Da Stoccolma a Bitti per aiutare i compaesani, di Simonetta Selloni
Giuseppe Caprolu (nella foto), ingegnere da 11 anni in Svezia, è rientrato dopo l’alluvione. «Vedevo le immagini in tv, mi sono detto che dovevo fare qualcosa»
BITTI, Stoccolma, Ginevra, Milano. Non sono tra i protagonisti della prossima stagione della Casa di Carta, riuniti per il colpo del secolo. Sono i luoghi dai quali tre giovani bittesi, tre cervelli che da tempo hanno trovato (ottime) occupazioni, hanno fatto ritorno a Bitti per rimboccarsi le maniche e dare una mano ai loro compaesani. Dopo che due settimane fa il paese è stato travolto dal fango e dalle macerie seguite alla bomba d’acqua che ha anche trascinato tre vite con sè. Questa è la storia di Giuseppe Caprolu, 36 anni, ingegnere civile, da 11 anni in Svezia, gli ultimi sei dei quali a Stoccolma. Partito con un master & back della Regione, ha sviluppato la prima fase, quella del master, «che qui dura cinque anni», e si è perso il back: e infatti è rimasto a Stoccolma, dove lavora per una multinazionale – 17mila dipendenti – e si è specializzato in strutture in legno. «Quando a Bitti è successo il finimondo, vedevo attraverso i social, la televisione, le immagini che i miei amici mandavano su whatsapp. Un disastro totale». Con il passare delle ore, per Giuseppe, che a Bitti torna comunque ogni anno, si è aggiunta un’ altra sensazione. «La paura. È successo che mio padre ha telefonato ai miei per dire loro che era bloccato fuori dal paese, tra due frane». Il fatto è che in quelle ore, Bitti era completamente isolato: nessuna comunicazione. E in quelle stesse ore, però, era trapelata la notizia che una persona (l’allevatore Giuseppe Mannu) avesse perso la vita, su un pick-up, per via di una frana. «E mio padre era a bordo di un pick-up. È riuscito a superare la frana, è rientrato in paese e a noi che eravamo fuori non ha più comunicato nulla». Ci sono volute ore prima che a Stoccolma arrivasse la notizia del genitore sano e salvo. «Una sensazione bruttissima. Come arrivavano le immagini, mi sono detto che dovevo rientrare e fare qualcosa». Caprolu ha sentito al telefono gli altri due amici, che come lui hanno lasciato Bitti da anni dopo gli studi e si sono stabiliti a Ginevra e Milano. «Con uno in particolare abbiamo deciso di rientrare, con l’altro, che in autonomia ha fatto la nostra stessa scelta, ci siamo trovati a Bitti».Nella Bitti sommersa dal fango e dalle macerie, nella Bitti in lutto per i tre compaesani portati via dall’alluvione, i tre ragazzi si sono mischiati ai volontari e a tutti quelli che hanno aiutato come hanno potuto. «È difficile, ma è anche bello potersi rendere utili». Stivali ai piedi e pala in mano, a togliere fango dalle case. «Una volta di più ho avuto la conferma dello spirito di sacrificio e della dignità delle persone. È successo, e succede, che passi la giornata a provare a ridare un volto a quello che c’era in una casa. I proprietari sono lì, che lavorano tra i ricordi di una vita andati in pezzi e nessuno perde mai il sorriso. Sono attenti ai bisogni degli altri, in mezzo al disastro e si preoccupano di offrirti un caffè o di fare in modo che tu stia bene o abbia pranzato». Senza lamentarsi, un obbiettivo più grande davanti: ricostruire. «A Stoccolma il mio datore di lavoro ha capito la situazione. L’azienda non ostacola lo smart working, ma preferibilmente dentro i confini della nazione o comunque in Paesi dove ci sia una filiale. L’Italia non è tra questi. Quando però ho spiegato cosa stava accadendo, mi hanno assecondato, e anzi mi è stato consentito di stare qui fino a Natale». Un Natale diverso, tra fango e buona volontà. Ma anche amicizie di una vita. «Sto bene in Svezia, ma qui mi basta entrare in un bar qualunque e trovo qualcuno con cui parlare, condividere ricordi, raccontarci la giornata». E pensare che prima o poi, anche questo disastro sarà un qualcosa da raccontarsi davanti a un caffè.