Oltre Villanova: ville signorili, conventi e casali di campagna. Percorsi alla ricerca della memoria, di Antonello Angioni

Nella foto: villa Pollini in Cagliari.

La dolce e fertile piana che una volta separava Cagliari dai primi borghi del Campidano ha avuto nel corso dei secoli una sua storia: una storia che, da queste parti, è passata senza far troppo rumore e che quindi non è possibile trovare nei libri. Forse perché – come scriveva Alziator – la storia ama i venti e le tempeste e alle propaggini di Villanova ha sempre regnato la pace. Questa storia può comunque essere ricostruita, con pazienza, seguendo gli antichi sentieri della memoria che ti conducono all’ombra di ville signorili, vecchi casolari o modeste chiese di campagna.

Nel Medioevo, tutta la zona che si estendeva oltre i limiti dell’attuale quartiere di Villanova fu luogo di preghiera che i monaci di San Vittore e di Chiaravalle seminarono di conventi e romitaggi: San Saturno, San Giuliano, Santa Maria de Claro, San Vetrano, Santa Maria ad Vineas, erano alcuni di questi luoghi di silenzio e di preghiera, veri e propri avamposti di una battaglia per la conquista dell’Eternità.

Poi, allorché con i pisani venne a formarsi la città del Duecento – che poi, a ben vedere, costituisce la matrice urbanistica della Cagliari di oggi – in questi luoghi trovarono posto le attività agricole e gli orti oltre il quartiere di Villanova (la cui formazione si colloca nella seconda metà del XIII secolo) rifornirono i cagliaritani di ogni ben di Dio.

Col passare del tempo questa campagna, addolcita da piccoli poggi e attraversata da qualche modesto corso d’acqua, divenne anche luogo di villeggiatura: l’aristocrazia vi costruì le proprie ville e il popolo vi fece le scampagnate. Quelle stesse siepi che avevano scortato i monaci in preghiera indicarono ai cagliaritani i sentieri della frescura per mitigare la calura della grande estate.

Per avere un quadro completo delle ville e dei casali di campagna presenti nell’agro di Cagliari nella metà del Settecento, dovrebbe consultarsi la Carta dimostrativa de’ contorni di Caliari, compilata in tale periodo e conservata nell’Archivio di Stato di Torino. Questo utilizzo dell’agro si intensificò e, dalla fine del Settecento, il patriziato e la borghesia cagliaritana si accaparrarono la terra e i silenzi per il proprio riposo.

 

La Casa Fercia

Tra le attuali vie Tristani e San Saturnino, all’interno di un’ampia estensione terriera, sorgeva la Casa Fercia. Alla tenuta si accedeva da diversi portali con cancelli che si aprivano lungo il muro di recinzione. Attualmente esiste ancora un accesso da un antico cancello in ferro battuto che prospetta lungo la via San Saturnino. L’edificio, del tardo Settecento, era caratterizzato da una singolare forma a mezzaluna sulla quale si aprivano cinque finestre e un balcone centrale. Venne demolito alla fine degli anni Settanta del Novecento.

 

La Villa Vivaldi Pasqua e la Villa Calvi

A breve distanza dalla Casa Fercia, il marchese Pietro Vivaldi Pasqua – che, gestendo tonnare e peschiere, aveva messo da parte tanto danaro – intorno al 1785-90 aveva costruito un modesto casino di caccia, non distante dall’antica chiesa campestre dedicata a San Rocco. È questo il nucleo originario della Villa Vivaldi Pasqua. Si trattava – come detto – di un semplice casino di caccia intorno al quale si sviluppava una zona ricca di orti e di vigneti.

Quella zona era conosciuta come “Su Lioni” in quanto faceva parte dell’estesa proprietà terriera (arrivava sino alle pendici del colle di San Michele) dei marchesi di Quirra nel cui stemma nobiliare era presente il leone rampante. Il nucleo originario della villa potrebbe essere stato costruito su disegno dell’architetto Carlo Maino, di origini luganesi, ex gesuita, al quale Pietro Vivaldi Pasqua nel 1781 aveva affidato il “disegno e calcolo” per una sua casa ubicata nel Castello di Cagliari. Maino, fiero antagonista del Viana, era stato attivo in Sardegna quanto meno dal 1780 al 1786.

L’edificio venne successivamente trasformato in una sontuosa villa con loggiato e ampio giardino secondo i moduli stilistici del barocchetto piemontese. In quella riposante villa, contraddistinta dalle scenografiche arcate, i Manca dell’Asinara, durante l’estate, sfuggivano al grigiore del palazzo di via Manno (ora sede del Convitto Nazionale). I suoi proprietari, i Vivaldi Pasqua, appartenevano ad una nobile casata ligure, originaria di Taggia, che si era trasferita in Sardegna nel Seicento per gestire le attività industriali e commerciali legate ai prodotti delle tonnare e delle peschiere.

