Un femminicidio ogni tre giorni. L’appello: denunciate, salvatevi.

Tutte colpite a morte dai loro compagni. Compagni e mariti, prima che maschi e delinquenti. Perciò quello di ‘femminicidio’ non è il termine più appropriato, perché è vero ma generico,  non aiuta a cogliere le cause  più vicine e vere (psicologicamente: l’amore come possesso, etc.; sociologicamente: la crisi della coppia, etc….) e si presta a strumentalizzazioni. Il termine corretto è “muliericidio”, quando il maschio uccide la donna con la quale ha un (terribile) rapporto, talora vicendevole (E’ la tesi espressa nel suo ultimo saggio dalla grande psichiatra cagliaritana Nereide Rudas - “Donne morte senza riposo” un’indagine sul muliericidio (AM&D Edizioni, pag.331, anno 2016) - che tutto il ceto intellettuale cagliaritano e sardo sarebbe chiamato ad approfondire e diffondere). In ogni caso dobbiamo ringraziare e sostenere tutte le persone che operano concretamente dalla parte delle donne vittime. (N.d.R.).

 

 

Una donna uccisa ogni tre giorni, 91 da inizio anno. Con l’aggravante, del fattore lockdown che, a causa delle misure restrittive, ha visto triplicare i femminicidi e le violenze in ambito familiare. È questo il dato nazionale. Tre le vittime in Sardegna: Speranza Ponti ad Alghero, Zdenka Krejcikova a Sorso, Marisa Pireddu a Serramanna. Tutte colpite a morte dai loro compagni. Tantissime le richieste di aiuto ai 10 centri anti violenza attivi nell’isola, che può contare anche su 5 case rifugio. Dice Silvana Migoni, del centro Donne al traguardo: «Dal 1 gennaio al 18 novembre abbiamo ricevuto 172 nuove richieste di aiuto e preso in carico 158 donne. Nella casa rifugio abbiamo messo in sicurezza 8 donne e 5 minori». Le denunce sono in aumento e chi si rivolge al centro non va mai via. Come Teresa tante altre donne scelgono di aiutare chi le ha aiutate, collaborano ai progetti, fanno volontariato, ascoltano racconti che hanno vissuto sulla propria pelle. Dai Centri antiviolenza è stato rivolto un appello al premier Conte: «Servono più risorse». Proprio Conte, illustrando i dati a un anno dall’approvazione del Codice rosso, ha detto che «il percorso da fare è ancora lungo. Il Codice è solo un tassello fondamentale importantissimo che riguarda il momento in cui la violenza è già avvenuta: non basta». Si deve fare di più: questa l’esortazione del presidente del consiglio regionale Michele Pais e della commissione regionale Pari opportunità. Si comincia con un atto simbolico: oggi sulla pagina del sito del Consiglio e sulle pagine social comparirà una banda rossa con la scritta “#25 novembre, il Consiglio regionale della Sardegna contro la violenza sulle donne”.

