nella possibilità di essere intermediaria e collaboratrice di questo piano della tua reprise parlamentare. Non importa che il Gruppo ti dia o non ti dia la facoltà di parlare a nome suo. Parlerai per conto tuo, e dovrà essere il programma fondamento di un governo democratico-socialista, che non mi pare tanto lontano quanto pare a te. Ad ogni modo, potrebbe anche determinare correnti più precise sia nel Partito, sia nel paese, tanto da diventare piattaforma alle prossime e certo non lontane elezioni politiche. E su tal terreno vorrei si determinasse una scissione nel Partito e la polarizzazione dei migliori elementi della borghesia verso un partito democratico-socialista di governo (Turati-Kuliscioff, V: 345).

Le dichiarazioni cui allude Kuliscioff sono quelle del nuovo governo che Giolitti si apprestava a formare dopo dimissioni di Nitti il 9 giugno 1920.

5. Rifare l’Italia: la proposta centrale

Così, Turati, forte delle sue convinzioni riformiste, ammaestrato dalle esperienze dei movimenti operai più forti e con maggiore esperienza in Gran Bretagna e in Germania, confortato dalle elaborazioni tecnico-politiche di Omodeo circa un progetto elettro-irriguo capace di cambiare il volto dell’Italia e del Meridione, teso a sfuggire alla morsa di una rivoluzione che non si fa e una riforma che non si tenta, premuto e sollecitato da Anna Kuliscioff, il 26 giugno 1920 pronuncia in parlamento il suo grande discorso; dove illustra con dovizia di particolari la necessità di un grande piano regolatore nazionale, «un piano d’azione “socialista”, che non tanto si affretti a liquidare il regime borghese con una opzione volontarista, per lui di dubbio esito, quanto miri piuttosto ad accelerare il processo di modernizzazione in tutto il paese, estendendolo in primo luogo a quella “mezza Italia ancora estranea alla civiltà capitalistica”» (Barone 1986: 79).

Il punto di attacco e il perno di tale piano Turati lo individua nel problema idraulico

Si può dire – intendiamoci col solito granello di sale – che tutto si concentra nel problema idraulico. L’utilizzazione delle forze idriche e la trasmissione della energia a distanza … Ad esse si connettono le sistemazioni montane, onde la sicurezza delle alte pendici; il disciplinamento dei corsi d’acqua, onde la difesa contro le piene; le bonifiche, e quindi la messa in valore di infiniti nuovi terreni; la soppressione della malaria, e di qui una maggiore efficienza dei lavoratori; l’estensione delle piane abitabili, e con ciò la soluzione necessaria, sto per dire automatica, di una infinità di altri problemi, viabilità, ferrovie, scuole, ospedali, ecc., che ne sono il naturale corollario; l’irrigazione, e quindi l’aumento della produzione terriera e l’agricoltura industrializzata; la navigazione interna, onde facilitazione dei trasporti; emancipazione dal carbone di Cardiff, ecc.; la regolazione dei deflussi a mezzo di serbatoi, onde la creazione benefica di nuovi corsi d’acqua, a deflusso continuo, con tutte le utilità conseguenti; la trazione elettrica, onde una soluzione tutta italiana del problema ferroviario e di nuovo la emancipazione dal carbone estero; la diffusione dell’energia elettrica, da cui la fondazione di nuove industrie, specialmente della elettrochimica, cioè di una industria fondamentale, essenzialmente nostra, perché non a base di carbone, colla messa in valore, necessaria e naturale, di tutte le nostre ricchezze; la produzione intensiva dei concimi, da cui il fiorire possibile di tutta la nostra industria agraria».

Questo complesso di misure non andava inteso come mero elenco ma come piano, programma nazionale, ciò che implicava coordinamento, contemporaneità o almeno impegno coerente e insistito alla concatenazione di tutti gli interventi e dunque l’azione di uno Stato capace di indirizzare le risorse umane e materiali alla ripresa economica e allo sviluppo di tutto il paese e segnatamente delle aree meno sviluppate del Mezzogiorno.