Ad intraprendere l’avventura era stato Gerolamo Vivaldi: l’attività fruttò parecchio e il nostro aveva messo da parte tanto danaro al punto di poter prestare nel 1643 a Filippo IV, sovrano di Spagna, una grossa cifra necessaria per reprimere la rivolta scoppiata in Catalogna. Non riuscendo a restituire la somma, il sovrano gli trasferì la peschiera di Mar’e Pontis (a Cabras) e lo stagno di Santa Giusta, facenti parte del Marchesato di Oristano il cui territorio, per le note vicende, era stato confiscato agli Alagón ed apparteneva alla Corona.

Dopo qualche anno, in esito ad un’analoga operazione, il Vivaldi entrò in possesso di altre sei tonnare sarde con l’attribuzione anche del diritto di concederle in affitto: le tonnare di Portoscuso, Portopaglia, Santa Caterina di Pittinuri, Saline, Cala Agostina e Vignola.

Un figlio di Gerolamo Vivaldi, Giovanni Battista, nella seconda metà del Seicento, sposò Settimia Pasqua, erede del Marchesato di Trivigno. Da questo matrimonio ebbe origine la nobile casata dei Vivaldi Pasqua marchesi di Trivigno. Sempre grazie ad un’attenta politica matrimoniale, la ricchezza dei Vivaldi Pasqua aumentò a dismisura. Infatti alcuni discendenti si unirono con nobildonne delle famiglie Castelvì e Zatrillas, proprietarie di estesi feudi.

Si arriva così agli inizi dell’Ottocento, allorché Pietro Vivaldi Pasqua pensò di ingrandire ed abbellire quello che, sino allora, era stato un modesto casino di caccia. I relativi lavori vennero effettuati tra il 1801 e 1802 e il piccolo nucleo edilizio fu così trasformato nella sontuosa villa degna di un ricco marchese. L’anno seguente, don Pietro incorporò nella sua proprietà un altro appezzamento e, più o meno nello stesso periodo, fece sistemare, sopra la porta d’accesso alla camera da pranzo, un bassorilievo che raffigura un moro in catene che si dibatte tra le onde, ricordo della lotta intrapresa contro i pirati barbareschi che infestavano le coste della Sardegna. Al primo piano dell’edificio, sul prospetto esterno, in corrispondenza al bassorilievo di cui si è detto, venne collocato lo stemma di famiglia: un’aquila nascente coronata di nero in campo rosso e argento. Di questa villa vi è un fugace cenno nella Descrizione della Sardegna di Francesco d’Austria-Este, manoscritto del 1812.

Intorno alla metà dell’Ottocento i Vivaldi Pasqua rientrarono in Liguria e, nel 1850, vendettero la villa e l’ampio terreno circostante al conte Francesco Calvi di Milano che, non contento di ciò, costruì a fianco una nuova casa in stile neoclassico in cui visse (appunto la Villa Calvi) mentre la Villa Vivaldi fu affittata. Nel secondo dopoguerra, l’industriale Marino Cao (che deteneva il bene a titolo locativo) acquistò dall’ultima erede della famiglia Calvi, donna Giulia Calvi, il terreno con la Villa Calvi che continuò ad essere la sua residenza.

Agli inizi degli anni Settanta una figlia del Cao, Rosabianca, acquistò (sempre da donna Giulia Calvi) anche la Villa Vivaldi. La stessa costituì poi oggetto di un accurato restauro conservativo che ne ha fatto un vero e proprio gioiello architettonico. Oggi i locali delle antiche scuderie, caratterizzati da cinque campate con volte a vela realizzate con l’utilizzo di mattoni pieni a vista finemente restaurati, sono destinati all’organizzazione di eventi.

La Villa Vivaldi Pasqua costituisce una delle pochissime ville suburbane, realizzate a Cagliari tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, tuttora presenti. La costruzione riprende lo schema tipico della villa signorile e mostra legami soprattutto con alcune ville liguri. I moduli costruttivi con le volte e i pilastri, l’uso del mattone, le decorazioni a stucco di gusto rococò piemontese convivono col rigore decisamente più classico delle simmetrie e con la regolarità dei partiti formali che trovano riferimento in diverse costruzioni di fine Settecento ascrivibili al regio architetto Giuseppe Viana e ai suoi allievi.

Tra gli aspetti più significativi in termini storico-architettonici vanno individuati l’arioso loggiato e il giardino delimitato da cinque grandi arcate a tutto sesto in muratura che costituiscono parte integrante della dimora. Si segnalano inoltre le decorazioni in stucco, l’uso delle ferronnerie – tipico della tradizione iberica ma rinnovato nel barocchetto piemontese con inferriate curvilinee, volute e decorazioni di vario tipo – e il sapiente accostamento di materiali come il calcare e il mattone.

