Le radici etnico-culturali delle eccellenze enogastronomiche della Sardegna, di Tonino Bussu

Ogni comunità o popolo ha elaborato una filosofia che emerge dalla sua specifica cultura enogastronomica. Nella gastronomia il popolo sardo esprime modi di fare, comportamenti, costumanze e regole. Vediamole.

Ogni comunità o popolo ha elaborato una filosofia che emerge dalla sua specifica cultura enogastronomica, a sua volta frutto della realtà socio-economico-culturale in cui vive, condizionata dal clima, dagli strumenti a disposizione, dalla conformazione geografica, dalla flora e fauna presenti nel territorio.

La cucina dei nostri progenitori e dei nostri nonni o bisnonni era abbastanza frugale, direi essenziale, quasi vegetariana tranne che nei giorni di festa importanti o nelle ricorrenze o cerimonie speciali.

Eppure anche la gastronomia faceva parte integrante della cultura del popolo sardo, di questa comunità per cui ogni pasto, ogni cibo, ogni pietanza aveva sì significati letterali, specifici, culinari, ma anche  soprattutto termini di paragone per descrivere modi di fare, comportamenti, costumanze e regole da rispettare rigorosamente.

Il pane è, come del resto era, l’elemento comune ed essenziale ancora oggi più prezioso di quel che si pensi, ma aveva molti significati metaforici che permettevano di capire le regole, le tradizioni, l’identità stessa di un popolo.

E infatti attorno al pane sono nati modi di dire o proverbi che sono alla base dell’educazione e della formazione del cittadino barbaricino e non solo.

Anzi i significati metaforici del pane certe volte erano più importanti ed essenziali del pane stesso, nonostante la sua sacralità nell’uso.

Basta pensare al detto: Menzus manchet su pane chi non sa Zustissia

Qui il pane, come dicevo, come alimento conta sempre certo, ma passa in secondo ordine come valore essenziale, perché alla base dell’esistenza, del rapportarsi con gli altri, vi è un’etica, una legge superiore, la Giustizia con la G maiuscola, sa Zustissia, non nel senso di forze dell’ordine, ma nel significato più profondo del comportasi in modo giusto, equilibrato, senza far torti, senza compiere sopraffazioni  che possano umiliare un’altra personam un cittadino, che possano privarlo della libertà, che è l’ingiustizia più grande, tanto è vero che anche per esprimere l’alto valore che la  libertà ha, si dice che ‘non b’est dinare chi la pacat, non ha prezzo, non si può acquistare con i quattrini, anzi,…………

Ma torramus a su pane, ritorniamo al pane

Son tre gli alimenti che esprimono e esprimevano una buona soddisfazione alimentare.

Questi elementi sono su pane, il pane, su casu, il formaggio e su vinu, il vino.

Infatti uno dei desideri comuni era proprio sintetizzato nel riuscire a consumare, in una pietanza frugale, ma soddisfacente, almeno  quanto  queste tre parole  esprimevano insieme : pane e casu e binu a rasu!

In omaggio alla privacy però non si chiedeva mai: cosa avete mangiato oggi? Tanto la risposta era generica e misteriosa: istrufulos pintos o perdas de rivu.

E il pane era sempre presente, altrimenti significava che si soffriva la fame, che a lungo andare indeboliva il corpo e portava la persona alla morte per denutrizione.

La fame in Sardegna era su famine, da noi sa gana, e aveva addirittura un nome, si chiamava Mastru Jubanne, e si ricordavano annate particolari in cui su famine la faceva da padrona perché erano anni di carestia, de su cadicu, le persone apparivano con un aspetto cadaverico, e su cadicu era anche un vento, che spirava da nord est, il Grecale, chiamato da noi( a Ollolai) anche ventu ‘e Oroteddi che portava carestia, seminava la disperazione e la denutrizione e morte, fame e isperdissiu.