La soluzione del problema idraulico secondo Turati è cruciale in particolare per il Mezzogiorno, costretto alla minorità economica e sociale da una situazione insieme assurda e paradossale, caratterizzata dal fatto che nel Meridione vengono coltivati i terreni più alti, meno fertili, meno suscettibili di incremento produttivo e quindi lasciati inoperosi per mesi o per anni, mentre vengono abbandonati i terreni potenzialmente più fertili situati nelle foci, in pianura, nelle valli, così

«Per effetto di cotesto assurdo economico tutta la vita meridionale è contro natura; si abitano le alture e sono deserte le piane; sono deserte ed incolte perché ivi c’è la malaria e chi vi si avventura ci muore. Le ferrovie corrono per le alture, o a mezza costa, su tracciati impossibili, su terreni argillosi che franano, con stazioni a 20 o 30 chilometri dall’abitato, onde la vita selvaggia, l’emigrazione necessaria. Il diboscamento produce le frane, il dilavamento delle terre, l’impoverimento dell’humus. I corsi d’acqua non imbrigliati, né alimentati dal bosco, generano piene irruenti, catastrofiche, e allagamenti periodici, che distruggerebbero le messi, se messi ci fossero. Per cui i proprietari, non disponendo né di mezzi, né di capacità tecnica, hanno interesse a lasciare quei terreni a boscaglia, a macchie per cignali, malgrado abbiano profondità talora di sette, otto, dieci metri e siano ricchissimi di materie organiche. Questo stato di fatto, che la proprietà non può risolvere, sovverte tutta la civiltà e impedisce qualsiasi progresso economico, quindi, di riflesso, sociale, politico, morale del Mezzogiorno. Le industrie non vi nascono, perché manca ad esse ogni base. La genialità della stirpe, la topografia di quelle regioni che stanno su un duplice mare, onde avrebbero facile comunicazione con tutto il mondo, tutto questo è in pura perdita. Non solo è buttata via la terra, ma anche il mare è buttato via! …
In complesso, nell’Italia meridionale, anche secondo l’ultimo annuario statistico, abbiamo molto più di un milione di ettari da mettere in valore; terreni che, bonificati, renderebbero quanto e più dei migliori terreni del nostro Settentrione … Ma questo miracolo non si compie con la sola bonifica, coi soli serbatoi, con la sola elettrificazione; ma con tutte queste cose unite e contemporanee, rimovendo gli ostacoli artificiali, storici, tradizionali e soprattutto politici».

Alla bonifica idraulica e igienica, compito dello Stato, delle province, dei comuni, deve succedere la bonifica agraria, senza di che la prima è in pura perdita (può anzi produrre dei danni) e sono milioni buttati. Nel Mezzogiorno, infatti, si sono buttati via centinaia di milioni. Per tre ragioni: 1° perché per le bonifiche meridionali si è adottato il modello della bonifica padana, dove ci sono le Alpi, i ghiacciai, i fiumi e l’irrigazione già in atto, e insomma condizioni diametralmente opposte a quelle del Mezzogiorno; 2° perché le bonifiche sono state finanziate e fatte a scopo per lo più elettorale o per la disoccupazione, e cioè per «dare lavoro» e non per intensificare la produzione e il lavoro. Così i lavori si facevano a spizzico, secondo le influenze politiche, e la bonifica, fatta oggi, era distrutta dalla piena del domani ; 3° perché, ed è l’aspetto più importante, i proprietari alla bonifica idraulica non hanno mai fatto seguire la bonifica agraria. E non lo hanno fatto perché non ne avevano l’interesse, perché la bonifica distrugge il feudo, il latifondo, la ricchezza inoperosa, la soggezione cieca del contadino, la malaria e tutto ciò su di cui ingrassa la grossa proprietà.