La facciata, su due piani, è scandita in specchi regolari mediante paraste di ordine tuscanico riunite in una cornice mistilinea che si conclude con sei pinnacoli di forma piramidale, realizzati in muratura e disposti simmetricamente. Anche le bucature si sviluppano in simmetria nei due livelli e, in due casi, sono sostituite da altrettante nicchie nel piano superiore. La porta principale, ad arco con lunetta cieca delimitata da una coppia di paraste leggermente aggettanti, è sovrastata da un oculo ellittico e da un fastigio decorativo in stucco con volute litomorfe dal quale affiora la testa di un moro di cui si è detto. Al di sopra si trova la porta-finestra, chiusa da un balcone curvilineo in ferro battuto che poggia su un piano d’ardesia e si completa con un ricco stucco decorativo nel quale, tra racemi, compare lo stemma della famiglia Vivaldi Pasqua. Anche i due balconcini laterali hanno la ringhiera in ferro battuto e il piano d’ardesia retto da mensole di ginepro.

 

La Villa Muscas

Più o meno quando veniva innalzata la maestosa Villa Vivaldi Pasqua, il notaio cagliaritano Giuseppe Muscas, segretario della Curia del Marchesato di Quirra – forse sulle rovine dell’antica Chiesa di Santa Maria ad Vineas (Santa Maria alle Vigne) e dell’annesso monastero costruito dai Vittorini di Marsiglia e la cui presenza è attestata in documenti risalenti alla fine dell’XI secolo – innalzò, in località Is Stelladas, il grande casale tuttora presente lungo l’attuale via Sant’Alenixedda. Va detto che all’originario edificio si aggiunsero ulteriori due corpi di fabbrica in quanto, con delibera 2 aprile 1889, il Consiglio Comunale di Cagliari decise di ampliare la “Regia Scuola di Viticoltura e Enologia” allestita nella Villa Muscas.

Alla morte del notaio Muscas, la proprietà passò al figlio Efisio che, nel 1811, vi trasferì l’orto sperimentale che sorgeva in “Sa Butanica” (vale a dire tra le attuali vie XX Settembre e Eleonora d’Arborea). Efisio Muscas, che aveva preso i voti e nel 1819 era diventato canonico della Cattedrale di Cagliari, destinò la villa con ampia tenuta al Collegio dei Nobili (poi Convitto Nazionale) che ne ebbe la disponibilità dal 1824 al 1883.

In pratica, l’edificio divenne il luogo di villeggiatura degli allievi del Collegio dei Nobili sino a quando il Comune di Cagliari decise di destinarlo alla “Regia Scuola di Viticoltura e Enologia”, l’antenata dell’Istituto Tecnico Agrario “Duca degli Abruzzi”. Il relativo acquisto si perfezionò nel 1885 e, dopo qualche anno, la scuola entrò in funzione, sotto la direzione di Sante Cettolini, un enologo di Conegliano Veneto. Alla scuola vera e propria era annessa un’azienda sperimentale. Ai fini dello sviluppo delle attività della scuola, grande impulso diede il sindaco Ottone Bacaredda: una lapide collocata sotto un porticato della struttura ne ricorda l’impegno.

Dopo il trasferimento dell’Istituto Agrario nei locali siti nella Zona Industriale di Elmas, avvenuto nel 1995-96, per iniziativa del Comune di Cagliari e grazie all’infaticabile (e non sempre riconosciuta) opera del professor Vittorio Porcelli (già presiede dell’Istituto), venne allestito il “Centro della cultura contadina” che, sino al 2017, esponeva le testimonianze del nostro passato rurale: strumenti, arnesi, attrezzi e macchinari agricoli, taluni di pregevole fattura. Esponeva anche una significativa collezione di vini sardi.

 

Il Villino Frau

Va detto che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, superate le ultime propaggini di Villanova, dopo il convento di San Mauro, c’erano ancora gli orti, gli uliveti e le vigne. Una parte considerevole di tali terreni – che, dalla periferia di Villanova, si estendeva sino alla “Strada Nazionale” (vale a dire sino all’attuale viale Marconi) – apparteneva agli eredi Saggiante: ad esempio era di loro proprietà l’area dove (negli anni Cinquanta del secolo scorso) sorgerà il Mercato Civico di San Benedetto. Dalla tenuta Calvi, uno stretto sentiero cinto di fichi d’India portava verso l’attuale piazza Giovanni XXIII: un sentiero dove la polvere o il fango regnavano indisturbati a seconda del volgere delle stagioni.