Le annate di fame, di carestia erano note e ben ricordate, l’ultima che gli anziani ricordano è quella del ’43, mentre terribile era stato anche il  ’45, s’annu de su thilipirche, l’anno delle cavallette che avevano letteralmente divorato i raccolti.

Ma si riuscì a superare anche quel brutto periodo grazie all’ingegno e agli sforzi e sacrifici delle popolazioni.

Ogni tanto qualche anziano minaccia e quasi si augura che possano ritornare su ’43  o ’45 in modo che i giovani possano capire e apprezzare meglio il relativo benessere odierno, perché se paragonato a quelle tragiche e drammatiche situazioni, oggi c’è benessere, nonostante la crisi.

La fame, quindi, su famine, sa gana. C’era differenza anche tra gana e gana, la peggiore era a gana netta, quando non si aveva proprio nulla da mangiare, quando non si possedeva proprio niente, neanche l’acqua. Infatti la povertà estrema era dipinta col detto: non tenet mancu abba in brocca, non ha nemmeno acqua nella brocca.

Ma la persona saggia e virtuosa doveva sopportare con dignità la fame, sa gana, ingegnandosi per superare quei momenti difficili per arrivare a migliorare la propria condizione economica.

E come si doveva sopportare con dignità la fame, lo stesso si doveva fare per la sazietà; un altro detto infatti recitava: bisonzu de aguantare sa gana e s’abrentru. Non bisognava mai esagerare, né in un senso né nell’altro, ci voleva e ci vuole sempre moderazione.

Ma abrentu viene usato anche in senso metaforico. Quando due persone che non si incontravano da tempo, si vedono, si salutano e parlano a lungo e in modo disteso, si dice che s’ant dau un abrentu de chistione, s’ant fattu una bella faveddada.

Qualche volta si usa anche la parola thathu, sazio, soddisfatto, unu thathu de chistione.

Thathu ha anche altri significati, indica pure grande soddisfazione, a volte indica una rivincita.

E per indicare il massimo di questa soddisfazione si utilizza sì il termine thathu, ma c’è di mezzo il lardo, altro alimento prezioso, indispensabile un tempo.

Il lardo, infatti, era il metro per misurare la prosperità de su porcu mannale, il maiale da ingrasso di un tempo, mannale, per il maiale, mannalitha per la capra domestica che ogni famiglia aveva in casa per la provvista del latte.

Quando si uccideva il maiale da ingrasso, in genere nel periodo intorno all’Immacolata, Sas Virgines, ai primi di dicembre dunque, si faceva la festa che si chiamava da noi a Ollolai, sa gaitza, altrove s’isaladura, perché il maiale veniva diviso in due parti, lados, isaladura, o sa cochina de su porcu, ecc.

Quando si divideva, su mere misurava con le dita, a poddiches, lo spessore del lardo ed era motivo di vanto se questo era spesso quattro o cinque dita di profondità.

Ma il lardo serviva anche per misurare la soddisfazione, la rivincita, come dicevo prima, ma allora non si misurava a dita, a poddiches, ma addirittura a palmi, a pramos.

Per cui chi aveva avuto una  grossa soddisfazione o rivincita  esclamava dicendo: mah!, ah!, ah!, ah!, unu pramu ‘e lardu m’at postu! oppure duos pramos che era il massimo, quindi il massimo della soddisfazione se la rivincita era molto significativa.

Torniamo a sa gana. Chi non sopportava sa gana e quindi non si ingegnava né impegnava a superare la sua condizione di indigenza,veniva chiamato ganosu, mentre chi non si sazia mai viene bollato come cane de isterzu o isterzare. E il mangiar troppo o il credere di poter mangiare in abbondanza non è segno, indice di saggezza, sia perché può far male, sia perché quella persona dimostra di non aver il senso della misura. E allora ecco pronto e subito appioppato un altro detto: est istraganau! non t’as a irtzoffare no! oppure: at mandicau a su puntu chi che l’est issinde in sos ocros! Quindi ecco sempre l’educazione alla moderazione, alla giusta misura. Erano le continue  avvertenze dei genitori soprattutto per i piccoli che spesso pretendevano razioni che poi non riuscivano a consumare, las deudavant, lasciavano gli avanzi nel piatto e si era a malincuore costretti a ch’imbolare sa grassia ‘e Deus. E allora se non riuscivano a mangiare ciò che avevano richiesto con insistenza si diceva: Juchet s’ocru prus mannu de sa brente.

