Domus de janas, l’arte dei sardi prima della storia, intervista di Paolo Curreli all’archeologa Giuseppa Tanda
Seimila anni fa in Sardegna un popolo cominciava ad onorare i suoi defunti lasciando un segno che avrebbe attraversato i millenni.
Seimila anni fa in Sardegna un popolo cominciava ad onorare i suoi defunti lasciando un segno che avrebbe attraversato i millenni. Scavavano nella roccia per creare un villaggio che ospitasse i loro morti e descrivendo anche le dimore dei viventi scolpendole nella pietra e decorandole con una cura straordinaria. Queste opere sono le oltre 3500 sepolture ipogeiche che i sardi chiamano domus de janas, perché gli spiriti degli antenati sono diventati nel corso dei secoli le misteriose fate delle leggende, come i nuraghi una presenza costante del paesaggio, riutilizzate dalle diverse civiltà che si sono succedute nell’isola. Giuseppa Tanda ha dedicato 40 anni dei suoi studi a queste mirabili costruzioni. Ricerche che sono state pubblicate dalle edizioni Condaghes illuminando per la prima volta e descrivendo in maniera approfondita le numerose domus de janas che presentano forme d’arte uniche nella storia del Mediterraneo.
Professoressa Tanda chi era il popolo delle domus de janas?
«Erano popolazioni autoctone, non ci sono prove di altri apporti provenienti da culture fuori dall’isola. Mentre l’ossidiana sarda si trova nella in Italia settentrionale, Corsica, Francia del sud e fino alle Baleari da noi non sono stati trovati oggetti di altre culture. Questo significa che l’andamento dello scambio era unilaterale, gli unici manufatti esterni ritrovati sono gli “anelloni” di giadite verde, materiale proveniente da Corsica, Liguria e dal Piemonte. Erano popolazioni dedite all’allevamento, alla agricoltura, artigianato tessile e agli scambi. Una società gerarchizzata, divisa in ceti, capace di creare una organizzazione sociale che permettesse, con un enorme sforzo economico, a un ceto di “architetti scavatori” di dedicarsi alla costruzione dei “villaggi dei defunti”. Di questo abbiamo notevoli testimonianze, come la sepoltura sigillata di un uomo con gli attrezzi di scavo nella necropoli di Anghelu Ruju ad Alghero. Il ripetersi di tecniche anche in luoghi distanti ci racconta di equipé specializzate. Una élite itinerante che realizzava opere anche per altri villaggi e comunità».
Un’organizzazione sociale, tra procacciatori di cibo, artisti e artigiani specializzati che prefigura il popolo che in seguito sarà capace di costruire i nuraghi?
«Sicuramente c’è una continuità, anche se in mezzo ai due momenti ci sono altri aspetti culturali che si esprimono diversamente con l’architettura. Come le aree funerarie prenuragiche di Goni, Sorgono, con gli allineamenti di menhir, o il dolmen di Sa Coveccada di Mores, mentre dell’Età del rame vengono costruite le cinte megalitiche come quella di Monte Baranta di Olmedo, per esempio. Tutto senza una cesura tra un periodo e l’altro, tanto è vero che diverse domus de janas vengono riutilizzate in epoca nuragica arricchite da una stele all’ingresso».
C’è qualche similitudine fuori dall’isola?
«Più che una similitudine delle vere e proprie domus de janas con l’inconfondibile modulo a T e a croce in Francia nella zona intorno a Parigi. Un marchio inconfondibile che fa pensare a contatti con le popolazioni sarde. Non un’opera di colonizzazione ma un lento processo di scambio di oggetti, tecnologie e idee. Confermato dall’assenza di segni di battaglie e conquiste, come crolli, incendi o segni di violenza sui resti umani. In alcuni casi le similitudini sono riferite all’arte come a Malta dove c’è l’ipogeo di Hal-Saflieni, una struttura sotterranea scavata tra il 3600 a.C. circa e il 2500 a.C, decorata con spirali rosse simili a quelle sarde, oggi monumento Unesco».
