SPIRITO RELIGIOSO DEI SARDI, di Salvatore Satta

Salvatore Satta

 

Salvatore Satta. Giurista e scrittore (Nuoro 1902 – Roma 1975). Docente di diritto presso varie università italiane (Camerino, Genova, Trieste e Roma). Ricercatore di grande livello, i suoi numerosi lavori sulla disciplina che insegnava sono considerati fonda­mentali per lo studio del diritto ita­liano contemporaneo. L’impegno scientifico non gli impedì però di colti­vare, quasi in segreto, una passione let­teraria che gli permise di scrivere un’opera di altissimo valore letterario. Dopo i suoi primi romanzi La veranda e e il De profundis, rimasti sconosciuti, Il giorno del giudizio, postumo, lo rivelò come il caso lettera­rio forse più interessante dell’intero Novecento. Numerosi e im­portanti sono i suoi scritti giuridici.

Spirito religioso dei Sardi, di Salvatore Satta, “il Ponte”, 1951

Il “Ponte” vuole che io parli dello spirito religioso dei Sardi: io che non so più se ho uno spirito, se sono religioso, se sono sardo. Bene: sapete che faccio? Lascio la mia casa di Corso Italia, lascio la mia compagna triestina, lascio i miei figlioli meticci, e in questa sera così trasparente, che di là dal Tirreno mi si svelano i monti della Corsica, me ne trono a Nuoro.

Sono sceso a Terranova (che, non so perché, si è dato il falso nome di Olbia), ma non ho preso la corriera che in sole cinque ore, attraverso la speciosa Baronia, ti sbarca, come se niente fosse, a Nuoro. A Nuoro, come alla Mecca, non si arriva senza una lunga preparazione di spiriti e di cose: e poi, se non si è uccelli o cacciatori, non si viene dal mare. Ho fatto, more nobilium, il lungo giro di Chilivani e Macomer (augusti nomi che certamente esistevano quando Roma non era), e ora, col trenino a buoi, sfiorato il Goceano, varcata la dolente valle del Tirso, mi accingo all’arrampicata. Perché Nuoro deve apparire di là, dalle coste del Monte Dionisi, con l’Ortobene, coi monti d’Oliena, che sono anch’essi Nuoro; perché bisogna sentirla salutare dal lungo fischio del treno, stupito del miracolo, che ogni giorno si rinnova, di giungere a Nuoro.

Lo spirito religioso dei Sardi vive quassù, oltre quest’arco che unisce il Seminario al Vescovado, in cima all’altura dove l’acciottolato paesano finisce in ciuffi di spighe matte e di malva: vive pietrificato in due modesti edifici, tra i quali chi va faticando per l’erta vede spuntare, e salire con lui, la roccia lunare dell’Ortobene. Il monte è stato costruito da Dio, gli edifici dagli uomini, ma gli uomini non hanno fatto che seguire il volere di Dio, perché l’uno di essi è la Chiesa, l’altro il Tribunale. Se Nuoro avesse avuto una storia, o per meglio dire se la storia si fosse ricordata di Nuoro, si saprebbe che un oracolo aveva sede nella piccola piazza dominata dal monte.

Tutti i nuoresi, e perciò in simbolo tutti i Sardi, passano per quella chiesa, sotto il segno del peccato. Non ritornano più, perché morti se li prende una più sbrigativa chiesetta, nei pressi del cimitero, dominato anch’esso dal monte; ma dopo un lungo giro, il lungo e vario giro della vita di ciascuno, passano per quell’altra porta, ancora sotto il segno del peccato; se è vero, come diceva un antico causidico, che tutti i sardi finiscono in Tribunale, o come rei, o come avvocati, o come giudici. E’ questa una battuta di spirito; ma se si volesse renderla più profonda bisognerebbe dire che non solo finiscono, ma anche cominciano in Tribunale: perché Chiesa e Tribunale (questa chiesa messa lì di fronte a questo tribunale) non sono due cose, ma una sola, la sede umile e solenne nella qual e ognuno di noi riceve l’investitura della legge, che, come una sacra unzione, o come un marchio rovente, si porta appresso tutta la vita. Legge umana e divina ad un tempo, se pure questa tardiva distinzione ha qualche senso per noi.

