La depressione è una dea, di Daniela Puliga
Prof.ssa Donatella Puliga, Lei è autrice del libro La depressione è una dea edito dal Mulino: anche i Romani soffrivano del “male oscuro”?
Quello che noi chiamiamo “male oscuro” (ricordo che si tratta del fortunato titolo di un romanzo di Giuseppe Berto, poi ereditato da una delle più importanti scuole di psichiatria contemporanea) non è una patologia né uno stato d’animo riferibile solo ai nostri giorni. I Romani- è quello che nel mio libro cerco di dimostrare- lo conoscevano bene.
Qual era la concezione della depressione per i Romani?
Naturalmente nel dialogo che affrontiamo con gli antichi dobbiamo evitare facili identificazioni e sovrapposizioni di categorie “nostre” e “loro”.
Dal punto di vista di questa affezione dell’anima le facili “attualizzazioni” sarebbero pericolose. Certamente i Romani avevano elaborato una riflessione sul “male di vivere” (altra espressione moderna, questa, che dobbiamo alla poesia di Eugenio Montale) tutta particolare, che anche linguisticamente si legava (più che all’idea dell’abbattimento, dell’”essere a terra”, dell’”essere schiacciati verso il basso “, come rivela la radice del verbo de-primere) all’idea del “marcire”, dell’”essere putrefatto”: un’idea che richiamava la condizione di morte, quella “morte nella vita” che chi soffre del male oscuro, ad ogni latitudine del tempo, è portato a sperimentare. E questa idea di marcere (a cui si lega poi l’aggettivo marcidus e murcidus) è la stessa che si ritrova nel nome di una singolare divinità, Murcia, divinità femminile che aveva il potere di infiacchire gli animi, di renderli, appunto, marcescenti come cadaveri.
Quando e come nacque il culto di Murcia?
Murcia appartiene alla schiera molto numerosa dei cosiddetti dèi minuti – distinti dagli dei magni -, che erano divinità preposte a singoli momenti della vita e dell’attività umana. Per ogni aspetto dell’esistenza (dalla nascita ai primi passi, dalle prime parole del bambino ai lavori dell’uomo adulto) i Romani avevano pensato una divinità. Ma di queste divinità- per uno di quei felici paradossi con cui talora la conoscenza deve fare i conti- noi sappiamo molto di più dai nemici di quella religione che dai Romani stessi. È infatti S. Agostino, da fiero avversario del “politeismo” romano (anche su questo concetto, che nasce a partire dai monoteismi e quindi in una prospettiva in partenza svalutante, ci sarebbe molto da discutere), a citare moltissimi nomi di queste divinità, tra cui appunto quello di Murcia, aggiungendo che si tratta di una dea che rendeva gli uomini eccessivamente pigri e inattivi, e la cui azione era contrastata da quella della dea Agenora, che spingeva all’azione, e di Strenia e Stimula, che rendevano energici e addirittura sfrenati. Ma molto prima di Agostino, già lo storico Livio parlava di un piccolo tempio dedicato a Murcia, e che era collocato sotto l’Aventino. Possiamo quindi affermare che il culto era vivo a Roma almeno in età repubblicana, ma doveva essere sicuramente molto più antico.
Cos’era il veternus?
L’idea del marcio sottesa al nome di Murcia sconfinava poi in un altro ambito, quello della vecchiaia, al quale fa riferimento un altro termine che i Romani- a quanto ci dicono le fonti – utilizzavano per definire il male oscuro: si tratta di veternus. Il veternus era – secondo il commentatore dell’Eneide, Servio, che usa questa parola quando parla dell’età dell’oro evocata da Virgilio nelle Georgiche (un’età in cui gli uomini non avevano bisogno di lavorare, perché la terra produceva spontaneamente i suoi frutti)- uno stato di indolenza e apatia, una malattia interiore (che modernità, in questo morbus intercus!) che rendeva gli uomini pigri, letargici, vecchi prima del tempo
Numerosi autori latini hanno raccontato e descritto la depressione: quali sono gli esempi più importanti?
Il primo a parlare del veternus come tratto saliente della propria personalità è il poeta Orazio, che – senza avere precedenti letterari espliciti da questo punto di vista- si definisce in una famosa Epistola (I,8) come abitato da un torpore mortale (funestus veternus), che lo rende come paralizzato senza che questa paralisi sia motivata da cause oggettive, proprio come succede ai depressi – diremmo oggi- di tipo endogeno e non esogeno. Ma certo Orazio era già debitore a Lucrezio, che a sua volta aveva descritto in versi straordinari questa inquietudine umana che porta l’individuo a essere sballottato tra noia e iperattività, proprio come accade a chi crede che cambiare cielo significhi cambiare animo. Ma grandi testimonianze di personalità portata alla depressione sono quelle che si evincono pure da alcuni tratti dell’opera di Cicerone, soprattutto dal suo epistolario. La lettera privata è infatti lo spazio tradizionalmente dedicato alla estrinsecazione degli stati d’animo più inconfessabili pubblicamente.
Quali rimedi adottavano i Romani per curare il male di vivere?
Sicuramente un autore che ci fornisce una sorta di prontuario medico-spirituale per gestire la depressione è il filosofo Seneca. Il suo trattato Sulla tranquillità dell’animo dovrebbe trovare posto non solo nella biblioteca, ma nella cartella da lavoro di tanti uomini e donne dei nostri giorni. Da lui apprendiamo una metodica di gestione del taedium vitae basata sulla consapevolezza di se stessi e dei propri limiti, sulla capacità di prendere le distanze da persone e situazioni ansiogene, sulla coscienza della propria fragilità che è forse proprio la prima cifra della solidità interiore. Ma su questo potremmo versare fiumi di inchiostro. Proprio come hanno fatto loro, i nostri classici, molto prima che la moderna psichiatria e psicologia definissero i tratti di una malattia che – come cerco di dimostrare nel mio libro – di moderno ha ben poco.
LA LETTURA, 2 febbraio 2020