All’angolo tra le attuali vie Cocco Ortu e Sant’Alenixedda, sul lato opposto rispetto alla tenuta della “Regia Scuola di Viticoltura e Enologia”, alla fine dell’Ottocento, i Frau – proprietari di un’ampia estensione fondiaria – avevano edificato il loro elegante villino con l’adiacente cantina e il bel giardino dominato da un’araucaria. Per la precisione il villino era di tale Eligio Frau, commerciante di prodotti ferrosi. Alla sua morte venne ereditato dalla figlia Lia che, dopo qualche anno e precisamente intorno al 1912, lo cedette a Giovanni Pavan, un ingegnere minerario di origini venete (era nato a Rottanova). Il villino passò quindi per successione ai figli Rodolfo, Teresa e Maria che, alla fine degli anni Cinquanta, lo cedettero all’impresario Giulio Marcia il quale aveva già edificato diversi palazzi nella zona. Ora, al posto del villino, insiste un imponente edificio di oltre dieci piani.

 

La Villa Scano

Confinante con la proprietà Frau, quasi di fronte alla Villa Muscas, vi era l’ampia proprietà dell’avvocato Antonio Scano (fratello maggiore di Dionigi e Stanislao) che, oltre ad occuparsi di pandette, svolgeva attività letteraria e politica (venne eletto più volte deputato del Regno d’Italia). L’avvocato Scano nel 1935 fece edificare un villino dove trascorse con la moglie Attilia Dessì gli ultimi anni della sua vita operosa. In origine, la costruzione occupava un piccolo volume ma nel 1956 fu ampliata. Quindi, alla morte dell’avvocato Scano (1945), venne abitata dalla figlia Luigia (Gigia in famiglia), coniugata con lo storico Francesco Loddo Canepa, per cui veniva impropriamente chiamata “Villa Loddo Canepa”. Alla fine del Novecento gli eredi Scano cedettero la costruzione con giardino al dottor Oscar Serci che apportò ulteriori modifiche.

 

L’azienda agricola “Villa Angela”, casa di campagna di Antonio Scano

Nella vasta area tra le vie Sant’Alenixedda e Dante, dove ora sorge il complesso residenziale ORMUS, ancora sino agli inizi del Novecento, si sviluppavano gli orti e le vigne. I terreni erano assai fertili per la presenza di una falda d’acqua che trova conferma anche nel rinvenimento, all’interno di Villa Muscas, di un pozzo di epoca romana (databile intorno al II-III secolo d.C.).

Quella proprietà, che costituiva un unico appezzamento con la precedente, alla fine dell’Ottocento, era stata venduta dal sig. Navarro ad Antonio Scano che, nel 1899, diede vita all’Azienda agricola “Villa Angela” (così denominata in onore della madre Angela Caboni, figlia di Stanislao Caboni). L’ampia tenuta comprendeva una casa padronale, il mulino dell’acqua e coltivazioni a vigna, oliveto, frutteto e ortaggi. Al centro era stata edificata la casa di campagna con giardino di pertinenza: il ficus che ancora oggi protende i rami tra i palazzi ORMUS (realizzati agli inizi degli anni Settanta) costituisce il ricordo del giardino che, nell’ultimo periodo, veniva curato dal colonello Francesco Coni, noto appassionato di caccia, che aveva anche allestito una grande voliera per fagiani. Era marito di Maria Scano, altra figlia dell’avvocato.

 

La Cascina Marini e lo Stabilimento Lotti e Magrini

Nella seconda metà dell’Ottocento questa campagna, ed in particolare la parte più prossima all’abitato di Pirri, divenne centro di importanti iniziative economiche oltre che luogo di villeggiatura. I Marini, ricca famiglia cagliaritana con vari interessi economici a Pirri, alle gioie del riposo aggiunsero torchi da olio e da vino. La loro cascina si trovava nei pressi dell’attuale via Santa Maria Chiara, in una località che le antiche carte catastali indicano come “Nostra Signora d’Itria”, e precisamente nella “vigna di Giraldi”, un tempo patrimonio del duca di San Pietro don Antonio Genoves. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1857, la cascina venne acquistata dal negoziante Pietro Marini (zio di Efisio Marini il “pietrificatore”). Nel predio c’era anche la casa dell’ortolano.

I Lotti e i Magrini riempirono di cereali e paste alimentari le campate dei loro magazzini, parimenti ubicati in regione “Nostra Signora d’Itria”, nell’attuale viale Ciusa, dove insistevano i resti di un antico edificio conventuale. Quegli stessi locali, opportunamente ingranditi, agli inizi del Novecento, ospiteranno lo stabilimento enologico di Francesco Zedda Piras del quale i Lotti e i Magrini erano diventati soci.

 

La Fattoria Santa Maria Chiara

I marchesi d’Arcais, tra la vegetazione di Monte Claro, dove si sviluppò una delle più importanti culture della preistoria sarda e mediterranea, poterono guardare con soddisfazione al verde della terra e alla gioia degli uomini. Qui, alle pendici del Monte Claro, all’interno di un vasto vigneto tra Cagliari e Pirri, era in esercizio la Fattoria Santa Maria Chiara. Alcune strutture (ora abbiamo pochi ruderi di difficile lettura) risalgono al Medioevo, al tempo in cui erano in attività la Chiesa e il Convento di Sancta Maria de Claro (o de Monte Claro), da porre in relazione al culto e alla devozione per Santa Maria Chiara. Con molta probabilità doveva trattarsi di un romitorio cistercense.

