Il caldo libera dai ghiacci i virus antichi, di Sandro Orlando
Ricerche In Siberia e in Tibet sono stati trovati agenti patogeni vecchi di migliaia di anni. Innocui o no? Scienziati divisi.
Comunità virali risalenti anche al Pleistocene, in gran parte sconosciute, sono state individuate dagli studiosi dell’Università dell’Ohio
Estate 2016: un’epidemia di antrace scoppia nella penisola di Yamal, nell’estremo nord della Siberia, uccidendo più di duemila renne. Un centinaio di pastori di etnia Nenets vengono ricoverati in seguito all’infezione. Due muoiono: tra loro c’è anche un ragazzo di 12 anni. Erano almeno 75 anni che a quelle latitudini non si registrava un caso di infezione da Bacillus anthracis, anche noto come carbonchio. E tuttavia tra la fine dell’Ottocento e il 1925 quella regione era stata flagellata dall’antrace, con conseguenti morie di massa di esseri umani e animali.
Ecco perché già nel 2011 uno studio profetico dell’Accademia delle scienze di Mosca metteva in evidenza il rischio di nuovi contagi, qualora il riscaldamento globale avesse liberato agenti patogeni conservati nei ghiacci perenni dell’Artico russo. «Tra il 1900 e il 1980 la temperatura degli strati superiori del permafrost è aumentata già di 2-4°C, ed è atteso un altro incremento di 3°C», scrivevano gli autori, Boris Revich e Marina Podolnaya. Che aggiungevano: «In conseguenza dello scioglimento dei ghiacci potrebbero tornare i vettori di infezioni mortali del XVIII e XIX secolo, soprattutto in prossimità dei cimiteri dove sono sepolte le vittime di quelle malattie».
Il permafrost ha tutte le condizioni perché «la vita microbica al suo interno si conservi per migliaia di anni: assenza di luce e ossigeno, una temperatura stabile sotto zero e un pH negativo», osserva Carlo Barbante, paleoclimatologo alla guida dell’Istituto di scienze polari del Cnr di Venezia, che al caso nello
Yamal ha dedicato uno studio di prossima pubblicazione sulla rivista «Scientific Reports»: «Abbiamo cercato di sviluppare una modellistica per capire come le condizioni ambientali e le temperature influenzino le dinamiche di trasmissione delle spore riemerse dal ghiaccio».
La ricerca si concentra sull’antrace, batterio dotato di un’incredibile capacità di resistenza: nel suolo sopravvive anche per 80 anni. Ma lascia intravedere un nuovo campo d’indagine nello studio di quelli che già vengono definiti — con qualche semplificazione — «virus zombie»: microrganismi di epoche lontane, in grado di tornare attivi dopo essere rimasti ibernati per millenni nel permafrost, che ora si va sciogliendo rapidamente per effetto del cambiamento climatico.
Si tratta di «comunità virali» risalenti anche al tardo Pleistocene, cioè 15 mila anni fa, e in larga parte sconosciute,
Il genetista «L’idea che un virus possa essere “sradicato” dal pianeta è chiaramente sbagliata, e ci dà un falso senso di sicurezza»
come quelle individuate da un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Ohio in alcuni campioni di ghiaccio estratti dal ghiacciaio di Guliya, sugli altipiani del Tibet. È il risultato di uno studio firmato da un team guidato dal cinese Zhong Zhi-Ping, che si trova ancora in fase di
peer review, cioè è sotto esame da parte della comunità scientifica.
«Teoricamente è possibile, ma i dettagli tecnici sono insufficienti», precisa Duccio Cavalieri, microbiologo dell’Università di Firenze, che in qualità di revisore ha chiesto agli autori ulteriori approfondimenti sui metodi di decontaminazione adottati. «Sappiamo da tempo che i batteri e certi virus, come quelli batteriofagi, possono conservarsi a lungo nei ghiacci, ma non quelli che infettano l’uomo», continua il professore. E così, ad esempio, nel 2014 due suoi colleghi dell’Università di Marsiglia, JeanMichel Claverie e Chantal Abergel, riuscirono a isolare nel permafrost siberiano il Pithovirus, un virus rimasto intrappolato nei ghiacci per oltre 30 mila anni: una volta riportato in vita in laboratorio, si rivelò in grado di infettare solo degli organismi unicellulari, le amebe. Lo stesso è accaduto con il Mollivirus, identificato l’anno successivo in una regione non lontana della Siberia nordorientale, dove ugualmente erano state trovate tracce dell’uomo di Neanderthal.
Diverse le conclusioni del professor Claverie, genetista che nella sua carriera ha resuscitato quattro virus ibernati dai tempi dell’ultima glaciazione, nessuno dei quali però capace di contagi umani: «Il fatto che potremmo contrarre un’infezione virale da un uomo di Neanderthal estinto da tempo — dice — è una buona dimostrazione che l’idea che un virus possa essere “sradicato” dal pianeta è chiaramente sbagliata, e ci dà un falso senso di sicurezza. Ecco perché dovremmo tenere delle scorte di vaccini, per ogni evenienza».
«I virus che infettano l’uomo hanno una parete esterna che non sopravvive al congelamento», insiste però Cavalieri. «La sequenza del Dna della Spagnola è stata ricostruita dai resti di una donna ritrovata nei ghiacci dell’Alaska in buono stato, ma il suo virus non era integro, e quindi era inoffensivo».
La scienza però procede per salti, e nuove scoperte sono sempre lì, pronte a smentire quello che si dava per acquisito. Lo studio sul ghiacciaio tibetano, con i suoi 28 gruppi virali sconosciuti, risalenti all’epoca dei mammut, potrebbe rivelarsi una di queste svolte. «È una tale bomba che ancora non è stato pubblicato», osserva Cavalieri. «I ghiacci sono una riserva di acidi nucleici, e quindi di informazioni genetiche, di fondamentale importanza per comprendere la storia delle epidemie passate».
Per questo motivo il suo dipartimento si prepara a partecipare al progetto Ice
Memory — un programma internazionale per la creazione di una grande banca dati sui ghiacciai in via di estinzione, di cui Cnr e Università di Venezia sono capofila — con l’avvio di uno studio del permafrost alpino dal punto di vista microbiologico. «Viviamo in un mondo che è pieno di Dna virale, ma dei virus ignoriamo quasi tutto, soprattutto non ne conosciamo l’evoluzione e le possibilità di trasmissione», conclude lo scienziato. «Qualche anno fa con Barbante abbiamo dimostrato che le tempeste di sabbia sono in grado di trasportare flussi di microrganismi patogeni dall’Africa sub-sahariana alle Dolomiti. La domanda allora è: come incidono i cambiamenti climatici sulle rotte dei virus?».
Un interrogativo che in tempi di Covid provoca più di un brivido.
La lettura , 27 settembre 2020