I partiti che perdono le loro identità storiche, di Angelo Panebianco
Nessuno pensa che in politica tutto debba restare come prima. Ma ripudiare tacitamente i propri valori stravolgendoli si chiama avventurismo
Nei regimi democratici ogni partito che non voglia restare inchiodato per sempre al 3 per cento dei voti ha il problema di riuscire ad essere «di parte» — cioè a rappresentare un settore specifico dell’elettorato e i suoi interessi — ma insieme anche a rappresentare un interesse generale che serva a legittimarlo come forza di governo dell’intero Paese.
Da sempre, in ogni sistema elettorale la Sinistra tende a rappresentare le classi disagiate nonché gli interessi e i valori non riconosciuti che ambiscono ad esserlo (ad esempio quelli delle minoranze di vario tipo), mentre la Destra si caratterizza come rappresentante degli equilibri sociali esistenti, nonché dei valori che li sorreggono e dei ceti che se ne avvantaggiano. E però, nel momento in cui Sinistra e Destra mirano a governare, accanto a questa loro essenza per così dire costituiva e di parte, esse sanno che devono affiancarne anche un’altra, di carattere generale dal forte richiamo simbolico. E così da sempre la Sinistra è solita mettere in campo la «Giustizia», e la Destra lo «Stato». La Giustizia, in quanto misura necessaria per dar vita ad una società più equanime nella distribuzione delle risorse e quindi con minore conflittualità; dall’altra parte lo Stato come guardiano delle leggi e dell’ordine ma insieme garante del necessario interesse generale. Per l’appunto in questo mix diverso di valori e di atteggiamenti consiste da che mondo è mondo l’identità dei due classici attori della competizione politica democratica.
Ora, il fatto centrale accaduto in Italia è per l’appunto l’abbandono da parte sia della Destra che della Sinistra delle loro rispettive identità storiche. In particolare del loro aspetto generale, quello non strettamente riferito a un settore della società.
Da tempo per la Sinistra — nel caso della quale tra l’altro questo aspetto generale coincideva con quello di protezione della parte debole della società — la «Giustizia» non è più l’ago della sua bussola politica. Da anni essa ha smesso di essere la protettrice del lavoro dipendente, e proprio di quello più sfruttato. Ha consentito senza muovere un dito, ad esempio, che sparisse ogni protezione legale con relativo obbligo contributivo per le nuove, innumerevoli, forme di lavoro, permettendo così la proliferazione di finte cooperative, di agenzie di lavoro interinale, di finte partite Iva e così via. Allo stesso modo ha accettato senza fiatare, ma anzi collaborando volenterosamente, che l’Istruzione, abbandonando la centralità vincolante del merito, cessasse di essere un essenziale motore di ascesa sociale. Idem per quanto riguarda l’accettazione della divisione tra le regioni ricche (quelle del Centro-Nord) e le regioni povere (quelle del Sud), con la conseguente accettazione di fatto della fine del diritto per tutti i cittadini a eguali prestazioni sociali (in primis quelle sanitarie). Ancora: la Sinistra sembra aver deposto ogni atteggiamento critico verso l’establishment del Paese (verso ogni suo settore, dalla giustizia alla grande banca) di cui anzi sembra essere diventata il più delle volte un sostegno e un punto di riferimento (nonché un serbatoio di approvvigionamento). Basti ricordare a questo proposito il rinnovo sottoscritto anche dai suoi ministri delle concessioni alle società autostradali, che hanno consentito a queste di fare e lucrare quello che volevano.
Non meno evidente appare l’abbandono da parte della Destra del valore generale rappresentato dalla Stato, cioè dal rispetto per i suoi comandi e per l’interesse generale che esso in qualche modo pure incarna. Lo si sta vedendo con la massima evidenza proprio nell’attuale epidemia. Sopraffatta com’è da una volontà spasmodica di scontro politico, per la Destra italiana si direbbe che lo Stato non esista più, che esista solo il Governo. E quindi nei discorsi dei suoi esponenti, nei suoi giornali, serpeggia di continuo un dileggio a prescindere, quasi un disprezzo, nei confronti di qualsivoglia disposizione delle autorità, e di conseguenza un più o meno esplicito invito alla disobbedienza antistatale. Non è un fenomeno isolato di questi mesi. È la prosecuzione di un ribellismo agitatorio ormai antico che cerca di far leva in specie sugli interessi economici di categorie particolari (ad esempio i famosi 5 milioni partite Iva) e in vista di questo fine non esita a giustificare sia pure in modo allusivo perfino l’evasione fiscale. A questa modalità d’azione disgregatrice del comando statale la Destra accompagna altresì il nessun vero interesse — quello che si esprime attraverso proposte concrete e attuabili — per rimediare alla spaventosa inefficienza dell’amministrazione pubblica, per assicurarne l’imparzialità, per sanzionare adeguatamente i soprusi e le scorrettezze. Lo stesso disinteresse che essa manifesta infine per l’educazione nazionale, per i mille fenomeni di frantumazione dell’unità del Paese, per i localismi che lo corrodono.
Dalla perdita/abbandono della propria identità storica da parte della Destra e della Sinistra (una perdita /abbandono non sostituito da nulla) nasce in gran parte il vuoto in cui si dibatte da tempo la nostra vita politica. Da qui infatti il suo carattere sempre più casuale, la sostanziale insensatezza dei suoi cosiddetti dibattiti, dettati solo dall’attualità più immediata e perciò destinati ad esaurirsi in una settimana, dibattiti che non hanno mai al proprio centro alcuna delle grandi questioni vitali del Paese, alcuna prospettiva di lungo periodo. Da qui anche il carattere erratico tanto della denominazione dei partiti, che nascono e muoiono come funghi, quanto delle loro possibili combinazioni; e insieme a tutto ciò il carattere nomade dell’affiliazione politica (ormai non si contano i deputati e senatori che hanno cambiato appartenenza una, due, tre volte). Il tutto in un’atmosfera impressionante di improvvisazione, di dilettantismo e di miseria culturale.
Sia chiaro: nessuno pensa che in politica tutto debba restare come prima, che non sia naturale e opportuno cambiare in certe circostanze scelte e strumenti. Ma ripudiare tacitamente i propri valori stravolgendoli è un’altra cosa: che si chiama avventurismo.
Il corriere della serra, 23 dicembre 2020