Il pensiero dell’immunità opposto alla comunità, di Donatella Di Cesare, Mauro Bonazzi e Giuseppe Remuzzi
Nota Bene: Questo articolo oppone, con interessanti considerazioni l’immunità alla comunità ed è stato pubblicato nello scorso febbraio. A distanza di dieci mesi, oggi potremmo affermare che le attenzioni all’immunità rappresentano uno degli attributi al rispetto della comunità. Pensiamo che, alla luce dell’esperienza intervenuta, anche gli autori concorderebbero. Comunque: la grande parte delle considerazioni di fondo restano interessanti e condivisibili. (N. d. R. del sito).
Termoscanner negli aeroporti, controlli sul territorio, quarantena per i potenziali infettati, e poi mascherine, misure precauzionali, lavaggio frequente delle mani… Basterà? L’angoscia del contatto si mobilita, il timore della contaminazione si fa palpabile insinuandosi nella quotidianità. Meglio sarebbe evitare luoghi pubblici, rinserrarsi nello spazio dell’intimità domestica, dove il temibile virus, che ha un nome così sovrano, difficilmente riuscirà a penetrare. Quella nicchia, sempre rassicurante, costellata qui e là di schermi attraverso cui guardare protetti il mondo, non è mai parsa così indispensabile.
Qualcuno sostiene che siano ataviche le pulsioni che spingono a erigere barriere (nonché muri), che siano naturali sia la paura per l’estraneo, cioè la xenofobia, sia quella per tutto ciò che è fuori, cioè la exofobia (così peculiare alla nostra epoca). Andando avanti di questo passo si finisce per considerare naturale anche il razzismo — una tesi che qui e là circola senza essere fermata da poche, semplici obiezioni. Come se fosse in fondo comprensibile deridere o aggredire un cinese, perché il suo corpo incarna il virus e il suo volto quasi lo impersona. E il razzismo — sì! — è un virus potentissimo. Ma davvero la pulsione securitaria è tutta naturale e la politica non c’entra?
Nei dibattiti, spesso noiosi, sulla democrazia — come difenderla, come riformarla, come migliorarla, ecc. — si dimentica che di «democrazia» si dovrebbe parlare al plurale, perché ormai esistono diversi modelli, persino opposti. Il nostro è sempre più lontano dal modello greco, a cui pure amiamo fare riferimento. Già ai suoi tempi lo aveva visto con chiarezza Fustel de Coulanges nell’opera ormai classica La città antica del 1864. È impossibile ignorare oggi i gravissimi limiti della pólis: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, la disumanizzazione degli schiavi. Tuttavia, per i cittadini greci il modello politico era quello dell’esposizione, del coinvolgimento, della partecipazione.
Al contrario, il modello che si impone nella modernità, a cominciare dalla democrazia americana, per dilagare poi in tutto il modo occidentale (e occidentalizzato), è quello della non-esposizione. Vale a dire: noli me tangere. Non toccarmi. Persone, corpi, opinioni devono poter esistere, muoversi, esprimersi, senza essere «toccati», senza venire inibiti, costretti, interdetti da un’autorità esterna. Finché non sia proprio inevitabile. Questo modello negativo è un sistema d’immunità che oltrepassa la politica e si estende al governo delle vite umane nei loro molteplici aspetti. È un sistema di diritti visti come garanzie e assicurazioni. Anche la libertà viene intesa negativamente, e cioè non nel segno dell’espansione e della creazione, bensì in quello della salvaguardia e della protezione. Se al cittadino greco interessava la condivisione del potere pubblico, al cittadino della democrazia immunitaria interessa anzitutto la propria sicurezza, goduta nella nicchia privata e gentilmente concessa dall’autorità politica. Perciò confonde garanzia e libertà.
Via via che questo modello si è imposto, sono aumentate le esigenze e le richieste di immunità. Il noli me tangere è la tacita parola d’ordine che ispira e guida la battaglia dei diritti, in cui si crede di scorgere il fronte della civiltà e del progresso. Cittadine e cittadini chiedono a gran voce rispetto dell’integrità, assicurazione di immunità. Per capire basti pensare al mutamento di paradigma politico, morale, psichico, già molto discusso, per cui al pater familias, il terribile padre padrone, sempre più screditato, si oppone il corpo intangibile del bambino sovrano, sorvegliato con le telecamere per prevenire ed eventualmente registrare scappellotti e sgridate dei maestri. Messo in pensione il padre, scatenata un’infinita crisi di autorità, che ha ripercussioni locali (famiglia, scuola, ecc.), alla patria potestà si sostituisce la tutela dello Stato. Com’è noto, questo è terreno fertile per reazionari e nostalgici che, con le loro elucubrazioni crepuscolari, immaginano di poter restaurare il paradigma politico della paternità autoritaria. Sennonché lo Stato moderno, questa macchina fredda e impassibile, non ama né odia. Semplicemente — come ha insegnato Michel Foucault — fa vivere e lascia morire. Tutto in modo amministrativo.