Quali forze e organismi possono farsi carico del necessario complesso di interventi organizzati in un piano regolatore? In primo luogo lo Stato, e uno Stato capace di articolare il proprio intervento secondo le specificità regionali e dunque “ragionevolmente decentrato”. Ma lo Stato da solo non basta, come non basta il solo industriale, perché per una sola industria le spese e i rischi son troppi. Al massimo, farà dei piccoli bacini, al servizio di un’azienda, che non servirà all’irrigazione, all’acqua potabile, al riscaldamento, all’illuminazione, alle industrie, non ancora esistenti. Nel Mezzogiorno il solo proprietario agrario non farà mai nulla perché manca della preparazione tecnica, della capacità finanziaria e anche dell’interesse diretto.

È necessario dunque che assieme allo Stato intervengano il capitale e il lavoro. Per lavoro Turati intende i lavoratori organizzati in cooperative, le quali, come è accaduto in particolare nel Ravennate e nel Ferrarese, potrebbero anche nel Mezzogiorno fare miracoli e riscattare ad un tempo le terre e i cittadini. 2

6. Rifare l’Italia: articolazione del programma

Turati completa l’illustrazione del problema idraulico, centrale per il Mezzogiorno, con una serie di proposte pratiche, che tutte, occorre insistere, dovrebbero comporsi in un piano coordinato e disteso negli anni, se non si vuole, una volta di più, affastellare interventi disorganici che poco o nulla incidono sugli assetti produttivi e sociali del paese.

Il discorso di Turati in un’edizione del 1920

Recuperare una capacità di programmazione coordinata degli organi dello Stato. Ma il coordinamento degli interventi suppone lo Stato, e uno Stato capace di esprimersi attraverso i progetti e le azioni mirate e concordi dei vari organi esecutivi, quando invece in Italia non si ha neppure l’elementare affiatamento tra i vari ministeri. L’ostruzione e la dissociazione fra i vari dicasteri è tale che è impossibile mettere d’accordo il Ministero dell’agricoltura con quello della marina, quello dei lavori pubblici con quello dell’industria ed i vari Consigli più o meno superiori; ogni organismo non porta altro contributo che di complicazione e di ostruzionismo.

Sviluppo dell’istruzione tecnica. Rilievo particolare assume lo sviluppo dell’istruzione tecnica. Nell’Italia meridionale non vi è una scuola, un laboratorio, un istituto superiore, che studi l’agricoltura specializzata del paese, le malattie e la selezione delle piante, i problemi infiniti di chimica, di biologia, di meccanica, di irrigazione.

Diversamente, l’esempio della Germania è lì a indicarci che cosa e come fare. Il miracolo dell’industria tedesca, realizzatosi in poco più di una generazione è stato l’esito, da un lato di una forte volontà organizzatrice, dall’altro di una sviluppatissima rete di scuole tecniche: università tecniche che presero il posto di antiche istituzioni accademiche, scuole tecniche secondarie la cui struttura variava in funzione delle regioni e delle industrie, scuole complementari obbligatorie per tutti gli operai dai 13 ai 18 anni, che dovevano frequentarle, pagati, durante le ore di lavoro, laboratori e biblioteche presenti in ogni fabbrica, associazioni di ingegneri che curavano la direzione intellettuale del movimento industriale.

Industrializzare l’agricoltura, non estendere i terreni coltivati a grano. Noi importiamo ogni anno da quindici a venti milioni di quintali di grano per colmare il deficit della produzione interna, che è da 40 a 50 milioni di quintali. La nostra produzione granaria è così bene organizzata che, poco tempo fa, si dava, come tutti ricordano, il grano ai maiali perché costava meno del fieno e della biada. Comunque, prima della guerra, colle esportazioni, il bilancio si poteva tenere in sufficiente equilibrio. Ma siccome importavamo prodotti indispensabili ed esportavamo prodotti relativamente di lusso (olii, agrumi, vino), avvenne che, per la carestia della guerra, i prodotti necessari rincararono, e quelli non necessari ribassarono; lo squilibrio divenne enorme.