Ma il termine gana indica anche appetito, tenzo una gana chi non so biende prus, non ci vedo più dalla  fame, quando invece c’è l’inappetenza si dice est dirganau, o quando deve fare qualcosa contra voglia si dice a mala gana, mentre basta posporre l’aggettivo e dire che est a gana mala per rappresentare la nausea, una indisposizione.

Capita  che, soprattutto i bambini non  abbiano appetito, forse perché hanno già pasticciato con altri alimenti, dolci per es., per cui i genitori non insistono nel farli mangiare perché, sostengono, puzone chi non pillat ch’at pillatu,  uccello che non prende ha già preso, se non mangia vuol dire che ha già mangiato, magari fuori orario.

Torniamo al pane. Questo alimento in altri casi  veniva indicato come termine per qualificare il carattere di una persona buona; infatti si dice ancora oggi ‘su tale est bonu, est unu cantu de pane’, il tale è buono come un tozzo di pane.

Ma il pane rischia anche di frantumarsi, di ridursi in briciole, diventa pistazu e dunque diventa quasi inutile e viene dato alle galline; ma pistazu è anche una persona che parla continuamente e mescola un argomento con un altro, creando confusione. Quindi per indicare una persona confusionaria si dice che è unu pistazu.

Il pane, come del resto qualunque pasto, bisogna però masticarlo bene, ca su manigu prus lu masticas e prus nutrit, se mastichi bene il cibo ti nutre meglio, in senso metaforico se si approfondisce bene un tema, un argomento, lo si conosce meglio.

Il cibo, soprattutto il pane o la carne, lo si masticava, liu masticabat, la mamma per darlo già triturato al figlioletto, al pargolo, come del resto fanno anche gli uccelli e, in senso metaforico, per agevolare una persona o per renderle più facile lo studio di un argomento o il disbrigo di una pratica, la si spiegava bene in modo che non dovesse incontrare difficoltà, lia masticabat.

Ed è anche a questo proposito riguardo alla mamma che si dice: Si che moet su pane dae bucca. Preferisce soffrire la fame per darlo ai figli il pane.

Ma non sempre masticare era facile e infatti quando una persona incontra difficoltà in un certo lavoro, in un impresa, si dice: Ja nde l’est dande pane a masticare, significando la fatica, il sacrificio, gli sforzi che fa per portare a termine un’opera, una faina: l’est gherrande, peleande,  gli sta dando filo da torcere.

Invece per indicare risentimento si dice: si l’est masticande bene, e magari medita anche vendetta, cioè sta rodendo dentro.

Certo che il pane da solo non basta, solo in carcere, in presone si viveva a pane e acqua.

E sempre per stare al codice barbaricino anche l’acqua esprimeva un concetto importante: quello della comprensione delle disgrazie altrui, soprattutto giudiziarie.

Non bisognava, e non bisogna, né irridere né condannare in assoluto chi commette azioni anche gravi, delittuose, perché bisogna capirne sempre il perché, anche senza giustificarne l’atto, per cui per il barbaricino chi incorreva in questi frangenti era ruttu in disgrassia e agli altri si ammoniva dicendo: nessunu neat de cust’aba non bibo! Ogni persona è soggetta a cadere nei rigori della legge. Ecco dunque l’uso metaforico dell’acqua.