Credo che senza questo riferimento alla legge non sia possibile comprendere i Sardi, la loro religione, il loro spirito. E’ difficile esprimere a parola cosa essa sia. Non si tratta della legge che ogni uomo porta con sé, e nella quale si immedesima (la legge morale, tanto per intenderci); e nemmeno si tratta dell’oscura necessità, del destino: non è affatto vero che i Sardi siano fatalisti, perché il fatalismo comporta quiete, e il Sardo è l’inquieto per eccellenza. Nemmeno, vorrei dire, è la legge comune di un popolo, di una razza, di una stirpe, perché in fondo i Sardi – ed è la loro più grande sventura – poco si riconoscono tra di loro (pochi, pazzi e male uniti, li aveva stupendamente definiti l’imperatore spagnolo); è piuttosto una legge individuale che si sovrappone o si giustappone all’individuo, senza comporsi in una superiore armonia, e nella quale se mai, almeno nei più deboli, l’individuo tende disperatamente a dissolversi. Di qui la caratteristica perplessità, e nei più deboli ancora, paralisi dell’azione, la sfiducia nella propria azione, che non è poi se non sfiducia in una divina provvidenza, il fondamentale pessimismo, la disperata ricerca di una solitudine che masi si potrà raggiungere, perché colui che ha accanto a sé, come a “un altro da sé”, la propria legge, non è mai solo.

 

Ma la legge, come tutte le leggi, non si avverte per se stessa, bensì per il suo contrario, la sua negazione: quella negazione che giuridicamente si chiama delitto, religiosamente peccato. La distinzione ha, però, come dicevo, poco senso per noi: il volto della legge che noi vediamo, nel quale angosciosamente ci rispecchiamo, è il volto stesso del peccato. Noi siamo forse l’ultima gente che ancora senta il peccato originale come un proprio, individuale peccato, che nessuna redenzione riuscirà mai a cancellare. L’idea della redenzione, accolta nella religione positiva, esaltata nella grande statua sull’Ortobene, non è riuscita a fondersi nei cuori.

Forse la prima rivelazione di questa verità – assai prima di leggerla in me stesso – io l’ebbi da bambino, in un’aula di questo Tribunale, se aula può chiamarsi una squallida stanza priva di luce, ul cui unico ornamento era una gabbia. Attratto dalla cupa celebrazione che ivi si compieva (più tardi Bulgaro mi avrebbe sapientemente spiegato trattarsi di un actus trium personarum) ero riuscito, sgataiolando per le gambe immense di un carabiniere, a insinuarmi tra una folla grave di uomini vestiti di pelli, in una atmosfera ardente di sudore e di attesa. Dentro la gabbia c’era un uomo, simile a un orso: ma il personaggio più importante non sembrava essere lui, bensì un altro uomo piccolo e nero, che libero sedeva davanti al presidente, e appariva l’oggetto di tutte le cure, sue e degli avvocati che gli stavano di fronte, perché tutti lo interrogavano, lo chiamavano per nome (si chiamava, ricordo ancora, Pirastru, che vuol dire pero selvatico), lo accarezzavano, lo lusingavano, lo minacciavano. Egli, indifferente, si otinava a ripetere alcune parole sempre uguali, delle quali non afferravo il significato. A un tratto il presidente, piegandosi verso di lui, con una voce quasi paterna, gli disse: – Pirastru, perché non dici la verità? – Perché non dovrei dirla, – risponde. – Ci sono tante ragioni per non dirla, e una di queste è la paura. – Allora Pirastru sollevò la testa arrugginita, fissò il Presidente con aria stanca e: – Paura di che? Mormorò. – Signor presidente, morto io, morto un cane. – Le parole suonarono profonde nell’aula, e il presidente imbarazzato, si affrettò a congedare quell’uomo, del quale non riusciva a capire come mai potesse accettare di essere un cane.