Bisogna quindi produrre più di grano, o più di altri prodotti da scambiarsi col grano; ed è qui che si scopre il difetto della più recente legislazione granaria: perché tende, unicamente alla requisizione dei terreni da coltivare a grano ed aumentare l’estensione di tale coltivazione. Ma tutti gli agronomi in Italia constatano che sui terreni industrializzati si è già esteso troppo il terreno granario, nella regione collinosa, dove la sua coltivazione non è più economica, e dove converrebbe invece coltivare prodotti più naturali, da esportare, magari, per avere in cambio grano dall’estero. Non è quindi questione di estensione ma di intensificazione.

Nell’Italia settentrionale, e in parte della centrale, si ha già l’agricoltura industrializzata, e si tratta unicamente di intensificarla; la questione è, essenzialmente, di concimi; questione che poi si connette con l’altra della irrigazione, senza cui la concimazione difficilmente viene assimilata e può essere, qualche volta, più nociva che utile.

In Italia si consuma un decimo di concimi in confronto a quel che si consuma nei paesi più avanzati. In Belgio – con quel clima! – si produce il doppio del grano, sulla stessa unità territoriale, in confronto dell’Italia; ed in Germania il triplo. Si calcola che un aumento del 40-50 per cento della produzione granaria sia tutt’altro che impossibile, sia anzi facile in breve tempo nei terreni già industrializzati.

Un’unica grande rete elettrica. Un altro intervento importantissimo sarebbe la costruzione di un’unica grande rete elettrica ancorata allo sfruttamento della forza idraulica, che consentirebbe da un lato l’elettrificazione di almeno quattromila dei tredicimila chilometri della rete ferroviaria, dall’altro di risolvere il problema del riscaldamento con il conseguente arresto del disboscamento che espone valli e pianure alle piene e alla devastazione.

Riforma, snellimento, riqualificazione della burocrazia statale. Gli organi e gli uffici dello Stato sono oberati da un’elefantiasi burocratica derivata dal fatto che durante la guerra gli uffici sono stati riempiti di avventizi che dovevano rimanere per il solo periodo della guerra e che ora nessuno osa mandare via anche se sono in sovrannumero e non necessari allo svolgimento delle attività di governo e amministrative. Gli interessi costituiti poi si coalizzano e si esprimono attraverso scioperi e assenze dal lavoro che contribuiscono a deprimere le già ridotte capacità di intervento del governo.

Burocrazia e Mezzogiorno. Ma la questione degli uffici e della burocrazia è soprattutto una cosa sola con la questione del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno è il gran vivaio di tutta la burocrazia italiana, dal capodivisione alla guardia carceraria. Gli uffici pubblici sono diventati uffici di collocamento di una sorta di mano d’opera intellettuale disoccupata. La difficoltà del problema burocratico è là, mentre la soluzione consiste nel creare lavoro, sostituendo il lavoro parassitario, malsano, turbolento con il lavoro utile e produttivo.

Ma, evidentemente, il rimedio decisivo rimanda al problema della ricostruzione economica dell’Italia. Industrializzare i servizi, il più che si può, ma soprattutto industrializzare l’Italia, ecco ciò che occorre, per sostituire al lavoro inutile e sottopagato negli uffici, il lavoro utile e produttivo.

7. Il problema della piccola e media borghesia in Turati e in Gramsci

Anche Antonio Gramsci, in un articolo pubblicato un paio di mesi dopo l’intervento di Turati, si era occupato della funzione della piccola e media borghesia impiegatizia e del suo destino nel corso della rivoluzione proletaria.

«Nella guerra e per la guerra, l’apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si è militarizzato […] Tutte le attività di interesse generale sono state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla nazione italiana; e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte […] la piccola e media borghesia, la borghesia “intellettuale” (detta “intellettuale” perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studio generali), la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città usurai nelle campagne […] la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè, divenuta oggi la “serva padrona” che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale». (Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919, «L’Ordine Nuovo», 6-13 dicembre 1919).