Il pane da solo non basta, dicevo, ci vuole, necessita s’agonzu, il companatico, che migliora il gusto del pane nella misura in cui è prezioso il companatico, quest’ultimo infatti può essere povero, essenziale, come la cipolla, a pane e chipudda, ma diventa più soddisfacente e nutriente se  carne, petha,  e addirittura permette di completare il pasto se è accompagnato dal formaggio, pane e casu. Unu cantu ‘e casu, sottinteso con del pane, a fine pasto cumponet o attonat s’istogomo, su corpus, ben dispone lo stomaco.

E a s’istogomo, allo stomaco si pensava perché doveva essere a posto, tranquillo, soddisfatto.

Quando si ha molto appetito e si prende un bocconcino, unu buconeddu prima del pasto si dice che lo si fa pro apachiare s’istogomo, per sedare, mettere a tacere lo stomaco, apachiare, sarebbe far la pace.

Unu bucone, invece, è già un pasto anche se non completo e non in orari canonici.

Su bucone però non sempre va dritto, ma si blocca in gola, m’est arreschiu, mi è rimasto in gola.

Anche in questo caso nel significato metaforico ci si riferisce a qualcosa di inopportuno che ha lasciato il groppo, qualcosa che non si sopporta, che non si digerisce ma che rimane in gola.

Certe volte si rimane a bocca asciutta,  si rimane delusi da parte di chi sembra darti, offrirti qualcosa, ma te lo fa solo vedere, li at colau solu in labras, non che l’at ifustu mancu sas lavras, se stava per bere del vino.

Il termine bucone in senso metaforico rimanda ancora alla vendetta barbaricina come ordinamento giuridico. Famoso il detto: Bucone frittu est prus saporiu. La vendetta covata a lungo è molto soddisfacente anche se arriva dopo mesi o anni.

M’est postu in s’istogomo, mi ha impacciato il cibo, il pasto consumato. Ma in senso metaforico m’at achedau s’istomagu, mi ha inacidito lo stomaco è la conseguenza di un dispiacere.

I detti o i proverbi a volte descrivono un periodo, un epoca.

Alla fine dell’ottocento e ai primi del novecento si sono diffusi in Sardegna i caseifici degli industriali caseari e i pastori versavano loro il latte perché i prezzi  per un certo periodo salivano. Ma è aumentato anche il prezzo del formaggio che era sempre più difficile da acquistare per le classi popolari. E fu allora che si coniò il detto Chie mandicat casu juchet dentes de oro per significare che solo i benestanti potevano consumare formaggio a volontà.

Ma oltre ai pasti, al cibo c’erano i momenti in cui si indicava il digiuno per la guarigione dalle malattie, tranne che quelle derivate dalla fame.

L’unico rimedio alle malattie gravi infatti era il digiuno, la dieta, a sos males sa dieta;  le persone lo hanno capito osservando gli animali, ma oggi lo sostengono anche i più grandi dietologi americani.

Questa mia riflessione, la cui tematica è molto vasta e merita di essere approfondita perché ho solo fatto piccoli accenni,  intende far capire che gli interventi politici ed economici in campo turistico ed enogastronomico non possono prescindere dalla conoscenza e dal rispetto della realtà tradizionale sulla quale si intende operare, non si può prescindere dal rispetto e valorizzazione dell’identità profonda su cui questa società fonda il suo modo di vivere che si è evoluto nel tempo e che deve adeguarsi ai nostri tempi moderni mantenendo integri i valori della sua tradizione.

E per il turista vale ancora i detto  A s’istanzu no l’abbadies sa bertula, per cui  l’accoglienza e l’ospitalità  sono  un valore aggiunto insostituibile.

Oltre che proporre i piatti singolari, originali, che avevano delle particolarità nelle vari ricorrenze festive e stagionali, è necessario intervenire per salvaguardarne la genuinità, la biologicità ante-litteram, la qualità salutistica  attraverso sos  mandicos sanos, la moderazione  e l’austerità, soprattutto in periodo di recessione, nel mangiare e quindi il bando delle abbuffate che invece di far star bene, fanno star male.

Quindi  ospitalità, pasti non sovrabbondanti, ma con moderazione e buoni in quanto col tempo, come dice il detto, a sa roba bona, curret su dinare, le cose buone verranno apprezzate e pagate bene.