di Silvia Sanna, SASSARI

Teresa ha imparato da poco a guidare l’auto guardando avanti e non nello specchietto retrovisore. Ha anche riscoperto una sensazione semplice ma dimenticata: camminare libera per strada, senza due scanner puntati addosso che contano i tuoi passi e controllano dove vai, chi incontri, a chi sorridi. Teresa è uscita dalla prigione in cui era finita più di 20 anni fa e solo da poco ha capito che le sbarre c’erano sempre state anche se lei inizialmente non le vedeva. È una vittima di violenza da parte di un uomo, l’ex compagno padre dei suoi due figli oggi quasi adolescenti. «Violenza psicologica innanzitutto, ma anche fisica. Dovevo fare quello che lui voleva, assecondarlo sempre. Se mi opponevo erano guai». Botte ma soprattutto umiliazioni: il ritornello era “sei una incapace, una fallita, sei niente”. Oggi Teresa ha 48 anni e sta vivendo una seconda vita: «La prima in realtà, perché l’altra non è stata una vita ma una esistenza grigia segnata dall’ansia, dalla paura, dal buio. Ora rivedo la luce, i colori».L’inizio della fine. C’è un momento nel calendario che Teresa cerchia in rosso. È il giorno in cui lei e il suo ex compagno decisero di mettere su famiglia, di avere un figlio. «Fu tutto abbastanza naturale, stavamo insieme da 10 anni, avevamo entrambi circa 30 anni ed eravamo felici. Un bambino doveva rappresentare il completamento, la chiusura del cerchio. Quando nacque il nostro primo figlio provai una gioia immensa. Ma poco dopo tutte le mie certezze iniziarono a sgretolarsi. Le insicurezze del mio compagno, quelle che avevo fatto finta di non vedere durante il fidanzamento, stavano creando una voragine tra noi». Già perché gli equilibri di coppia con la nascita di un figlio cambiano, l’attenzione è rivolta verso il nuovo arrivato «e lui si sentiva trascurato perché io non ero concentrata su di lui come prima». Per Teresa è come una illuminazione: capisce che nei 10 anni precedenti ha vissuto all’ombra del suo uomo: «Decideva tutto lui e a me andava bene, mi sembrava normale. Lavoravamo insieme e lui sapeva tutto di me, stessi amici, stessi incontri. Una vita in simbiosi, con lui dominante e io accondiscendente. Decideva lui, quello che pensavo io contava zero». Due anni dopo il primo figlio nasce il secondo, una bambina. E il rapporto è già a pezzi. «C’erano problemi economici, io non lavoravo e lui da solo non è stato in grado di gestire l’attività. Ha iniziato a frequentare brutta gente, a fare sparire i soldi. Ho scoperto che si drogava e non riuscivo a crederci: cascarci a più di 30 anni mi sembrava incredibile». Teresa è sola: ha due figli piccoli e un compagno che non solo non l’aiuta ma le mette i bastoni tra le ruote in tutto. «Ho ricominciato a lavorare come dipendente perché la nostra attività l’aveva mandata in rovina. Lui non voleva che uscissi di casa, che vedessi persone, era terrorizzato. Mi insultava, mi denigrava con i colleghi, diceva che ero una incapace, che non sarei riuscita a fare niente di buono. Urlava sei una fallita, sei una fallita. I bambini a volte sentivano, non capivano perché il loro papà gridasse e non avesse mai per loro una parola o un gesto d’affetto. Io, morta dentro, li rassicuravo con un sorriso mentre sentivo che il precipizio era dietro l’angolo».Il carcere. Quando Teresa sta per esplodere, il compagno viene arrestato: è tossico e ha bisogno di soldi, per questo ruba. «Quando lui è in galera non lo abbandono. Provo a salvare il rapporto, cerco di rattoppare la mia esistenza a brandelli, tento di ricostruire per i miei figli il quadretto della famiglia». Quando lui esce dal carcere la sua casa lo riaccoglie. Ma il periodo di distacco non è servito. Anzi, lui impazzisce quando vede che Teresa nel frattempo è andata avanti: lavora, ha delle amicizie, coltiva affetti, “osa” persino invitare a casa compagni dei figli con i loro genitori. «Lui li trattava male, era sgradevole. Mi offendeva davanti a loro, davanti ai bambini. Andavano via sotto choc e non tornavano più. Lui stava creando il deserto intorno a me. E io avevo paura, per me ma soprattutto per i bambini. Perché quando lo contraddicevo lui diventava violento. I miei figli non li ha mai picchiati, a me invece si. Mi ha fatto male, ma i lividi spariscono, il ricordo di quello che ho subìto invece no». L’addio e il nuovo incubo. L’altro cerchio rosso nel calendario è segnato nel giorno in cui Teresa ha detto basta. «Me ne vado – gli ho detto – è finita. Quando ho chiuso la porta e messo i bambini in auto lui gridava “me la pagherai, qualunque cosa farai io ti demolirò”». Lei trova un rifugio ma è una nuova prigione. Perché quando si affaccia alla finestra vede lui, quando accompagna i figli a scuola c’è lui, dall’altro lato del marciapiede c’è lui che la fissa, quando crede di averlo seminato ecco che ricompare. «Per più di un anno mi stava appresso 24 ore su 24. Sempre, in ogni momento sapevo che voltandomi l’avrei visto. A piedi, in auto: con un occhio guardavo la strada, con l’altro controllavo lo specchietto retrovisore. E poi il telefono, decine di chiamate e messaggi ogni giorno. Ho cambiato tante volte il numero e ho anche pensato di bloccare il suo contatto: ma non l’ho mai fatto per paura che se la prendesse con i bambini. Ho pensato: meglio che scarichi la sua frustrazione su di me, i miei figli li devo salvare. Allora facevo così: avvisavo i miei familiari e il telefono lo spegnevo soltanto quando ero con i bambini. Ma non era vita, era un incubo da cui dovevo uscire. La mia fortuna è stata bussare alla porta di un centro antiviolenza: mi hanno ascoltata, presa per mano, sostenuta in ogni momento della risalita. Ho smesso di sentirmi sola. Ho rialzato la testa: ho denunciato il mio ex compagno per stalking, una, due, cinque, dieci denunce. Alla fine, l’ennesima volta in cui l’hanno beccato vicino a casa mia, dove non doveva stare, l’hanno arrestato. È ritornato in carcere e per un cumulo di pena c’è rimasto quattro anni. Io ho ricominciato a respirare».La rinascita. Teresa oggi abita in un’altra casa con i due figli. «Siamo noi tre e in tre resteremo. I ragazzi portano i segni, hanno molta rabbia dentro per quello che hanno visto e subìto. Mostrano aggressività, è successo anche a scuola. Io li tranquillizzo e vedermi serena è per loro il miglior balsamo sulle ferite. Lui per fortuna non è più un problema. Si è arreso, da quando è uscito dal carcere non mi tormenta più. E io ora mi sento più forte. In questi anni ho sviluppato speciali sensori d’allarme: non odio gli uomini e non penso che siano tutti uguali. Però la mia vita resta mia. Non permetterò più a nessuno di condizionare le mie scelte. Ai miei figli dico di fare altrettanto. Alle ragazze consiglio di studiare, di crearsi una indipendenza economica e mentale per essere padrone di se stesse e capire cosa è sano e cosa è malato. E di non avere paura a chiedere aiuto: intorno a noi c’è una rete di persone pronte a tenderci la mano. Io mi sono aggrappata a quella mano che mi ha tirato su, senza mollarmi mai». È il terzo cerchio nel calendario di Teresa, segna l’alba di una vita vera.

*** Di questi due articoli, pubblicati da La Nuova Sardegna, non conosciamo né la data e, del primo, neanche l’autore (probabilmente autrice). Lu pubblichiamo in differita, ma probabilmente è uscito in coincidenza di una delle giornate delle donne.

 

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