Non, dunque, come sosteneva Turati, ricostruire l’economia del paese per offrire alla piccola borghesia impiegatizia nuove occasioni di lavoro e di riqualificazione sociale, ma la sua eliminazione «col ferro e col fuoco». Era questa, a ben vedere, la soluzione bolscevica: l’eliminazione fisica, l’annientamento non di singoli individui ma di interi gruppi sociali marchiati con l’accusa di essere parassiti e avversari della classe operaia.

Una soluzione suicida, come Turati aveva avvertito due mesi prima nel discorso Socialismo e massimalismo al congresso socialista di Bologna nell’ottobre 1919:

«Questo è un inganno mostruoso [la rivoluzione violenta], è una farsa, che per altro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la compressione militarista, ma sotto la ostilità di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi, che si avvicinavano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro propria ascensione e la liberazione del mondo, e che noi – colla minaccia della dittatura e del sangue – gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari, privandoci di un presidio inestimabile di consensi, di cooperazioni, di forze morali, che in dati momenti sarebbero decisivi a nostro favore. Ma noi facciamo di peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa. Perché chi aspetta con cieca fede il terno al lotto, non si rimbocca le maniche e non s’industria di prepararsi il pane quotidiano. In altri termini, voi uccidete il socialismo, voi rinunziate all’avvenire del proletariato. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo» (Turati 1921: 296-97).

La prospettiva “eliminazionista” di Gramsci, di lì a poco, verrà fatta propria da quella piccola borghesia cui venivano promessi il ferro e il fuoco; ferro e fuoco che, inquadrata nelle squadre fasciste, usò senza limiti contro i militanti, i giornali e le organizzazioni del movimento operaio.

Ancora una volta, e per tempo (ma invano), Turati aveva messo messo in guardia i socialisti e i comunisti contro il rischio altissimo che il culto messianico della rivoluzione violenta e il terrore minacciato contro la piccola borghesia avrebbe fornito agli avversari soldati, armi, motivazioni e consenso.

Gramsci nel 1930, nei Quaderni del carcere tornerà sul problema della piccola borghesia nel dopoguerra, ma con tutt’altre idee rispetto al 1919, che suonano quasi come un’autocritica, sebbene la polemica fosse sempre contro il Partito socialista: «Era evidente che la guerra, con l’enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato specialmente tra i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzato questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante» (Quaderni del carcere, Q3, §44, p. 322).

8. La crisi e l’urgenza del momento storico

In Rifare l’Italia Turati afferma di plagiare sé stesso, di ripetere cose già dette; ma, il fatto nuovo e riqualificante è l’urgenza del momento, la crisi – «crisi di regime, di regime politico, di regime sociale» –, il caos economico, la debolezza dello Stato e delle classi dirigenti, per cui «le cose vecchie sono fatte nuove dal momento tanto diverso […] Non è più questione di anni; può essere questione di mesi».

Una crisi resa ancora più drammatica dal fatto che «la borghesia non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione».

Ma il vuoto conseguente a questa duplice incapacità non può durare e, dunque, le domande fondamentali sono: chi colmerà tale vuoto, con quali mezzi e in quale modo?

«Se la borghesia è abdicataria, se il proletariato non è pronto, se il mondo e la civiltà debbono pur vivere, bisognerà pure, a dispetto di tutti i preconcetti, che qualcuno o qualche cosa assuma la gestione sociale: qualcuno che non può più essere la borghesia quale fu, che non può ancora essere il proletariato quale sarà, che deve essere qualche cosa di mezzo fra proletariato e borghesia, che deve essere un potere, una forza, che anticipi in qualche modo l’avvento del proletariato, che prolunghi in qualche modo il dominio della borghesia, fino al punto di saldatura, che sarà anche il punto della scissione».

Turati ritiene che dovrebbe essere il Partito socialista alleato con forze borghesi (perché fra capitalismo e capitalismo, fra borghesia e borghesia bisogna spesso distinguere), e giovandosi dell’apporto di tecnici ed esperti a colmare il vuoto e a farsi carico di una soluzione avanzata per uscire dalla crisi del paese.