Meriterebbero approfondimenti e riflessioni più organiche i legami tra la cultura sarda e il vino, la sua produzione, il suo consumo moderato, il suo uso nei momenti più importanti legati al ciclo della vite.

La coltura della vite  risale a tempi così antichi  e è radicata nel pensiero dei sardi tanto da innalzare a sos artos chelos il simbolo della produzione viticola, il grappolo, su gurdone; infatti proprio Su Gurdone è il nome di una delle costellazioni celesti più delicate e interessanti che in italiano si chiamano le Pleiadi e abbiamo anche su Trubadore de su Gurdone che  corrisponde alla costellazione del Toro.

Che il grappolo d’uva, Su Gurdone, sia stato innalzato a divinità celeste dai sardi la dice lunga sul loro attaccamento al vino, a questo fine e gustoso prodotto dell’uva, de su Gurdone, assurto quasi a bevanda divina.

Ma che anche la cura e la coltivazione della vite fosse legata agli astri ce lo indica e conferma la tradizione in molti paesi della Barbagia di potare i vitigni nella Settimana Santa e quindi durante la Luna calante.

Infatti nella Settimana Santa la Luna è sempre in fase calante in quanto la Pasqua, secondo le regole dettate dal Concilio di Nicea del 325 d.C., cade sempre la prima domenica dopo la prima Luna piena dopo l’equinozio di primavera.

Quindi questa Luna piena è sempre durante la Settimana Santa e subito dopo è Luna calante, sia che la Pasqua cada a fine  marzo o ad aprile.

Il legame tra la lavorazione del vino e il clima, su tempus, lo si nota nel momento in cui il vino viene travasato quando si sceglie, per questa operazione, una giornata limpida, soleggiata, senza nuvole o nebbia in quanto questo status del clima sembra interagire sul vino a facendogli raggiungere il massimo della brillantezza, chiarezza  e colore rappresentate dalla luce solare.

Un ultimo accenno al rapporto di interazione tra lo status della natura, del clima, de su tempus, ma anche della persona umana e la produzione del vino si manifesta nella raccomandazione di non far entrare in cantina una donna che fosse interessata dal ciclo mestruale mentre si procedeva al travaso del vino.

Molti sono i legami tra natura, uomo e pratiche legate alla lavorazione del vino e i sardi si adoperavano per rimuovere qualunque ostacolo che potesse nuocere alla riuscita di una buona produzione, creando d’altro canto tutte le condizioni favorevoli per ottenere un vino ottimale, gustoso e brillante.

Queste mie analisi veloci dimostrano che la nostra enogastronomia ha le sue fondamenta e i suoi presupposti nel benessere fisico e morale della persona e a questi principi bisognerebbe ancora ispirarsi per soddisfare non solo gli appetiti fisici del turista o dell’ospite, ma anche le sue esigenze ideali e culturali.

 

Ecco alcuni detti popolari significativi:

 

Tennere pistoccu in bertula (usato sempre in terza persona):

Metafora usata sia in senso materiale che immateriale che indica una persona provvista di  buoni ed efficienti argomenti e facoltà culturali o di disponibilità materiali per cavarsela in qualunque confronto dialettico.

 

A s’ispuligare una pruna (Como t’ispuligas una pruna):

espressione sarcastica per indicare il presentarsi di una grande difficoltà e di essere messo a dura prova.

 

Non portare mancu abba in brocca:

Indica una condizione di estrema povertà.

 

E como segadi casu:

Anche questo modo di dire indica il presentarsi di una grande difficoltà.

 

Tennere is catzolas istrintas:

Indica condizione di ubriachezza.

 

Ti ‘nde pone cambas!:

In senso ironico,  riferito ad una alimento poco nutriente solitamente di natura vegetale.

 

No este farra de faer’ ostias:

Riferito ad una persona poco raccomandabile.

 

 

 

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