Sos Sardos malos a creschere… SA ZELOSIA, la malattia delle isole

Luciano Marrocu (foto di Daniela Zedda)

 

Marrocu, Luciano Storico, scrittore (n. Guspini 1948), insegna presso l’Università di Cagliari. Tra i suoi saggi storici più importanti: La perdita del Regno. Intellettuali e costru­zione dell’identità sarda tra Ottocento e Novecento (con Manlio Brigaglia), 1995; Procurad’e moderare. Racconto popo­lare della rivoluzione sarda, 1996; In­ventando tradizioni e costruendo na­zioni: racconto del passato e formazione dell’identità sarda, in Le Carte d’Arbo­rea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX sec. (a cura di Luciano Marrocu), 1997; Il ventennio fascista, in La Sarde­gna, volume della collana Einaudi “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi”, 1998.

L’articolo (La malattia delle isole) è stato pubblicato su SARDEGNA24 , il 10 dicembre 2011

Sarà poi vero che noi sardi siamo, oltre che pocos anche locos y mal unidos? Pare che Carlo V non l’abbia mai detta questa cosa, ma, ancora oggi, ogni qual volta se ne presenta l’occasione, lo ripeschiamo da noi stessi l’anatema. Il più delle volte ci battiamo il petto e lo riconosciamo, forse con un sorriso sghembo, che certo un po’ pazzi siamo sempre stati ma soprattutto, da secoli e nei secoli, mal unidos, divisi, in continua lotta l’uno con l’altro e invidiosi l’uno dell’altro. Visto però che popoli privi di conflitti edi invidie al loro interno pare non ne esistono sulla faccia della terra, la domanda può essere posta in altro modo. In termini comparativi, cioè. La domanda è: noi sardi, siamo più di altri portati alla disunione e all’ invidia? Qualche sociologo che ha provato a misurare l’immisurabile – sentimenti, abitudini, propensioni culturali – dice di sì, che i sardi sono più invidiosi di altri e che l’invidia diffusa causa significativi ritardi nello sviluppo.

 

Non è solo che l’erba del vicino è sempre più verde, è che si gode a vederla rinsecchire quest’erba e magari si gode avedere crepare di fame il vicino. E se si viene chiamati a scegliere tra la sua rovina ed un nostro modesto successo, è la rovina del vicino che si preferisce. Così dicono i sociologi che hanno studiato la cosa e noi dobbiamo crederci, anche perché è purtroppo quello che, empiricamente, vediamo intorno a noi. Quanto agli storici, manca a tutt’oggi una “Storia sociale dell’invidia sarda” che pure ne avrebbe da raccontare. Rimane quindi il problema di capire cosa sia questa invidiosa disamistade, quali siano le sue radici e che cosa la alimenti. Che sia scritta nei nostri geni, mi pare tesi ardimentosa e comunque indimostrabile. Più facile abbia a che fare col nostro vivere in un’isola lontana da ogni possibile Continente. E magari col fatto, tornando a Carlo V, di essere poco. Pochi e isolati: può essere questa la radice dell’invidia.

 

Se poi questi pochi tendono a concentrasi nei villaggi o in piccole città che per secoli sono stati villaggi (è lungo e difficile imparare a essere città) allora si inizia a capire dove abbia le sue radici la mala pianta. Si vive in uno spazio socialmente angusto, dove le solidarietà più forti, qualche volta le uniche, sono quelle della famiglia e del clan. Se l’invidia è in ultima analisi una forma di stupidità – la stupidità di non capire che in una comunità la cooperazione avvantaggia tutti – allora la si combatte diffondendo, illuministicamente, la comprensione delle cose. Una delle lezioni  de La favola delle api di Mandeville è che gli individui possono trovare un reciproco vantaggio e una mutua soddisfazione anche muovendosi con intenzioni diverse e perseguendo interessi diversi. Le api di Mandeville sono evidentemente una metafora della società, una società che vive degli scambi e della interazione tra gli individui e che a un’idea astratta e raggelante di perfezione sostituisce la coscienza della propria perfettibilità.

 

Una società aperta, insomma, che si contrappone alla tribal socety (come direbbe il grande economista liberale Friedrich von Hayek) dove domina lo spirito di divisione, la contrapposizione dei clan, l’invidia. P.S. A proposito del Man credo che, lasciate le polemiche e dopo aver salutato con affetto e orgoglio la chiamata di Cristiana Collu alla prestigiosa direzione del Mart, sia giunto il momento di aprire una fase positiva e propositiva. La scelta della nuova direttrice o direttore del Manpotrebbe essere l’occasione di sperimentare procedure non da tribal society ma da società aperta: un concorso trasparente che faccia seguito a un bando trasparente e che premi una persona di comprovata capacità ed esperienza specifica. Tanto per capirci, tutto il contrario di come, nella stragrande maggioranza dei casi, sono solitamente individuati in Sardegna i direttori delle Asl. Servirebbe al Man, servirebbe alla cultura sarda, servirebbe alla Sardegna.

10 dicembre 2011

di Luciano Marrocu

 

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