Intorno alla chiesa si era formato un piccolo borgo rurale, scomparso nel XVI secolo. L’edificio religioso venne invece demolito nel 1809 e le sue pietre furono trasportate a San Pietro di Pirri. Oggi abbiamo un complesso di ruderi che presenta ambienti di epoche diverse: i pochi resti di una cappella con volta a crociera palesano l’origine tardo-gotica e il carattere sacro del primo impianto. Tra i corpi aggiunti vi sono un edificio a destinazione residenziale del Settecento ed un caseggiato dell’Ottocento che rispecchia i moduli dell’architettura rurale. L’edificio con l’annesso orto, conosciuto come “Giardinu Mannu”, alla fine del Cinquecento apparteneva ai Gesuiti.

Nei secoli successivi vasti appezzamenti furono acquistati da Vincenzo Otger e da Giovanni Maria Angioy, l’eroe della “Sarda Rivoluzione”. La proprietà da quest’ultimo si trasferì, per successione, alla figlia Giuseppa, coniugata col protomedico Francesco Boi. Anche il conte Mossa, uno dei più prestigiosi vinificatori dell’Ottocento, aveva una vasta vigna alle pendici di Monte Claro: allo stesso si deve la prima modernizzazione della viticoltura sarda, che si verifica nella metà dell’Ottocento, grazie all’introduzione di nuovi macchinari ed alla sperimentazione di più avanzate tecniche di vinificazione.

Dopo una serie di ulteriori passaggi di proprietà, il cascinale in località Santa Maria Chiara venne conferito alla società anonima Vinalcool, al momento della sua costituzione (1911), a titolo di sottoscrizione del capitale sociale da parte della “Leonardi & Napoleone”. Il complesso aziendale raggiungerà il massimo grado di sviluppo agli inizi del Novecento, in collegamento alle attività imprenditoriali dei Capra: qui, negli anni Venti del Novecento, venne allestita anche una moderna vaccheria. Dopo anni di abbandono, l’edificio è crollato nel 1994.

 

La Villa Asquer, il Mandorleto e l’Uliveto

Anche i baroni Rossi frequentarono le campagne oltre Villanova, dove ebbero masseria, vigna ed uliveto. I visconti Asquer di Flumini, intorno alla metà dell’Ottocento, acquistarono dai baroni Sanjust di Teulada la villa con parco tuttora presente nell’attuale viale Ciusa. Qui, dal 1916 e per alcuni anni, lo scultore Francesco Ciusa fissò dimora e studio. L’edificio appartiene alla Regione Sardegna che ne ha avuto la proprietà grazie ad un lascito testamentario dell’avvocato Giuseppe Asquer, conosciuto come il “conte rosso” per le sue idee socialiste, deceduto nel 1962.

Oltre la Villa Asquer, nei terreni dei conti Tomassini Barbarossa (avuti per eredità dai baroni Rossi), c’era il mandorleto e, proseguendo in direzione della Chiesa di Sant’Alenixedda, l’uliveto del conte Ignazio Serra. In questa campagna, sino agli inizi degli anni Settanta del Novecento, a seconda delle stagioni, potevi sentire il gracidare delle rane o il finire dei grilli e delle cicale. Il Mandorleto e l’Uliveto, col passare degli anni, lasciarono il posto a diverse lottizzazioni.

 

La Chiesa di Sant’Alenixedda

Oltre l’Uliveto, superata la via Castiglione, si trova ancora la Chiesa di Sant’Alenixedda. La sua edificazione ci riporta al culto di Sant’Elena (Aleni infatti significa Elena) e quindi a quel substrato culturale bizantino ancora presente nella toponomastica e nell’onomastica popolare. Venne costruita in calcare, tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, secondo lo stile romanico arricchito da taluni motivi gotici, presenti in particolare nella facciata divisa in tre specchi da quattro lesene modanate a triplo toro. L’edificio si caratterizza per il piccolo campanile a vela, con monofora a tutto sesto. Faceva parte dell’antico borgo di San Vetrano, già oppidum romano, citato nel Coeterum (1327), probabilmente abbandonato alla fine del Cinquecento per le incursioni saracene che colpirono anche gli abitati di Pirri, Monserrato, Quartu e Quartucciu. Sino all’Ottocento, la chiesa fu di proprietà dei baroni di Teulada.

 

L’ex Fattoria Mannatzu

Non molto distante dalla Chiesa di Sant’Alenixedda, al centro di una vasta tenuta, sorgeva la Chiesa di San Nicolò in Vidrano con annesso convento. La proprietà del compendio era degli Scolopi sino al 1870 circa, vale a dire sino a quando trovò attuazione la legge che prevedeva l’incameramento dei beni degli enti ecclesiastici da parte dello Stato. Agli inizi del Novecento, con Giovanni Mannatzu, la proprietà era diventata una redditizia azienda agricola con vaste distese coltivate a frutteto, cereali e vigneti.