Lo spirito di Pirastru ha più volte aleggiato nella mia vita, e più volte mi sono trovato a ripetere a me stesso le sue tristi parole: ma se questa concezione nichilistica può considerarsi un’eccezione, e non è forse immune da determinanti patologiche, l’idea dell’immanente peccato ha manifestazioni che possono considerarsi positive, anche se sotto certi aspetti influiscono sfavorevolmente sul destino dei Sardi, se non altro perché tolgono loro ogni spirito di avventura. E la più notevole è il senso augusto del giudizio, il concepire la vita stessa come un giudizio, il non lasciar alcun margine alla libertà e all’indifferenza dell’azione. Chi ha letto l’opera dei nostri poeti ha capito l’importanza che il giudizio ha nella vita dei Sardi: giudici e giudicati si alternano sulla scena della poesia e del romanzo, così come si alternano sulla scena della vita. E chi giudica gli altri sa di giudicare prima di tutti se stesso: onde una dirittura di giudizio che si esaspera in rigidità, onde una severità, che tradisce una fondamentale mancanza di pietà. Questa piccola piazza, che ora sento illuminata dalla luna, e nella quale le ombre dei due templi si avvicinano fino a confondersi, raccoglie tutta la somma di dolore che il giudizio porta con sé. Come in un muro del pianto, ogni generazione che passa incide qui, nel nome di ogni peccatore, il suo perenne peccato.

 

Molte volte, pensando ai Sardi, pensando a me stesso, mi sono chiesto se noi crediamo veramente in Dio. E’ una domanda alla quale è difficile rispondere, perché bisognerebbe prima intendersi sull’idea di Dio. Certo, il Dio “che atterra e suscita” sembra lontano da noi, né il principio del bene raggiunge per noi tanta assolutezza da non ammettere, quasi in un’eco di eresia, il principio del male. D’altra parte, chi ha il senso così vivo e così agitante della legge e del peccato (il senso della morte, si può dire brevemente, perché nessuno come il Sardo sa che deve morire) ha qualcosa più della fede, ha una vocazione di santità: assurda, anacronistica vocazione, che ci vieta di inserirci nel processo della storia, e ci porta fatalmente a risolvere la storia nell’utopia. Forse, come i nostri padri, sotto la spinta dei pirati e della malaria, fuggirono le coste, e si costruirono sulle alture le loro capanne, i villaggi di oggi, così noi, aggrappati alla nostra utopia, in una luce di crepuscolo, fuggiamo quasi d’istinto il torbido mare della vita.

 

 

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    1 Comment to “SPIRITO RELIGIOSO DEI SARDI, di Salvatore Satta”

    1. By Fausto Siddi, 29 dicembre 2011 @ 09:44

      Prima di tutto grazie a chi pensato e voluto inserire nel vostro piacevolissimo e necessario sito questo scritto a me sconosciuto ma già caro di Salvatore Satta. Cosa dire: la lucidità del pensiero di Satta così spietata e diretta arriva diritta al cuore e ci parla. Così come ne “Il giorno del giudizio” (di cui questo scritto è una mirabile anticipazione – visto che è datato 1951) entra nel tema “la spiritualità dei sardi” non proponendoci un proprio credo indissolubile ma compiendo (e facendoci compiere) un viaggio nella sua Macondo eterna, nella costruzione, metro per metro di una tesi che non può – da sardi – non riguardarci nel senso più puro e poetico del termine: guardarci di nuovo, nel senso guardarci ancora e/o guardare il nostro riflesso e/o la proiezione del nostro riflesso. Grande lui e grazie a voi.