Il primo volume si concentra sull’arte delle domus de janas di cosa si tratta?
«Le tombe che abbiamo studiato, circa 300 riportano incisioni, sculture e dipinti, non sono solo delle cornici o contenitori d’arte, ma sono esse stesse dei manufatti artistici che comunicano un complesso sistema culturale espressione di coesione sociale che continua anche quando i rituali di inumazione cambiano».
Come si esprimeva questa espressione sociale?
«Con una serie di immagini legate alle credenze della vita dopo la morte, la speranza della rinascita. Il defunto strappato alla comunità viene circondato da immagini e oggetti legati ai riti dell’inumazione. Oggetti d’uso quotidiano o attrezzi di lavoro come quelli dell’ “architetto scultore”. Il defunto doveva avere a disposizione un corredo completo per non dover tornare nel mondo dei vivi. C’è uno scheletro che tiene in mano una statuina di una donna, forse la rappresentazione della sua compagna per non proseguire da solo nell’altro mondo. In etnologia è stato registrata questa credenza anche in epoca moderna in Sardegna, una bambola di stoffa nella bara del defunto perché non torni a portare via sua moglie. L’amore e il dolore per la perdita vanno sempre insieme alla paura del ritorno del defunto dal regno dei morti».
Con quali forme artistiche?
«Intanto un centinaio almeno delle tombe ricalca e imita l’abitazione dei vivi, in modo che il defunto continui il suo viaggio nel mondo ultraterreno come viveva nei suoi giorni sulla terra. Ci sono quindi riprodotte le strutture architettoniche delle capanne, molto interessanti perché di queste abitazioni non è stato ritrovato nulla. Fatta eccezione del sito di Serra Linta a Sedilo ancora da indagare. Abbiamo perfino un tavolo scavato nella roccia o un tappetto alla parete dipinto. Molto diffusa è la protome bovina, la testa del toro, animale importante e simbolo di ricchezza, fondamentale come traino per i carri, quindi simbolo anche di passaggio, trasporto da un luogo all’altro. Graficamente questo simbolo subisce un’interessante stilizzazione, da una rappresentazione naturalistica, con occhi, corna e orecchie a una simbologia più astratta, essenziale; solo una curva per le corna o una V. Poi ci sono spirali e clessidre, queste ultime sono rappresentazioni femminili, come possiamo rilevare nelle ceramiche della cultura di Ozieri. Poi c’è il “capovolto”, una figura a testa in giù, che viaggia verso il regno dei morti. Tutto è realizzato con diverse tecniche, bassorilievi, incisioni e dipinti e perfino con l’argilla come la grande figura dell’orante nella tomba di Sos Surighesos di Anela. Importante è la rappresentazione della porta che conduce all’aldilà che è anche un sigill che chiude il defunto nel suo viaggio che non deve avere un ritorno. Questi simboli diventano di volta in volta sempre più presenti e ripetuti, come se la serialità fosse legata a una ritualità, fino a perdere il loro significato nella millenaria storia di riutilizzo delle domus de janas, e diventare mera decorazione».
Nei vostri progetti c’è il riconoscimento delle nostre domus de janas decorate come patrimonio dell’Unesco, perché?
«Perché questo patrimonio è originale e unico della Sardegna, per tornare al simbolo del toro nasce nell’isola migliaia di anni prima di altre forme simili nel Mediterraneo. Sono opere d’arte che rappresentano benissimo lo spirito dell’Unesco, un bene culturale di valore universale eccezionale, nella maggior parte dei casi messo in pericolo dall’incuria, dall’abbandono e dal degrado. La petizione lanciata su Change.org ha raccolto finora l’adesione di circa 6000 persone. Ad oggi hanno aderito 51 Comuni su 63, con Alghero e Ossi capofila. La seconda fase operativa è la richiesta di inserimento della tematica nella Tentative List.
Successivamente si dovrà costruire il dossier tecnico-scientifico da inviare alla Commissione nazionale Unesco che la valuterà e deciderà di trasmetterla al segretariato, a Parigi».
La Nuova Sardegna, 20 dicembre 2020