Quella piana assolata, ancora oggi, è indicata dalle carte catastali col toponimo di “Santu Nicolau” (già “San Nicolau de Las Viñas”). Qui, dove sino alla metà degli anni Ottanta del Novecento regnavano indisturbati cavalli al galoppo tra siepi e sterpi, si trovava la Fattoria Mannatzu. Ora l’antico complesso ospita il ristorante “Convento San Giuseppe”, il cui nome ricorda l’antico convento scolopio costruito in epoca spagnola da quei religiosi dediti ai lavori agricoli.

La struttura presenta tutte le caratteristiche degli edifici di campagna ed in particolare la corte interna in cui si affacciano diversi locali dove si svolgevano le attività tipiche del mondo contadino. Inoltre le pareti in ladiri si alternano alle murature in pietrame, i solai sono forniti di travi di ginepro e le coperture sono a capriata con incannicciato e tegole curve.

 

La Villa Pollini

Dal “Convento di San Giuseppe”, dopo aver attraversato l’abitato di Pirri, in località “Calamattia”, ai margini della riposante pianura prima degli ospedali, troviamo la Villa Pollini. In questa dimora i conti Pollini all’allevamento dei bachi da seta e alla coltura di pregiati vitigni alternarono la contemplazione dei bei quadri che arricchivano la loro splendida villa in stile neoclassico lombardo con qualche richiamo alla tradizione del rococò.

Il predio era stato venduto nel 1807 al conte Gaetano Pollini, ricco mercante comasco di origini svizzere giunto in Sardegna come esule politico, dal marchese di Villaclara e Siete Fuentes don Francesco Zatrillas. Quindi, nel 1812, Pollini aveva eretto la villa su disegno di un architetto milanese e sotto la direzione tecnica e artistica del marmoraro Giovanni Battista Franco. La facciata si risolve in una grande composizione architettonica ritmata da tre avancorpi. In quello centrale, tra due colonne sormontate da capitelli e poggianti su basi squadrate, si apre la porta d’ingresso. La dimora – in considerazione della levatura del proprietario (che, tra l’altro, aveva contribuito a far superare gravi situazioni di emergenza finanziaria al Governo e alla Corte Sabauda) – era meta obbligata di illustri visitatori della Sardegna e di intenditori d’arte.

Nel 1885 la prestigiosa casa di villeggiatura venne acquistata dall’industriale vinicolo Francesco Zedda Piras – al quale si è già fatto riferimento – che volle così coronare il suo successo imprenditoriale. Lo stesso la ribattezzò “Villa Doloretta”, in onore della giovane moglie Doloretta Marcello Serra, come lui originaria di Tiana. Nel settembre del 2000, Villa Pollini è stata acquistata dalla Soprintendenza Archeologica di Cagliari che ha effettuato importanti lavori di restauro e risanamento conservativo.

 

La Villa Sant’Agostino e lo Stabilimento enologico Zedda Piras

A breve distanza dalla Villa Pollini, alla quale era collegata da un lungo viale alberato, si trovava Villa Sant’Agostino risalente al XVIII secolo. Si trattava di una tradizionale casa campidanese con ampio loggiato cui si accedeva da un portale con cancello in ferro battuto. La villa era il risultato della trasformazione del vecchio convento con ampio podere di cui i padri agostiniani erano proprietari nei pressi di Pirri. La tenuta era stata acquistata nel 1857 da Giuseppe Zedda, tianese, padre di Francesco Zedda Piras che, nel 1854, aveva iniziato a produrre vino che commerciava in un modesto locale situato nel portico Sant’Antonio. Quei vigneti confinavano con quelli dei conti Gaetano e Giuseppe Pollini.

Dopo circa dieci anni, Francesco Zedda Piras, a seguito della morte del padre, lascia la carriera militare e inizia la sua avvenuta imprenditoriale nei locali del vecchio Convento di Sant’Agostino dove ha sede lo stabilimento vinicolo di famiglia. Da qui partono i vini imbottigliati per i mercati della Germania, del Belgio, dell’Olanda, della Danimarca e di altri paesi.

Nel 1868 Francesco Zedda Piras si sposa con Doloretta Marcello Serra e, nel 1885, acquista, dai conti Porcile di Sant’Antioco, la signorile villa che era stata dei Pollini. Zedda Piras, col successo imprenditoriale, compie la sua ascesa sociale: diviene consigliere comunale e, più volte, vicepresidente della Camera di Commercio.