Per comprendere la complessità del processo e guardare a tutti gli esiti dell’immunizzazione, bisogna dire che accanto all’intangibile, cioè il corpo del cittadino inscritto nella democrazia liberale, viene ammesso senza problemi l’abbandono di una parte dell’umanità alla propria sorte. Lì, infatti, non arriva il sistema di garanzie e assicurazioni. Sarà meglio, anzi, tenersi a distanza da quegli intoccabili, che potrebbero essere fonte di contaminazione, causa di contagio. Quest’altra umanità (saranno «umani»?) sarà inesorabilmente esposta: a guerre, genocidi, fame, malattie, malnutrizione, sfruttamento sessuale, schiavitù.
Si auspicano «inclusione» o «diritti per tutti». Quel che avviene è, però, l’opposto: una non-inclusione sistematica. Da un canto gli intangibili, dall’altro gli esposti; da un canto i garantiti e preservati, dall’altro gli intoccabili. Immunizzazione degli uni, esposizione degli altri. Così funziona la democrazia immunitaria, secondo questo doppio binario, reso semmai più saldo e collaudato dall’esperienza totalitaria: quanto più si moltiplicano benefici e garanzie per chi è dentro, tanto più cresce l’abbandono dei reietti lì fuori. Ai dispositivi di controllo, protezione e prevenzione nel nostro mondo corrispondono il disordine, la desolazione, l’ininterrotto scatenarsi delle forze naturali nel mondo altro. La vaccinazione infantile avrà sortito effetti nel continente africano, che però sono stati quasi cancellati da nuove incontrollate pandemie. Al corpo intangibile del bambino nella scuola occidentale si oppongono le orde di bambini erranti nelle città e nelle metropoli delle periferie planetarie. Se vanno incontro a infezioni selvagge, non saranno forse loro selvaggi? E i bambini cinesi nelle scuole italiane — cinesi come quelli che hanno il contagio e lo portano qui e là — non saranno da bandire? Ecco insomma, mormora tra sé, il cittadino immunizzato: «Ammettetelo! Il coronavirus ha finalmente messo allo scoperto l’inciviltà dei cinesi, ben lontani dall’essere occidentalizzati».
È sbagliato parlare, come fanno molti, di «indifferenza», perché vuol dire ridurre a una scelta morale del singolo quel che è invece una questione eminentemente politica. Per di più significa depoliticizzare la questione. E non è neppure solo razzismo — anche questa è una semplificazione. Piuttosto è una tetania affettiva con tanto di ragion di Stato.
Non si deve ovviamente credere che l’immunizzazione valga ovunque per tutti. Le dinamiche del potere agiscono dentro la democrazia immunitaria. Il corpo di un barbone fermato in una stazione di polizia è tutt’altro che intangibile. E lo stesso si può dire per quello di una donna che rischia abusi e discriminazioni sul posto di lavoro.
Ma importante è che il processo di immunizzazione fa del corpo (e della mente) di ciascun cittadino una fortezza da proteggere e da isolare. Le forme di avversione si moltiplicano, il movimento del ritrarsi diventa spontaneo, la fobia del contatto è la norma. Ecco, dunque, il nevrotico cittadino, ossessionato da minacce, pronto a seguire ogni regola igienica e sanitaria, che si comporta sempre come se vivesse in tempo di peste, che si consegna a una democrazia medico-pastorale, di cui non ha difficoltà a riconoscersi paziente. Politica e medicina, diritto e sanità, ambiti eterogenei, si sovrappongono e si confondono nella democrazia immunitaria. L’azione politica tende ad assumere modalità medica, mentre la pratica medica si politicizza. Anche qui il nazismo ha fatto scuola — per quanto scandaloso sia ricordarlo nella democrazia attuale.
Il cittadino-paziente, cui è in fondo preclusa l’esperienza dell’altro, è talvolta sopraffatto da un’oscura nostalgia della massa. Vorrebbe quasi tornare a immergersi per emanciparsi da tutta la negatività della fobia del contatto. Lo fa talvolta, in modo, però, sottilmente regolamentato, negli stadi sportivi o nei concerti. Per il resto è abituato a schermi e filtri; con mesta rassegnazione accetta persino i paradossali effetti dell’immunizzazione, tra cui una gran quantità di malattie autoimmuni che colpiscono il corpo iperprotetto.
La democrazia immunitaria ha un potente effetto anestetizzante, quasi narcotico. Questo dicono già da qualche anno i filosofi della biopolitica, alle cui parole — soprattutto nel dibattito italiano — si preferiscono le voci rassicuranti dei democratici, più o meno liberal, come Michael Walzer, che disquisiscono sul modo in cui migliorare la comunità, senza metterne in discussione né le frontiere né, tanto meno, il vincolo che la tiene insieme: la fobia del contagio, la paura dell’altro. Immunitas, ha mostrato Roberto Esposito, è l’opposto di communitas. Dove prevale l’immunizzazione, viene meno la comunità. Non si esagera dicendo che sono queste le due tendenze inconciliabili in cui si dibatte la democrazia.
LA LETTURA, 16 FEBBRAIO 2020