La collaborazione fra socialisti e moderne forze borghesi non è detto che debba avvenire attraverso un’alleanza formale in parlamento o attraverso la diretta partecipazione dei socialisti al governo. Questa soluzione, considerato l’orientamento “rivoluzionario” della base proletaria e della direzione massimalista del Psi, non è secondo Turati realisticamente adottabile per l’immediato, a meno che non si vogliano spingere le masse a forme di azione sociale non lontane dalle insurrezioni anarchiche. La collaborazione sarebbe invece fattibile all’interno di “corpi tecnici” analoghi alla Commissione per il dopoguerra o a un rinnovato e potenziato Consiglio del lavoro (magari trasformato in un vero e proprio “parlamento del lavoro”), in vista di realizzazioni concrete – ciò che più interessava Turati – evitando un diretto coinvolgimento nelle responsabilità di governo (Sabatucci: 353).

«È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi», conclude la sua perorazione Filippo Turati.

Due anni dopo, il fascismo conquistava l’Italia, confermando le peggiori previsioni di Turati. Ma le idee di fondo del discorso di Turati – il riformismo, l’alleanza del proletariato con le forze borghesi e imprenditoriali avanzate, il piano di riforme, il ruolo dei tecnici, il ruolo dello Stato, il decentramento, il coinvolgimento dei lavoratori nel programma di ricostruzione – rimasero nell’orizzonte del movimento operaio, operando come sottotraccia anche durante il ventennio.

Tant’è che al V congresso del Pci (29 dic-6 genn 1946) Palmiro Togliatti sentì il bisogno di ricollegarsi al discorso di Turati per riprenderne, seppure in un contesto profondamente mutato, la sostanza e la direzione, in vista, anche nel secondo dopoguerra, della ricostruzione dell’Italia.3

Cosa che Turati, profeticamente, aveva anticipato dalla tribuna del congresso di Livorno il 19 gennaio 1921: «Tutte queste cose capirete fra breve e allora il programma, che state (come confessaste) faticosamente elaborando e che tuttavia ci vorreste imporre, vi si modificherà fra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma… » (Turati 1921: 313).

Note

1. Cit. in Sheri Berman, Democracy and Dictatorship in Europe, Oxford University Press, 2019.

2. Sulla realizzazione del progetto riformista in un’area limitata della Sardegna, la costruzione della diga sul Tirso, la bonifica della piana di Terralba, la fondazione di Arborea si veda in questo sito La bonifica della piana di Terralba e la fondazione di Mussolinia-Arborea 1918-1932.

3. Quattro anni più tardi, Il 6-7 maggio 1950, si tenne a Cagliari il Congresso del popolo sardo organizzato dalle camere del lavoro provinciali, dal Pci e dal Psi, con lo scopo di discutere delle linee maestre di un piano di rinascita della Sardegna. Scrive in proposito Salvatore Pirastu, segretario del congresso: «A distanza di anni si sono poste molte domande sul Congresso del Popolo sardo e sui suoi risultati, che meriterebbero approfondimenti. Prima domanda: si è trattato di proposte, politicamente e culturalmente nuove, capaci di far superare la secolare arretratezza dell’isola? A me sembra che queste linee possano essere comparate a quelle del cosiddetto Piano elettro-irriguo (diga del Tirso, bonifica del territorio), elaborato nei primi decenni del secolo scorso e realizzato tecnicamente dall’ing. Angelo Omodeo, socialista, politicamente dal riformismo socialista (Filippo Turati) e da quello democratico (Francesco Saverio Nitti) e finanziariamente dalla Banca commerciale e dalla Bastogi. Il riformismo sta ridiventando di moda da poco. Ma prima era bandito dalla sinistra» (Pirastu: 46).

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https://www.iconur.it/oltre-l-isola/65-non-fare-come-in-russia-l-alternativa-democratica-e-riformista-di-filippo-turati-al-comunismo-e-al-fascismo

 

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