Muore nel 1904. L’attività commerciale prosegue col figlio secondogenito Antonino, fresco di laurea in leggi conseguita a Bologna (il primogenito era morto di tisi). A tal fine viene costituita una società con altri imprenditori, tra cui i Lotti e i Magrini di Pistoia. Ora l’industria Zedda Piras non opera più nella tenuta Sant’Agostino, ma nell’ampia area che la ditta Lotti e Magrini possedeva in località Santa Maria Chiara, nei pressi di Pirri, lungo lo stradone per il Parteolla (che poi è l’attuale viale Ciusa): tale compendio immobiliare (anche qui si tratta di un ex convento) viene conferito dai Lotti e Magrini per sottoscrivere il capitale della nuova società che, peraltro, dopo tre anni, viene posta in liquidazione. Ma Antonino Zedda non si perde d’animo e prosegue in proprio.

Tornando alla Villa Sant’Agostino, diventata proprietà Ambu, si precisa che venne utilizzata ancora per diversi anni nell’ambito dell’azienda agricola per essere poi demolita nel 1983. Sul lato opposto rispetto all’attuale via Montecassino, c’era anche un’altra casa padronale, parimenti scomparsa, risalente alla prima metà dell’Ottocento: la “Fattoria di Bobboi”.

 

La Chiesa di San Benedetto e il Noviziato dei Cappuccini

La distesa di verde che si sviluppava alle propaggini di Villanova traeva alimento dalla famosa terra rossa, ferruginosa. Qui, oltre qualche casolare di campagna, lungo lo stradone per Quartu, si trovava il Noviziato dei Cappuccini (popolarmente conosciuto come Is Cappuccineddus) con la piccola chiesa eretta nel 1643 grazie alla munificenza di don Benedetto Nater, un patrizio cagliaritano di origini genovesi che poi volle esservi sepolto. Quell’antica chiesa ha dato il nome al rione sorto nella prima metà del Novecento: appunto San Benedetto.

Si tratta, nella sostanza di una cappella in stile tardo gotico realizzata da un capo-mastro che già guardava al barocco. Una modesta cappella completata da un grazioso campanile a vela, con prospetto molto semplice, che affaccia sulla via Verdi, caratterizzato da un coronamento orizzontale con merli e da un portale a sesto acuto sovrastato da due oculi. Attiguo alla cappella vi era il Convento dei Cappuccini dove – secondo la tradizione – un giorno la Vergine parlò a un novizio, Francesco Peis, nato a Laconi nel 1701, raro esempio di umiltà e carità. Verrà canonizzato nel 1951 da Pio XII. Il riferimento è ovviamente a Sant’Ignazio.

In questo locale, che per un certo periodo venne destinato anche a carcere, nel 1923, monsignor Virgilio Angioni, uomo mite e coraggioso, fondò l’Opera del “Buon Pastore” che accolse le orfanelle abbandonate. Alla piccola chiesa oggi nessuno fa caso e sono in pochi ad avere memoria di monsignor Angioni.

 

Villa Halen

Abbiamo ricordato i baroni di Teulada parlando della Chiesa di Sant’Alenixedda. Proseguendo dalla Chiesa di San Benedetto verso Monte Urpinu, proprio alle pendici dell’altura, questi baroni avevano edificato la loro villa di campagna con grande giardino: era una tipica casa colonica campidanese, realizzata lungo l’attuale via Tuveri di fronte alla via Puccini. Sino agli inizi di questo secolo, un’alta recinzione in muratura ne annunciava la presenza. La dimora era stata fatta costruire dal barone Sanjust di Teulada, proprietario anche della vasta area circostante – denominata appunto “Su Baroni” – che comprendeva anche la pineta di Monte Urpinu. Si deve a Francesco Sanjust (1731-1802) l’iniziativa finalizzata a ricoprire di pini la brulla collina calcarea di Monte Urpinu, alle cui falde si estendevano gli oliveti di proprietà dello stesso.

Il compendio venne acquistato da Louis Halen, ufficiale del Regio Esercito belga giunto a Cagliari in qualità di console del Belgio. In città conobbe, e nel 1903 sposò, donna Enrichetta Manca di Villahermosa (nata a Cagliari nel 1875 ed ivi deceduta nel 1968), con la quale andò a vivere a Villa d’Orri. Dopo qualche anno Louis Halen si trasferì nella villa di “Su Baroni”. Nel 1935 la villa costituì oggetto di un importante restauro.

Louis Halen deve essere ricordato anche perché cedette al Comune di Cagliari, ad un prezzo quasi simbolico, la pineta di Monte Urpinu (avente un’estensione di circa 50 ettari) affinché venisse realizzato un parco pubblico. Sua figlia Carmela, nata in Belgio nel 1904 (o nel 1905), visse per un certo periodo in Francia col padre per poi trasferirsi a Cagliari. Si unì in matrimonio con Giovanni Sardagna, ufficiale di cavalleria originario di Trento, discendente da una stirpe di baroni. Per tale ragione Carmela Halen era conosciuta in città come la baronessa Sardagna. La stessa morì nel 1999, all’età di 94 anni.

Intanto, negli anni Novanta, la Villa Halen era passata in proprietà alla famiglia Caruso che la rivendette a un imprenditore edile il quale, nel 2004, la demolì per realizzare un moderno edificio plurifamiliare.

 

La Fattoria Lobina

Sempre alle pendici del Monte Urpinu, ma in località “San Giuliano”, e dunque quasi ai margini dello stagno di Molentargius, esisteva un antico convento di epoca spagnola. La struttura venne acquistata nell’Ottocento dalla famiglia Lobina che vi allestì una fattoria. Gli eredi, intorno al 1970, la destinarono a ristorante.

 

Medau Su Cramu

Siamo così arrivati nelle rive dello stagno di Molentargius dove sorge la borgata di “Medau su Cramu”. Il compendio costituisce un insediamento di antica formazione. Storicamente è stato utilizzato a scopi agricoli, con tenute importanti già in epoca spagnola, tra cui l’azienda agricola del convento dei Carmelitani di Cagliari, Su Medau ‘e Su Cramu: a vale a dire un insediamento agricolo di habitat disperso (su medau) appartenente all’Ordine dei Carmelitani (Cramu significa appunto Carmine). Oltre i Carmelitani, avevano aziende agricole i padri Mercedari di Nostra Signora di Bonaria e gli Scolopi.

La carta IGM del 1885 evidenzia la presenza, in questo territorio, di importanti case-azienda – tra cui la Casa Dol (poi d’Aquila), la Casa Steriu, la Casa Cara e la Casa Piovano – che presentavano estensioni significative. Questi lotti di più ampia dimensione derivavano generalmente dalle proprietà degli enti religiosi.

 

Campo Carreras

Concludendo questo breve itinerario sul filo della memoria dobbiamo dire che la fertile piana che si estendeva oltre il quartiere di Villanova, in direzione San Benedetto, ha visto nascere anche l’edilizia popolare a Cagliari. Infatti, oltre il convento di San Domenico, e precisamente in località “Campo Carreras”, ai margini di quella che diventerà la piazza Garibaldi e che rappresenta quasi uno spartiacque tra l’antico e il moderno, nel 1910, iniziarono i lavori di costruzione delle prime case popolari a Cagliari.

La proprietà in questione apparteneva alla famiglia Zapata. Con delibera 24 ottobre 1874, la Giunta Comunale diede avvio alle pratiche occorrenti per l’espropriazione per pubblica utilità del vasto campo con fabbricato dove si intendeva costruire il carcere penitenziario. Quindi, con delibera 7 novembre 1876, il Consiglio Comunale ratificava l’atto d’acquisto del “Campo Carreras”. Del carcere non se ne fece nulla e l’area verrà messa a disposizione dell’Istituto Case Popolari per realizzare i primi alloggi popolari a Cagliari. Gli edifici, consegnati nel 1913, esistono ancora: sono quelli ubicati nella parte bassa della via Bacaredda (a fianco dell’edificio che, al piano terra, ospitò per tanti anni una filiale della Banca di Sassari e ora del Banco di Sardegna).

Non molto distante, nella piazza Galilei, tra il 1925 e il 1928, l’INCIS realizzerà, su progetto dell’Ufficio del Genio Civile di Cagliari, un imponente complesso edilizio da destinare ad abitazioni.

 

I villini di via Sonnino

San Benedetto è nato come quartiere interclassista, dove borghesi e popolani hanno sempre convissuto. E così, a breve distanza dalle case popolari di “Campo Carreras”, nei pressi dell’attuale via Sonnino, agli inizi del Novecento vennero edificati diversi interessanti villini, alcuni dei quali sono ancora presenti. Tra questi ricordiamo il Villino Meloni: è quello ubicato nella parte alta della via Alghero, qualche metro sopra del semaforo all’incrocio della via Sonnino, ora soffocato dalle adiacenti costruzioni. Vi è poi e la Palazzina Gaudina, realizzata nel 1929-30, nella via Sonnino poco prima della piazza Gramsci, su progetto dell’architetto Francesco Giarrizzo (che negli stessi anni progettò il rifacimento della facciata della Cattedrale). L’edificio riecheggia moduli tra il liberty e il decò, resi evidenti dalle finestrature e dagli elementi decorativi.

È invece stato demolito, negli anni Sessanta, il Villino Marongiu che sorgeva, circondato da un ampio giardino, nell’area tra la Palazzina Gaudina e l’attuale via Abba. Un’altra villa, di tipo plurifamiliare, si trova ancora nella via Sonnino (e precisamente al civico 174 dove ha lo studio il dottore commercialista Guido Cogotti). Precisamente è ubicata nell’isolato compreso tra le vie Sonnino, Abba, Einaudi e Alghero: a breve distanza c’era la villa gemella, demolita negli anni Cinquanta per far posto ad un imponente edificio.

Antonello Angioni

 

 

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